Presentato
in anteprima mondiale nel settembre del 2022 al Telluride Film Festival, Empire
of Light di Sam Mendes si presenta ai prossimi Oscar con una sola magra
nomination, quella per la migliore fotografia a Roger Deakins, suo collaboratore
sin da Jarhead (2005) e già due volte vincitore dellambita statuetta, rispettivamente
per Blade Runner 2049 (2018) di Denis Villeneuve e per il
pluripremiato 1917 (2019), memorabile, virtuosistica pellicola firmata sempre
da Mendes. A tre anni di distanza da questultimo titolo, il cineasta nato a Reading
vira verso una produzione dalle tinte fortemente intimistiche, inserendosi sulla
medesima scia di svariati lavori usciti nellultimo periodo: da Belfast (2021)
di Kenneth Branagh a The Fabelmans (2022) di Steven Spielberg,
da Roma (2018) di Alfonso Cuarón a È stata la mano di Dio
(2021) di Paolo Sorrentino fino ad arrivare a Bardo, falsa crónica de unas cuantas verdades (2022) di Alejandro González Iñárritu. Formatosi come
regista teatrale a partire dalla fine degli anni Ottanta – portando sul
palcoscenico Sartre, Čechov, Shakespeare, Pinter
fino alla recente messa in scena londinese di Lehman Trilogy di Stefano
Massini (2018-2020) –, solo nel 1999 passa dietro la macchina da presa con il
folgorante esordio American Beauty, vetta, purtroppo, mai più
eguagliata.
Una scena del film Ambientata
agli inizi degli anni Ottanta nella cittadina costiera di Margate, sud-est
dellInghilterra, la vicenda si dipana attorno allEmpire Cinema, punto di
riferimento per gli spettatori della zona ma soprattutto per il personale che
vi lavora, imbastendo di fatto una dialettica tra il microcosmo delledificio e
il macrocosmo pulsante allesterno. Tra i dipendenti, la direttrice di sala
Hilary (Olivia Colman), il giovane di colore Stephen (Micheal Ward)
e il responsabile della struttura Donald Ellis (Colin Firth), con cui la
protagonista intrattiene, quasi per inerzia, una relazione adulterina. Se Hilary,
oltre alla solitudine, deve fare quotidianamente i conti con un disturbo
schizofrenico che si aggrava quando decide di interrompere la terapia farmacologica,
Stephen è costretto invece a subire numerosi e brutali episodi di razzismo,
mentre cerca di svincolarsi da una ottusa provincia che sottostà ai disordini e
alla mentalità retrograda durante i primi anni di governo Thatcher:
tensioni sociali, recessione, austerity e una subcultura che condiziona
addirittura labbigliamento, lacconciatura, le abitudini di consumo così come le
scelte musicali. Avvinti da unattrazione reciproca, i due iniziano a
frequentarsi nonostante la notevole differenza detà. Dopo una serie di
vicissitudini, Hilary dovrà tuttavia fare i conti con ostacoli più imponenti
della propria volontà, arrendendosi alla malattia prima di ritornare a lottare,
guadagnandosi una seconda possibilità per giungere a una vera e propria rinascita.
Una scena del film
Empire
of Light
accarezza con sensibilità svariate tematiche: dal razzismo alla questione
anagrafica in amore, dalla decadenza urbana allabbandono, dalla
stigmatizzazione allautoisolamento fino a ricamare unode allarte
cinematografica. Questa varietà di tematiche viene trattata purtroppo con
superficialità, senza spunti di approfondimento. Diversa considerazione se si
analizza tutto limpianto di sceneggiatura come una sorta di flusso di
coscienza dellautore. Tra vari omaggi filmici, da Chariots of Fire (1981) di Hugh Hudson a Being There (1979) di Hal Ashby,
la pellicola sembra non decollare nemmeno nei momenti strutturati ad hoc,
risultando piuttosto ridondante, incapace di valorizzare i seppur esigui cambi
di registro e a tratti intrisa di svenevole sentimentalismo fine a sé stesso.
Si è piuttosto lontani dalle atmosfere claustrofobiche delle relazioni amorose in
Revolutionary Road (2008) o del ritmo e del clima in Road to
Perdition (2002). A mettere ordine nel caravanserraglio dellultima fatica
di Mendes ci pensa il comparto attoriale, fra tutti Olivia Colman, inspiegabilmente
snobbata dagli Academy nonostante sia, senza ombra di dubbio, una delle
interpreti più credibili e incisive da circa un decennio a questa parte, a
cominciare da lavori con Yorgos Lanthimos quali The Lobster
(2015) e soprattutto The Favourite (2018) (titolo che le ha valso lOscar
come miglior attrice protagonista). Ammirevoli anche le prove in The Father
(2020) di Florian Zeller e nel più recente The Lost Daughter di Maggie
Gyllenhaal (2021).
Una scena del film
Prova
esemplare anche quella del pressoché esordiente Michael Ward, giamaicano classe
1997, capace di tenere le redini di alcuni momenti nei quali la tensione
drammaturgica sembra sprofondare verso lignoto, complice una certa piattezza
di scrittura. Purtroppo impalpabile, come in numerose recenti pellicole,
linterpretazione di Colin Firth, relegato in un ruolo privo di mordente e,
dunque, troppo facilmente dimenticabile. Di gran lunga più sicura e decisa la
performance di Toby Jones, nel ruolo della figura mitologica e ormai
svanita del proiezionista: lattore londinese, in un paio di scene didascaliche
e retoriche, riesce tuttavia a restituire un senso di nostalgia e trasporto
verso la settima arte, parlando di luce, movimento, polvere e suoni, fino a
descrivere con fare poetico il fascio luminoso che attraversa la sala per
ricreare sul telone una via di fuga per gli spettatori.
Una scena del film
Altre
menzioni sono doverose nei confronti delle ragguardevoli e funzionali scelte
musicali a cura di Trent Reznor e Atticus Ross, due volte premio
Oscar per la miglior colonna sonora, rispettivamente per The Social Network (2010)
di David Fincher e per Soul (2021) di Pete Docter. I due
autori lavorano per restituire la controcultura giovanile del tempo, dal reggae
allhip-hop passando per Bob Dylan - con il "profetico" brano It's Alright, Ma (I'm Only Bleeding) - e Cat Stevens. La regia, incorporea
e impostata, mette però in risalto le scelte legate ai costumi e alle
scenografie, con spazi mastodontici che si alternano a dettagli eloquenti, tesi
a restituire un clima di decadenza e di rincorsa alla magnificenza.
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