La storia più o meno vera narra della rischiosa quanto irresistibile ascesa della giovane Abigail Hill nelle grazie della fragile regina Anna (prima donna sul trono dInghilterra e ultimo regnante della casata degli Stuart) a scapito della potentissima duchessa Sarah di Marborough, sua cugina. Dopo che il padre lha persa al gioco ed è bruciato nel suo castello con i suoi debiti, Abigail (Emma Stone) arriva a corte al colmo della disperazione chiedendo aiuto a Sarah (Rachel Weisz). Questultima la manda tra la servitù, ma la giovane riesce (con coraggio e grazie a qualche conoscenza officinale) ad avvicinare la regina che decide di tenerla con sé. Inizia così tra le cugine una partita a due che si rivela meno impari del previsto.
Una scena del film
© Biennale Cinema 2018
“Risciacquare i suoi panni” nella corte inglese del Settecento e soprattutto confrontarsi con una sceneggiatura scritta da altri (Deborah Davis e Tony McNamara, che a loro volta hanno tratto ispirazione da un radiodramma della BBC) fa decisamente bene a Lanthimos. Costretto a girare in una location barocca così lontana dai freddi e geometrici ambienti di The Lobster e del Sacrificio del cervo sacro, il regista deve necessariamente depurare il suo cinema da quelle preordinate, fastidiose esagerazioni di surreale per aprirsi a un più divertito e divertente rapporto con gli spettatori e, soprattutto, con i suoi attori. Anzi, in questo caso, con le attrici cui finisce per permettere fin troppo.
Le tre protagoniste guidano la scena attraverso tre registri recitativi diversi. Unistrionica e un po eccessiva Olivia Colman crea una regina debole, confusa, provata dalla perdita di diciassette figli (nati morti o vissuti pochissimo e sostituiti da altrettanti conigli che girano per la sua camera), inadatta al potere, condizionata dalle sofferenze fisiche e dalle nevrosi. Unalgida Rachel Weisz dà vita a una determinata, supponente e a tratti androgina plenipotenziaria di corte, che sottovaluta le capacità della cugina. Emma Stone conferma le sue doti di forte ecletticità in contesti e generi diversi, giocando spesso con il voluto effetto straniante di alcuni furbi atteggiamenti più da giovane americana che da cortigiana del XVIII secolo.
Una scena del film
© Biennale Cinema 2018
Certo Lanthimos non rinuncia alla sua passione per quei personaggi che destabilizzano situazioni e relazioni allapparenza consolidate (anche se poi nessuna lo è davvero); né si esime dal mostrare la crudeltà e la stupidità della natura umana, ben rappresentata da quella corte di nobili debosciati che, mentre dichiarano guerre affamando il popolo, non trovano di meglio che scommettere appassionatamente sulle corse di anatre organizzate nelle stanze reali.
The Favourite, consapevole delle sue potenzialità, ci consegna un Lanthimos finalmente “scongelato” che, svincolato dalla tetra geometria delle sue usuali inquadrature, abusa di ottiche grandangolari o fortemente deformanti (il
fisheye), tanto che alla fine si smarrisce il senso del loro irrompere sullo schermo. Resta limpressione che il regista sia partito per girare il suo
Barry Lyndon e abbia poi optato per una variante cattiva e perversa di
Alice nel paese delle meraviglie: perché, in fondo, fa bene a tutti non prendersi troppo sul serio.