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Se una notte d'inverno andando al cinema

di Davide Bianchi
  The Fabelmans
Data di pubblicazione su web 07/02/2023  

Non ci stancheremo mai di vedere un film sul cinema. Perché, oltre a parlare un po’ del cinema e un po’ della vita, come diceva Truffaut, parla di un immaginario che ha plasmato i riferimenti visivi del nostro pensare. Per questo motivo, forse, The Fabelmans, ultima opera di Steven Spielberg ispirata al proprio vissuto e co-sceneggiata da Tony Kushner, è capace di irretire così tanto lo spettatore, catturando lo sguardo su una vetrina d’epoca da cui si affaccia un’archeologia dei media e insieme vi si specchia la curiosità di penetrare quel mondo ormai concluso.

In una fredda sera di fine anno, Mitzi (Michelle Williams) e Burt Fabelman (Paul Dano) portano al battesimo del fuoco del cinema il figlio Sam (Mateo Zoryan Francis-DeFord da bambino, interpretato da Gabriel LaBelle da ragazzo), ideale alter ego dello stesso Spielberg. In cartellone c’è The Greatest Show on Earth, con la magia del glorious technicolor, della semioscurità squarciata dal proiettore. L’amore di Sam per il cinema nasce quella sera, protagonista di un percorso travagliato di delusione, crescita e rapporti familiari lungo più di dieci anni in cui emerge una volontà sempre più tangibile: quella di dare vita alle immagini e alle storie. Questa fiamma accompagna Sam durante l’infanzia e l’adolescenza, tra film di genere e proiezioni, cineprese ed espedienti tecnici. Come Burt non manca di far notare al figlio, fare il regista è un po’ come fare l’ingegnere: si deve trovare di volta in volta la soluzione al problema.

Una scena del film
Una scena del film
© 2022 Universal Studios and Amblin Entertainment

Spielberg sembra trovare, al problema (auto)biografico, una soluzione estetica composta da una fotografia soffusa (curata da Janusz Kaminski) e da una luce umida, che richiama fortemente l’estetica dell’America suburbana a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta. A questa si aggiungono la prova attoriale di Dano e Williams che danno risalto alle rispettive figure genitoriali, l’uno dall’indole razionale, serafico e pacato, l’altra comprensiva ed estrosa. La cornice visiva dettata dal regista segue il modus operandi canonico dell’autore, che adotta elementi stilistici sempre originali arricchendo anche la più semplice delle situazioni senza per questo snaturarla. Ne risulta così una confezione vivace, che soffre solo in parte proprio dell’eccessiva leziosità, in alcune circostanze, del reparto fotografico.

Se il flusso della narrazione scorre sottopelle, intensa ma frazionata, lo spettacolo del cinema industriale come fabbrica dei sogni funge da rinforzo drammatico e di contesto nell’economia del racconto. Il punto di convergenza, però, è il rapporto personale con il cinema e la propria famiglia da parte del protagonista. Nel susseguirsi degli eventi, infatti, i filmini diventano il termometro e lo sfogo creativo di Sam Fabelman, a partire dal tentativo di ricreare il finale di The Greatest Show. Quell’evento mette fin da subito a tema la necessità del bambino di coniugare il proprio bisogno di dominio del reale (anticamera dell’arte) con le prerogative dei genitori, a partire da un luogo (una stanza piena di televisori difettosi) che funge da altare sacrificale alla maggior gloria dello schermo d’argento. Da lì si dipana la convinzione che tenendo il cinema in mano – letteralmente proiettato sui palmi! – e vivisezionandolo in moviola tutto può essere controllato e orientato secondo il proprio desiderio.

Una scena del film © 2022 Universal Studios and Amblin Entertainment
Una scena del film
© 2022 Universal Studios and Amblin Entertainment

L’oggetto-cinema all’interno del film, tuttavia, vive di un polimorfismo dovuto alla duplice funzione connaturata nei formati substandard (16mm, 8mm, Super8), cui proprio la dilatazione del racconto permette di sedimentarsi. Il cinema amatoriale, infatti, è tanto un prodotto dell’interpretazione della realtà, sceneggiato e montato alla stregua di un prodotto hollywoodiano, quanto un supporto per la memoria privata, non adulterata, che fissa una tranche de vie in cui la verità viene imprigionata. Proprio questa impossibilità di fraintendere l’immagine, e di piegarla alle proprie esigenze, costituisce il punto di rottura e motore concettuale di The Fabelmans. Attorno, infatti, vi si ancorano da un lato la creazione di un mythos a partire da un’esperienza reale – che a conti fatti è il ruolo del cantastorie – e dall’altro un regime di sguardo peculiare: la soggettiva dal mirino della cinepresa amatoriale, quella di Sam, si sovrappone infatti di rado al punto di vista dello spettatore. È una scelta narrativa precisa, che censura il pieno ingresso nell’universo del racconto quasi a voler sottolineare la rarefazione di quei momenti, troppo intimi per poter essere divulgati. La vita, insomma, è raccontata in modo più limpido da una sua riproduzione che dall’osservazione diretta, e il mondo dei Fabelman si colloca proprio a cavallo di questa dimensione, al confine tra l’idealizzazione e la cronaca personale di un decennio. Dimensione che, in conclusione, si rivolge a uno spettatore forse troppo specifico, che ha vissuto quell’epopea o, fuori tempo massimo, vi si è appassionato.

Una scena del film © 2022 Universal Studios and Amblin Entertainment
Una scena del film
© 2022 Universal Studios and Amblin Entertainment

Spielberg si ritaglia quindi una nostalgica visione del passato, in bilico tra l’eulogia del cinema e il feticismo della pellicola. Riesce però a non sbilanciarsi e a mantenere un’equidistanza tale da permettere a una storia di insinuarsi e crescere, smagliando un’ambientazione che poteva risultare eccessivamente smaccata. I (pochi) riferimenti meta-cinematografici e ammiccanti, tuttavia, al limite del divertissement autocelebrativo, e il didascalismo di talune circostanze rischiano di alterare una messinscena ordinata, che sazia comunque il pubblico nonostante un ritmo un po’ impacciato e una linearità forse fin troppo semplicistica.

The Fabelmans
cast cast & credits
 


La locandina

La locandina

 
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