Non ci stancheremo mai di vedere un film sul cinema.
Perché, oltre a parlare un po del cinema e un po della vita, come diceva Truffaut, parla di un immaginario che
ha plasmato i riferimenti visivi del nostro pensare. Per questo motivo, forse, The
Fabelmans, ultima opera di Steven Spielberg ispirata al proprio
vissuto e co-sceneggiata da Tony Kushner, è capace di irretire così tanto
lo spettatore, catturando lo sguardo su una vetrina depoca da cui si affaccia
unarcheologia dei media e insieme vi si specchia la curiosità di penetrare
quel mondo ormai concluso.
In una fredda sera di fine anno, Mitzi (Michelle Williams)
e Burt Fabelman (Paul Dano) portano al battesimo del fuoco del cinema il
figlio Sam (Mateo Zoryan Francis-DeFord da bambino, interpretato da Gabriel
LaBelle da ragazzo), ideale alter ego dello stesso Spielberg. In cartellone
cè The Greatest Show on Earth, con la magia del glorious technicolor,
della semioscurità squarciata dal proiettore. Lamore di Sam per il cinema
nasce quella sera, protagonista di un percorso travagliato di delusione,
crescita e rapporti familiari lungo più di dieci anni in cui emerge una volontà
sempre più tangibile: quella di dare vita alle immagini e alle storie. Questa
fiamma accompagna Sam durante linfanzia e ladolescenza, tra film di genere e
proiezioni, cineprese ed espedienti tecnici. Come Burt non manca di far notare
al figlio, fare il regista è un po come fare lingegnere: si deve trovare di
volta in volta la soluzione al problema. 
Una scena del film
© 2022 Universal Studios and Amblin Entertainment
Spielberg sembra trovare, al problema (auto)biografico,
una soluzione estetica composta da una fotografia soffusa (curata da Janusz
Kaminski) e da una luce umida, che richiama fortemente lestetica
dellAmerica suburbana a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta. A questa si
aggiungono la prova attoriale di Dano e Williams che danno risalto alle
rispettive figure genitoriali, luno dallindole razionale, serafico e pacato,
laltra comprensiva ed estrosa. La cornice visiva dettata dal regista segue il modus
operandi canonico dellautore, che adotta elementi stilistici sempre originali
arricchendo anche la più semplice delle situazioni senza per questo snaturarla.
Ne risulta così una confezione vivace, che soffre solo in parte proprio delleccessiva
leziosità, in alcune circostanze, del reparto fotografico.
Se il flusso della narrazione scorre sottopelle, intensa
ma frazionata, lo spettacolo del cinema industriale come fabbrica dei sogni funge
da rinforzo drammatico e di contesto nelleconomia del racconto. Il punto di
convergenza, però, è il rapporto personale con il cinema e la propria famiglia
da parte del protagonista. Nel susseguirsi degli eventi, infatti, i filmini diventano
il termometro e lo sfogo creativo di Sam Fabelman, a partire dal tentativo di
ricreare il finale di The Greatest Show. Quellevento mette fin da subito
a tema la necessità del bambino di coniugare il proprio bisogno di dominio del reale
(anticamera dellarte) con le prerogative dei genitori, a partire da un luogo
(una stanza piena di televisori difettosi) che funge da altare sacrificale alla
maggior gloria dello schermo dargento. Da lì si dipana la convinzione che
tenendo il cinema in mano – letteralmente proiettato sui palmi! – e
vivisezionandolo in moviola tutto può essere controllato e orientato secondo il
proprio desiderio. 
Una scena del film © 2022 Universal Studios and Amblin Entertainment
Loggetto-cinema allinterno del film, tuttavia, vive di
un polimorfismo dovuto alla duplice funzione connaturata nei formati
substandard (16mm, 8mm, Super8), cui proprio la dilatazione del racconto
permette di sedimentarsi. Il cinema amatoriale, infatti, è tanto un prodotto
dellinterpretazione della realtà, sceneggiato e montato alla stregua di un prodotto
hollywoodiano, quanto un supporto per la memoria privata, non adulterata, che
fissa una tranche de vie in cui la verità viene imprigionata. Proprio
questa impossibilità di fraintendere limmagine, e di piegarla alle proprie
esigenze, costituisce il punto di rottura e motore concettuale di The
Fabelmans. Attorno, infatti, vi si ancorano da un lato la creazione di un mythos
a partire da unesperienza reale – che a conti fatti è il ruolo del cantastorie
– e dallaltro un regime di sguardo peculiare: la soggettiva dal mirino della
cinepresa amatoriale, quella di Sam, si sovrappone infatti di rado al punto di
vista dello spettatore. È una scelta narrativa precisa, che censura il pieno ingresso
nelluniverso del racconto quasi a voler sottolineare la rarefazione di quei
momenti, troppo intimi per poter essere divulgati. La vita, insomma, è raccontata
in modo più limpido da una sua riproduzione che dallosservazione diretta, e il
mondo dei Fabelman si colloca proprio a cavallo di questa dimensione, al
confine tra lidealizzazione e la cronaca personale di un decennio. Dimensione
che, in conclusione, si rivolge a uno spettatore forse troppo specifico, che ha
vissuto quellepopea o, fuori tempo massimo, vi si è appassionato.

Una scena del film
© 2022 Universal Studios and Amblin Entertainment
Spielberg si ritaglia quindi una nostalgica visione del
passato, in bilico tra leulogia del cinema e il feticismo della pellicola.
Riesce però a non sbilanciarsi e a mantenere unequidistanza tale da permettere
a una storia di insinuarsi e crescere, smagliando unambientazione che poteva risultare
eccessivamente smaccata. I (pochi) riferimenti meta-cinematografici e
ammiccanti, tuttavia, al limite del divertissement autocelebrativo, e il
didascalismo di talune circostanze rischiano di alterare una messinscena
ordinata, che sazia comunque il pubblico nonostante un ritmo un po impacciato e
una linearità forse fin troppo semplicistica.
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