Se
non fosse stato il film di un maschio bianco pluripremiato avrebbe potuto
vincere il Leone doro. Ma gli handicaps erano, appunto, molti. E poi un Leone
dargento non è così male.
Presentato come un film intimista
e autobiografico, con il quale il cinquantenne regista italiano più premiato
del millennio decide di fare direttamente i conti con il proprio passato, È stata la mano di Dio è ben più che una
confessione autobiografica. Certamente, dopo trentanni in cui ha fatto di
tutto e venti di parossistica attività registica, il premio Oscar che ha
veleggiato in tutti i campi della creazione artistica si concede una pausa e si
permette di presentarsi a nudo, con la ferita immedicabile della propria tragedia
personale. Che viene presentata in tutta la sua evidenza cronistica, senza
orpelli o abbellimenti, segnando il punto di svolta del film ma anche della
vita: la morte per asfissia, banale e perciò ancor più immedicabile, dei
genitori nella villetta di famiglia di Roccaraso.

Una scena del film
A
quel punto il film cambia direzione e diventa la personalissima storia di
formazione del protagonista che troverà pian piano, grazie agli amici, grazie
alle relazioni ereditate, grazie allo sguardo che progressivamente ritorna limpido,
la capacità di piangere e quindi quella di rimettersi in relazione con il
mondo, non solo quello dei sentimenti. Ma prima di essere questo, prima di
risolvere nella linearità della narrazione il quesito (per quanto intricato)
delle scelte individuali il film è ben altro. Dal punto di vista della cronaca
il giovane Paolo si salva perché il
padre, consentendogli di andare in trasferta a vedere il Napoli di Maradona, gli ha di fatto salvato la
vita. Ma in quella manifestazione di affetto non cè solo il legame tra padre e
figlio.
Cè lepopea di una
città, la Napoli degli anni 80, che affida allannuncio dellarrivo di
Maradona la sua rinascita e che dimentica umiliazioni secolari nella
costruzione di un nuovo mito. E non importa se il mito si sgretolerà, sempre
più simile al Munaciello del Folklore Napoletano, spirito folletto imprendibile
e dispettoso che non per caso (dopo gli omaggi di Giovan Battista Basile, Roberto
Bracco, Petito, Eduardo) viene
posto quasi in esergo allinizio del film.
Una scena del film
Dopo
il sontuoso piano sequenza che abbraccia la città e il Golfo dando la misura di
una natura smisurata, la macchina da presa piomba nel cuore della città e fa
del Munaciello la sentinella della vita urbana. Avvertendo a mo di didascalia
che la partita si giocherà tra illusione e realtà. “La mano di dio”, evocata in
maniera così irridente da Maradona per giustificare il più materiale fallo di
mano che aveva condotto alla sconfitta dellInghilterra nei campionati del
mondo del 1986, potrebbe essere davvero lemblema di una cultura fatalista. È stata
la mano di dio, Se dio vuole, Inshallah. Un pacato fatalismo circola in tutto
il film, un fatalismo che non è inerzia ma, al contrario, una vitalità che
cerca i suoi sbocchi al di là della tragedia. Più che un amarcord (non si
riesce a citare Sorrentino senza una spolveratina felliniana) un dialogo tra un
giovane e il suo destino.
Ma prima che diventi
dialogo il dialogo è sostenuto da un coro straordinario di comprimari (tutti
protagonisti nel piccolo spazio concesso dal regista demiurgo): personaggi
impagabili che solo una civiltà teatrale come quella napoletana può mettere a
disposizione. E non si parla certo solo dellimmenso Toni Servillo (il padre che illumina con tutta la sua controllata
dismisura la prima parte del film), né di Teresa
Saponangelo (la madre, un piccolo miracolo di equilibrio tra sentimento e
presentimento) né di Luisa Ranieri (la splendida zia che annega nella follia il
suo eros indisciplinato) né del giustamente premiato Filippo Scotti (nel ruolo protagonistico di Fabietto, alter ego del
regista). Sono tutti i comprimari che danno al film il sapore della civiltà
teatrale: Marion Joubert, Renato Carpentieri, Massimiliano Gallo, Betti Pedrazzi, Enzo Decaro, Sofia
Gershevich, Lino Musella
(presente anche nellaltro grande inno alla civiltà teatrale napoletana Qui rido io di Mario Martone), Biagio Manna.
La prima parte del film la più bella, la più compatta, prima che una certa
difficoltà a chiudere renda il finale un po slabbrato, è anche il piacere di un
gioco corale.
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