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Una mostra bellissima

di Sara Mamone
  Venezia 2021
Data di pubblicazione su web 14/09/2021  

È stato bello, un bellissimo festival al quale il meteo ha regalato come valore aggiunto un’incredibile sequenza di giorni magici, una Venezia splendente di luce e di tepore, negli spettatori la percezione della rinascita e quindi una grazia inconsueta nelle file ai traghetti, nelle attese ai posti di controllo, persino nell’accettazione di un’infelice piattaforma di prenotazioni che in altri tempi avrebbe scatenato una rivolta lagunare. Ed è stato un bellissimo festival per la ricchezza, la varietà, la diversità dei film presentati. Se il cinema è produzione possiamo dire che l’isolamento della pandemia è stato occasione fertilissima di creazione; se il cinema è però anche (e vogliamo continuare fermamente a crederlo) occasione di incontro, dobbiamo attendere col fiato sospeso che i bei film visti a Venezia trovino la strada di una distribuzione capillare e l’entusiasmo di un pubblico che non abbia paura di uscire e ritrovarsi.  

Al di là dei gusti e delle propensioni personali infatti molto di quel che si è visto merita una vita in sala, pochissime sono state infatti le pellicole inerti. Anzi forse c’è da lamentare qualche esclusione dalla rassegna maggiore. La presenza italiana è stata foltissima, non si poteva chiedere di più, però resta difficile comprendere l’esclusione dalla selezione principale di Ariaferma di Leonardo Di Costanzo, di pochi mezzi e di grande forza, severo, essenziale e potente, racconto morale illuminato dalla maestria di Toni Servillo e Silvio Orlando, al servizio dei personaggi, nascosti in una recitazione minimale della quale solo i grandi attori sono capaci. 

L’Italia ha comunque fatto la parte del leone, e non solo quantitativamente, anzi la qualità è stata tale che alla fine i premi sono risultati, ma non poteva essere altrimenti, un po’ riduttivi. Un gran festival, si sa, non è fatto di algoritmi ma di alchimie dove la mano di dio contempera molte esigenze (artistiche certo, ma anche produttive, distributive, politiche, pedagogiche etc. etc.) e la giuria tutto questo deve mescolare prima di estrarre dal cappello i suoi verdetti. E parliamo quest’anno di una giuria che non si è compiaciuta di épater les bourgeois come pare aver fatto l’ultima di Cannes, in piena rotta di collisione con ogni parere critico. Il leone veneziano “all’unanimità” è andato a L’événement di Audrey Diwan, quarantenne regista parigina che lo ha tratto dall’omonimo romanzo di Annie Ernaux (uscito nel 2000). Ottimo film che si avvale della penetrante espressività della giovane interprete Anamaria Vartolomei, attrice francorumena che ha adottato in pieno l’impegno della vigorosa regista a favore delle donne e delle pari opportunità. Per fortuna la storia delle traversie affrontate dalla giovane e brillante studentessa per portare a termine un aborto fortissimamente voluto nella Francia opprimente degli anni Sessanta non urla un diritto ma fa vivere sulla pelle le conseguenze del disagio, della sofferenza, dell’isolamento. È una storia intima che non risparmia la dimensione fisica del percorso, la violenza di immagini difficili da sostenere. Bello e forte, di un’attualità che avremmo voluto superata e che invece si ripropone proprio in questi giorni, e non nelle parti più arretrate del mondo. Sarebbe forse bastato un Leone d’argento, non per suoi demeriti ma per meriti di altri concorrenti?


Paolo Sorrentino, Leone d’Argento - Gran Premio della Giuria

Dato che anche nei festival chi entra papa esce cardinale e spesso, come nei concorsi pubblici, il più bravo arriva secondo, dobbiamo registrare una conferma con il Leone d’argento a È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino che non solo ha riempito le cronache con la preannunciata svolta intimista e autobiografica ma che se n’è uscito con un’opera ricchissima sotto l’apparente semplicità: il romanzo di formazione sarà anche la storia del suo autore che finalmente fa i conti con il trauma personale della morte tragica dei genitori. Ma niente è solo personale in questo film, niente ci induce a compiangere l’orfano e tutto ci porta a godere ogni immagine, il meraviglioso concerto di attori cui la macchina da presa regala status di protagonisti. Che meraviglia quel disorientante inizio con il munaciello del folklore napoletano che ci mette in guardia da ogni tentazione letterale e che meraviglia i personaggi dell’infanzia (non solo i familiari) in una Napoli fecondata dal sogno dell’arrivo del dio Diego Armando Maradona al quale la città affida il ripristino di un orgoglio dismesso da secoli! Ed è quella mano di dio alla quale aveva affidato la vittoria dei campionati mondiali del 1986 contro l’Inghilterra, la vera protagonista del film, quella mano di Dio che non era soltanto il gesto irridente di un grande campione ma la fiducia un po’ superstiziosa in un Burattinaio che avrebbe saputo proteggere il suo destino.

Film corale ma con due simmetrici protagonisti mette a confronto anche due stili recitativi di differente impatto: quello stemperato e sognante del frastornato protagonista (Filippo Scotti che certo ha meritato il premio Mastroianni per il miglior esordiente) e quello personalissimo e grondante di un talento e di una tradizione irripetibili di Toni Servillo. Che è stato il grande sacrificato di questo palmarès dove il dubbio era se sarebbe stato premiato per il film di Sorrentino o per la fenomenale performance nell’altrettanto egregio Qui rido io di Mario Martone, fascinosa ricostruzione della vita di Eduardo Scarpetta. Al grande attore napoletano padre di una doppia discendenza di artisti (gli Scarpetta legittimi e i De Filippo naturali) Martone ha dedicato un’opera compatta, accurata, ben orchestrando le voci dei suoi interpreti principali e contando sull’inesauribile serbatoio di artisti napoletani per la parte più corale. Una delizia la ricostruzione dell’ambiente familiare e non meno riuscito il quadro della Napoli del tempo sbalzata dalle pagine del processo per plagio intentato da D’Annunzio al Figlio di Iorio. Sappiamo bene che i premi non sono infiniti e spesso si è abusato degli ex aequo ma il film meritava un po’ più che niente.


Jane Campion, Leone d’Argento per la Miglior Regia

In riga con le ambizioni della regista e il bon ton internazionale il Leone d’argento per la miglior regia a Jane Campion, accurata ricostruttrice di ambienti e di anime non facili in The Power of the Dog dal romanzo di Thomas Savage con il carismatico e per noi personalmente insopportabile Benedict Cumberbatch. I grandi spazi di questo western ambientato nel Montana e le atmosfere asfittiche del piccolo chiuso mondo della famiglia Burbank, gli allevatori più ricchi della vallata, trovano nello sguardo attento della regista ricchezza di sfumature e una convincente drammaticità.

Ineccepibile la coppa Volpi per la miglior interprete femminile a Penelope Cruz, laureata per Madres Paralelas di Pedro Almodóvar ma non meno premiabile per la gara di bravura con Antonio Banderas in Competencia Official di Gastón Duprat e Mariano Cohn; quindi tutto a posto: attrice eccellente, grande nome, grande regista. Meno scontata la versione maschile del palmares: la coppa Volpi per la miglior interpretazione al protagonista del fluviale On the Job: The Missing 8: John Arcilla. Non abbiamo notizie della reazione di Toni Servillo, da tutti dato per scontato vincitore per una delle due strepitose performances negli egregi È stata la mano di Dio e Qui rido io (non in corsa per l’altrettanto impeccabile prova in Ariaferma, non in concorso). Forse un eccesso di esposizione? Ad alcuni ha fatto venire in mente il glorioso Giro d’Italia del 1930 in cui gli organizzatori diedero ad Alfredo Binda il corrispettivo del premio al vincitore purché non partecipasse.


Penélope Cruz, Coppa Volpi per la Migliore Interpretazione Femminile

Miglior sceneggiatura (ma francamente ci pare un premio di incoraggiamento) è stata decretata la riduzione del romanzo di Elena Ferrante The Lost Daughter per la garbata mano di Maggie Gyllenhaal. Gli andirivieni tra seduzioni estive e sussulti memoriali, retti con plausibile finezza da Olivia Colman, ci sono parsi descrittivi, privi di nerbo e drammaticità.

Ricordando opportunamente l’identità di Mostra internazionale d’arte cinematografica la giuria ha infine assegnato il Premio speciale a Il buco di Michelangelo Frammartino, che racconta senza parole la storia della scoperta dell’Abisso del Bifurto, nella Sila calabrese, ad opera di un gruppo di speleologi piemontesi nell’estate del 1961. Mentre il sud dell’Italia si spopolava e il nord si inorgogliva dell’inaugurazione del milanese Pirellone, il gruppetto penetrava nelle viscere di questo anfratto carsico, nel disinteresse generale, tranne forse quello di un pastore che vigilava, come i suoi avi, lo scorrere del tempo, nella natura immota. Una natura squarciata fino a settecento metri di profondità, dove il regista e i suoi hanno filmato ciò che sembrerebbe infilmabile aggiungendo queste viscere alla meraviglia del creato.

Arrivederci in sala. Ne varrà la pena.







Paolo Sorrentino e Toni Servillo alla 78ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2021 

Si veda qui l’elenco dei premiati















John Arcilla, Coppa Volpi per la Migliore Interpretazione Maschile









 
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