È
stato bello, un bellissimo festival al quale il meteo ha regalato come valore
aggiunto unincredibile sequenza di giorni magici, una Venezia splendente di
luce e di tepore, negli spettatori la percezione della rinascita e quindi una
grazia inconsueta nelle file ai traghetti, nelle attese ai posti di controllo,
persino nellaccettazione di uninfelice piattaforma di prenotazioni che in
altri tempi avrebbe scatenato una rivolta lagunare. Ed è stato un bellissimo
festival per la ricchezza, la varietà, la diversità dei film presentati. Se il
cinema è produzione possiamo dire che lisolamento della pandemia è stato
occasione fertilissima di creazione; se il cinema è però anche (e vogliamo
continuare fermamente a crederlo) occasione di incontro, dobbiamo attendere col
fiato sospeso che i bei film visti a Venezia trovino la strada di una
distribuzione capillare e lentusiasmo di un pubblico che non abbia paura di
uscire e ritrovarsi.
Al
di là dei gusti e delle propensioni personali infatti molto di quel che si è
visto merita una vita in sala, pochissime sono state infatti le pellicole
inerti. Anzi forse cè da lamentare qualche esclusione dalla rassegna maggiore.
La presenza italiana è stata foltissima, non si poteva chiedere di più, però
resta difficile comprendere lesclusione dalla selezione principale di Ariaferma di Leonardo Di Costanzo, di pochi mezzi e di grande forza, severo,
essenziale e potente, racconto morale illuminato dalla maestria di Toni Servillo e Silvio Orlando, al servizio dei personaggi, nascosti in una
recitazione minimale della quale solo i grandi attori sono capaci.
LItalia
ha comunque fatto la parte del leone, e non solo quantitativamente, anzi la
qualità è stata tale che alla fine i premi sono risultati, ma non poteva essere
altrimenti, un po riduttivi. Un gran festival, si sa, non è fatto di algoritmi
ma di alchimie dove la mano di dio contempera molte esigenze (artistiche certo,
ma anche produttive, distributive, politiche, pedagogiche etc. etc.) e la
giuria tutto questo deve mescolare prima di estrarre dal cappello i suoi
verdetti. E parliamo questanno di una giuria che non si è compiaciuta di épater les bourgeois come pare aver
fatto lultima di Cannes, in piena rotta di collisione con ogni parere critico.
Il leone veneziano “allunanimità” è andato a Lévénement di Audrey Diwan,
quarantenne regista parigina che lo ha tratto dallomonimo romanzo di Annie Ernaux (uscito nel 2000). Ottimo
film che si avvale della penetrante espressività della giovane interprete Anamaria Vartolomei, attrice
francorumena che ha adottato in pieno limpegno della vigorosa regista a favore
delle donne e delle pari opportunità. Per fortuna la storia delle traversie
affrontate dalla giovane e brillante studentessa per portare a termine un
aborto fortissimamente voluto nella Francia opprimente degli anni Sessanta non
urla un diritto ma fa vivere sulla pelle le conseguenze del disagio, della
sofferenza, dellisolamento. È una storia intima che non risparmia la
dimensione fisica del percorso, la violenza di immagini difficili da sostenere.
Bello e forte, di unattualità che avremmo voluto superata e che invece si
ripropone proprio in questi giorni, e non nelle parti più arretrate del mondo. Sarebbe
forse bastato un Leone dargento, non per suoi demeriti ma per meriti di altri
concorrenti?
Paolo Sorrentino, Leone dArgento - Gran Premio della Giuria
Dato
che anche nei festival chi entra papa esce cardinale e spesso, come nei
concorsi pubblici, il più bravo arriva secondo, dobbiamo registrare una
conferma con il Leone dargento a È
stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino
che non solo ha riempito le cronache con la preannunciata svolta intimista e
autobiografica ma che se nè uscito con unopera ricchissima sotto lapparente
semplicità: il romanzo di formazione sarà anche la storia del suo autore che
finalmente fa i conti con il trauma personale della morte tragica dei genitori.
Ma niente è solo personale in questo film, niente ci induce a compiangere
lorfano e tutto ci porta a godere ogni immagine, il meraviglioso concerto di
attori cui la macchina da presa regala status
di protagonisti. Che meraviglia quel disorientante inizio con il munaciello del
folklore napoletano che ci mette in guardia da ogni tentazione letterale e che
meraviglia i personaggi dellinfanzia (non solo i familiari) in una Napoli
fecondata dal sogno dellarrivo del dio Diego
Armando Maradona al quale la città affida il ripristino di un orgoglio dismesso
da secoli! Ed è quella mano di dio alla quale aveva affidato la vittoria dei
campionati mondiali del 1986 contro lInghilterra, la vera protagonista del
film, quella mano di Dio che non era soltanto il gesto irridente di un grande
campione ma la fiducia un po superstiziosa in un Burattinaio che avrebbe
saputo proteggere il suo destino.
Film
corale ma con due simmetrici protagonisti mette a confronto anche due stili
recitativi di differente impatto: quello stemperato e sognante del frastornato
protagonista (Filippo Scotti che
certo ha meritato il premio Mastroianni per il miglior esordiente) e quello personalissimo
e grondante di un talento e di una tradizione irripetibili di Toni Servillo.
Che è stato il grande sacrificato di questo palmarès dove il dubbio era se
sarebbe stato premiato per il film di Sorrentino o per la fenomenale
performance nellaltrettanto egregio Qui rido io di Mario Martone,
fascinosa ricostruzione della vita di Eduardo
Scarpetta. Al grande attore
napoletano padre di una doppia discendenza di artisti (gli Scarpetta legittimi e i De
Filippo naturali) Martone ha dedicato unopera compatta, accurata, ben
orchestrando le voci dei suoi interpreti principali e contando
sullinesauribile serbatoio di artisti napoletani per la parte più corale. Una
delizia la ricostruzione dellambiente familiare e non meno riuscito il quadro
della Napoli del tempo sbalzata dalle pagine del processo per plagio intentato
da DAnnunzio al Figlio di Iorio. Sappiamo bene che i premi
non sono infiniti e spesso si è abusato degli ex aequo ma il film meritava un po più che niente.
Jane Campion, Leone dArgento per la Miglior Regia
In
riga con le ambizioni della regista e il bon
ton internazionale il Leone dargento per la miglior regia a Jane Campion, accurata ricostruttrice
di ambienti e di anime non facili in The
Power of the Dog dal romanzo di Thomas
Savage con il carismatico e per noi personalmente insopportabile Benedict Cumberbatch. I grandi spazi di
questo western ambientato nel Montana e le atmosfere asfittiche del piccolo
chiuso mondo della famiglia Burbank, gli allevatori più ricchi della vallata,
trovano nello sguardo attento della regista ricchezza di sfumature e una
convincente drammaticità.
Ineccepibile
la coppa Volpi per la miglior interprete femminile a Penelope Cruz, laureata per Madres Paralelas di Pedro Almodóvar ma
non meno premiabile per la gara di bravura con Antonio Banderas in Competencia
Official di Gastón Duprat e Mariano Cohn; quindi tutto a posto:
attrice eccellente, grande nome, grande regista. Meno scontata la versione maschile
del palmares: la coppa Volpi per la
miglior interpretazione al protagonista del fluviale On
the Job: The Missing 8: John Arcilla. Non abbiamo notizie della
reazione di Toni Servillo, da tutti dato per scontato vincitore per una delle
due strepitose performances negli
egregi È
stata la mano di Dio e Qui rido io (non in corsa per
laltrettanto impeccabile prova in Ariaferma,
non in concorso). Forse un eccesso di esposizione? Ad alcuni ha fatto venire in
mente il glorioso Giro dItalia del 1930 in cui gli organizzatori diedero ad Alfredo Binda il corrispettivo del
premio al vincitore purché non partecipasse.
Penélope Cruz, Coppa Volpi per la Migliore Interpretazione Femminile
Miglior
sceneggiatura (ma francamente ci pare un premio di incoraggiamento) è stata
decretata la riduzione del romanzo di Elena
Ferrante The
Lost Daughter per la
garbata mano di Maggie Gyllenhaal. Gli
andirivieni tra seduzioni estive e sussulti memoriali, retti con plausibile
finezza da Olivia Colman, ci sono
parsi descrittivi, privi di nerbo e drammaticità.
Ricordando
opportunamente lidentità di Mostra internazionale darte cinematografica la
giuria ha infine assegnato il Premio speciale a Il buco di Michelangelo
Frammartino, che racconta senza parole la storia della scoperta dellAbisso
del Bifurto, nella Sila calabrese, ad opera di un gruppo di speleologi
piemontesi nellestate del 1961. Mentre il sud dellItalia si spopolava e il nord
si inorgogliva dellinaugurazione del milanese Pirellone, il gruppetto
penetrava nelle viscere di questo anfratto carsico, nel disinteresse generale,
tranne forse quello di un pastore che vigilava, come i suoi avi, lo scorrere
del tempo, nella natura immota. Una natura squarciata fino a settecento metri
di profondità, dove il regista e i suoi hanno filmato ciò che sembrerebbe
infilmabile aggiungendo queste viscere alla meraviglia del creato.
Arrivederci
in sala. Ne varrà la pena.
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