Dieci
anni fa il film Lévenement della
giovane regista franco-libanese Audrey
Diwan, tratto dallomonimo romanzo di Annie
Ernaux (Gallimard 2000), sarebbe forse sembrato anacronistico. O forse
semplicemente sarebbe stato visto come un film storico che riproduceva
mentalità e modi di vita superati una volta per sempre. E invece, poiché la
Storia non è mai lineare e le conquiste non sono mai definitive, ecco che il
tema diventa di così bruciante attualità da fare di questa opera quasi un film
militante. Di che si parla? Si parla del romanzo autobiografico con cui
lautrice narrava la sua esperienza giovanile di un aborto clandestino. Nella
civilissima e cattolicissima Francia dei primi anni Sessanta del secolo scorso la
pratica era ancora clandestina e la parola stessa era tabu. La legge di
depenalizzazione dellaborto verrà varata solo nel 1975 grazie alla sofferta
autorevolezza di Simone Veil. In
alcuni stati dei civilissimi States laborto oggi sta per ritornare illegale.
Una scena del film
Il
film non grida diritti né emette condanne ma, semplicemente, racconta con
lucidità e precisione litinerario di dolore percorso dalla protagonista
incinta, giovanissima studentessa di modeste origini, che vive sola, sempre più
sola, il disagio della sua situazione. Quasi un journal intime che si trasforma in cronaca. Dagli scherzi e dalle
complicità con le compagne di studi, dai primi flirt, dai successi scolastici
la protagonista arriva alla presa di coscienza di unassoluta solitudine. Anne
passa attraverso la delusione per lallontanamento delle amiche, la fuga del
responsabile (altrettanto giovane e ancor più impaurito), la gelida incomprensione
dei medici. Non le resta che percorrere la via crucis di tante donne,
affidandosi allavida competenza di una mammana. È una storia intima che non
risparmia la dimensione fisica del percorso, la violenza di immagini difficili
da sostenere. La regista ha guidato questo cammino senza alcun cedimento,
ricostruendo con sobrietà e precisione il viluppo di complicità e il
disorientamento generale di una società incapace di essere al passo con i tempi.
Dove, come sempre succede in questi casi, anche i più deboli, i meno esperti,
diventano anelli della catena di montaggio (lamica del cuore che la respinge
proprio nel momento di maggior bisogno). Ma sono anche i momenti in cui la vera
solidarietà, anche se obliqua, anche se nascosta, può fare la differenza.
Il Leone doro assegnato
allunanimità dalla giuria veneziana molto deve (insieme allo stile asciutto che
dà al racconto lapparente oggettività del reportage) al talento della
protagonista, la giovane franco-rumena Anamaria
Vartolomei. Giovane ma già molto esperta, sugli schermi doltralpe da circa
un decennio (esordio undicenne accanto a Isabelle
Huppert), lattrice è riuscita a dare vita a un personaggio ricchissimo e
sfumato, sfuggendo a ogni inquadratura il rischio dimostrativo. Capace anche
lei di prendere per mano lo spettatore portandolo a percorrere tutti i gradini
della discesa agli inferi e della risalita finale.
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