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Com’è profondo il mare

di Nicola Rakdej
  Roma
Data di pubblicazione su web 03/09/2018  

La volontà di ripercorrere il tempo e la memoria ha riportato Alfonso Cuarón alle sue radici e al suo Messico, paese natale che aveva lasciato con grande commozione sulla spiaggia di Y tu mama tambien: l’immagine dei tre vitali protagonisti che ammiravano il mare era lì metafora di una scelta di vita più consapevole, lontano dalla famiglia e dalla sicurezza giovanile. Così, dopo l’Oscar ottenuto esplorando il profondo vuoto dello spazio (il citato Gravity), per Cuarón è arrivata l’ora di ritornare a casa. Guardarsi alle spalle a distanza di tempo non è solo frutto della nostalgia, ma anche un modo per affermarsi nel mondo, capire che tipo di persona si vuol essere e quale eredità si intende lasciare a chi verrà dopo di noi. Già presente in forma distopica nel complesso I figli degli uomini, la rimembranza del tempo che fu e la costruzione di un domani migliore per i “figli” sembra essere il motivo per cui Roma è stato concepito, avendo voluto immortalare per i posteri un passato d’affetti e avventure che non deve essere confinato solo in una sfera privata. Un film che dimostra una rottura col passato (anche cinematografico) senza mai perderlo di vista.

Già presente nell’epilogo dell’odissea kubrickiana di Gravity, l’acqua come elemento di nascita e rinascita irrompe dietro i titoli di testa quasi a volerli cancellare, con un movimento ondulatorio che ricorda il mare sulla battigia. Specchiato su un piccolo frammento di “mare” si intravede un piccolo aereo di linea in volo, forse simbolo di una speranza o di un futuro probabile. In verità ci troviamo nel cortile interno di una villa medio-borghese (in un quartiere di Città del Messico chiamato per l’appunto Roma), dove la domestica Cloe sta pulendo le piastrelle in attesa del ritorno della famiglia per cui lavora. La macchina da presa poi si alza svelando il contesto e iniziando una danza piano-sequenziale nel flusso mnemonico, fattosi forza di tutta la tecnica che Cuarón ha affinato nel tempo: dai carrelli ai dolly a un piccolo bagaglio di effettistica digitale (soprattutto nel bianco e nero che sembra richiamare gli ultimi lavori di Lav Diaz), il regista messicano usa ogni strumento a lui più congeniale per muoversi in un’architettura scenografica piena zeppa di storia-Storia, persone microcosmi, spazi vitali e oggettistica dal forte carico emotivo.


Una scena del film
© Biennale Cinema 2018

Al fianco del semplice intreccio che ruota intorno a quella che nella finzione è la numerosa famiglia di Cuarón (nonna, madre, padre e tre fratelli), comprensiva di tutto l’apparato domestico (il vero protagonista), si sente l’odore degli anni Settanta con i problemi sociali e politici ricostruiti in modo da non restringerli al ruolo di mera cornice bensì da innalzarli a cuore pulsante dietro qualsiasi gesto. Non a caso una delle sequenze più belle è la cruenta soppressione di un corteo studentesco, visibile dall’alto attraverso la finestra di un edificio. 

Come se non bastasse, trasuda politica tutto il percorso “di formazione” di Cloe (Yalitza Aparicio), soprattutto da quando rimane incinta di colui che pensava potesse essere il suo compagno di vita: una maternità a tappe che rimanda alla riflessione sul ruolo della donna negli ambiti lavorativo, civile e famigliare. «Qualsiasi cosa ti dicano, noi siamo sole» le viene detto dalla signora di casa in balia dell’alcol e della delusione. Mentre Cloe aspetta con tanta incertezza il realizzarsi dell’eredità (che si tramuterà in un lancinante senso di colpa), la famiglia che la ospita deve affrontare la separazione dei genitori e capire l’importanza del ruolo materno in una condizione di solitudine; su binari paralleli, questi viaggi intimi e complementari ne vanno a costruire un altro di più ampio respiro in cui ci si chiede quali siano gli elementi che definiscono un nucleo famigliare, al di là della tradizione e delle aspettative socialmente riconosciute.


Una scena del film
© Biennale Cinema 2018

Scavando nel sostrato cinefilo tipico della produzione di Cuarón, la Roma del titolo potrebbe essere un simbolo: non tanto di qualcosa oltre i confini del Messico cui aspirare quanto dell’esistenza in ogni parte del globo di un luogo mitologico sempre al centro dell’esistenza umana, come la stessa Città Eterna frutto delle ossessioni dei tanti registi italiani presi quale fonte d’ispirazione (PasoliniFellini, i fratelli Taviani). Vedendo quanto la vita a Città del Messico si realizzi in pochi spazi di raduno (che sia un cortile, un cinema “paradiso” o una galleria piena di macchine che sembra uscire da 8 e mezzo) non può che venire in mente la concezione universale della Capitale felliniana, in cui si metteva in scena l’intero genere umano nella sua storia-Storia e nelle sue ironiche, circensi contraddizioni.

Infine, attraverso una precisa e incantevole struttura ciclica, ritorna l’immagine di una spiaggia paradisiaca dove si compie ancora una volta la rinascita dell’essere umano capace ormai di accettare la bellezza dell’essere “qui e ora” e di avere un ruolo da svolgere per l’altrui felicità. Il mare è nuovamente il fulcro di senso di un racconto che, nonostante numerose insidie e sofferenze, non si lascia mai andare a un profondo sconforto. Come lo spettatore che rimane totalmente incantato e commosso da così tanto amore le infinite declinazioni del cinema e della vita.



Roma
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