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Si tú no vuelves

di Giuseppe Mattia
  Nostalgia
Data di pubblicazione su web 20/06/2022  

Una citazione di Pasolini su schermo nero, tratta da Poesie in forma di rosa (Milano, Garzanti, 1964), apre la finestra sull’undicesimo lungometraggio di Mario Martone (conteggiando anche Rasoi del 1993), presentato in concorso ufficiale durante l’ultimo Festival di Cannes. Diventato ormai un habitué del Lido veneziano, la sua prima apparizione sulla Croisette risale invece a L’amore molesto (1995), mentre, per l’ultima, bisogna risalire addirittura a diciotto anni fa, quando L’odore del sangue (2004) concorse nella sezione Quinzaine des Réalisateurs. Dopo l’incomprensibile mancata incetta di premi per Qui rido io (2021), il regista classe ’59 torna in sala con un noir tratto dall’omonimo romanzo del concittadino Ermanno Rea, ambientato nel napoletano come quasi tutti i suoi titoli. Ne La pelle (Roma-Milano, Aria d’Italia, 1949), Curzio Malaparte scrive: «Napoli è la più misteriosa città d’Europa, è la sola città del mondo antico che non sia perita come Ilio, come Ninive, come Babilonia. È la sola città del mondo che non è affondata nell’immane naufragio della civiltà antica. Napoli è una Pompei che non è stata mai sepolta. Non è una città: è un mondo. Il mondo antico, precristiano, rimasto intatto alla superficie del mondo moderno».



Una scena del film

Dopo circa quarant’anni Felice (Pierfrancesco Favino) fa ritorno da Il Cairo a Napoli, nello spettrale quartiere Sanità, dov’è nato e cresciuto prima di scappare in Libano. Questa sua fuga a quindici anni lo ha salvato da una vita quasi certamente condannata alla criminalità, considerate le amicizie malsane di cui si era circondato. Dall’alto di un grattacielo situato nel Centro Direzionale del capoluogo campano, come un figliol prodigo redento scende alla cieca tra i vicoli immutati della sua infanzia, in un avvicinamento progressivo e ineluttabile dentro il “ventre di Napoli”. In prima istanza si reca dall’ottuagenaria madre (Aurora Quattrocchi), intenta a condurre una vita appartata in un desolato e angusto “vascio” (qui una delle sequenze più intense degli ultimi decenni, con il figlio che lava la madre in un catino di plastica). Giorno dopo giorno, il protagonista-flâneur ritorna al suo passato: parla con gli abitanti della zona, rivive i codici del luogo e i riti sociali, percorre le strade di un tempo assaporando sapori creduti persi. Un giorno entra in contatto con la comunità ecclesiastica del quartiere, incarnata da Don Luigi, interpretato da Francesco Di Leva, memorabile protagonista de Il sindaco di Rione sanità (2019). Il parroco è l’emblema della contrapposizione civile e pacifica alla delinquenza locale – ampiamente diffusa tra giovani e giovanissimi – ricordando la figura di don Giuseppe Diana, barbaramente trucidato dalla camorra. Don Luigi più volte esorta Felice a scappare via da Napoli, a ritornare in Egitto dalla moglie (Sofia Essaïdi) e sfuggire, quindi, al confronto con il boss più temuto da tutti: Oreste Spasiano detto ‘O Malommo (Tommaso Ragno), amico d’infanzia del protagonista – sua nemesi – con il quale condivide un tragico segreto.



Una scena del film

Quella di Favino è un’altra prova “sopra le righe”, talmente accurata da sembrare forse sovraccarica nell’intenzione di aderire quanto più possibile al personaggio, di certo complesso e stratificato. Il picco del suo percorso interpretativo nel film si ha verso la compiuta evoluzione fonetica e lessicale, dalla cadenza arabofona a quella più strettamente di lingua napoletana (considerando anche l’origine romana dell’attore). La sua attenzione all’aspetto linguistico è comprovata da svariate esperienze, dal fiorentino del televisivo Gino Bartali – L’intramontabile (2006) al siciliano de Il traditore (2019) fino al calabrese in Padrenostro (2020).

Il lavoro sulle inquadrature è accurato, sicuramente scaturito dall’amore viscerale per la parte oscura della città, così lontana dall’immagine abilmente confezionata per i turisti. Lirismo ma anche crudezza si alternano nel reparto registico, in un equilibrio estetico che diventa anche morale. Una nota di merito è dovuta all’ineccepibile fotografia di Paolo Carnera (allievo di Carlo Di Palma), già distintosi magistralmente in Favolacce (2020). La Napoli di Martone, croce e delizia, è respingente ma ammaliante, temibile ma accattivante, come quella dell’ultima parte de Il giovane favoloso (1914), filmata con maestria durante il dantesco peregrinaggio del poeta recanatese. Il quartiere Sanità – già set desichiano per L’oro di Napoli (1954) e per Ieri, oggi, domani (1963) – è forse il vero protagonista del film, nel quale si mostra nella sua malinconica superficie ma anche nelle sue misteriose cavità (Catacombe di San Gaudioso e Cimitero delle Fontanelle).



Una scena del film

La sceneggiatura – realizzata dall’ormai consolidata coppia composta dal regista e dalla moglie Ippolita Di Majo – è costituita idealmente da due sezioni distinte: nella prima il protagonista si cala nel ruolo di figlio premuroso e sensibile, nella seconda vira verso un inesorabile inabissamento nella parte oscura del suo passato, il quale talvolta riaffiora attraverso fugaci flashback. Come si evince dal titolo, il regista mette in scena il dolore del ritorno, la difficoltà di riannodare i fili col passato dopo lo spaesamento dovuto alla perdita delle proprie radici. Felice (nome “non” omen) è un Ulisse che ritorna a Itaca per riappropriarsi della propria identità dopo anni di esilio forzato. La struttura drammaturgica è sostanzialmente episodica, tesa ad aggiungere un tassello dopo l’altro per far comprendere allo spettatore le motivazioni della fuga di Felice e la sua incontrovertibile scelta di un confronto con l’amico camorrista.

Il leitmotiv della filmografia di Martone combacia con uno o più personaggi – come nel caso di Noi credevamo (2010) – avviluppati in un perenne disagio esistenziale, esito di un trauma o comunque di un elemento rimosso con violenza, pronto a erompere in vista di un’agognata catarsi. La cifra stilistica dell’autore si conferma nella magistrale conduzione del comparto attoriale, dai personaggi principali alle comparse, così come nei lunghi discorsi in elegante stile teatrale intavolati in ambienti chiusi, ostili e precari. Insomma, un’altra opera di egregia fattura si aggiunge al prolifico periodo di Martone, che lo conferma come uno (se non il primo) dei migliori registi italiani di oggi.




Nostalgia
cast cast & credits
 


La locandina del film



 
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