Una
citazione di Pasolini su schermo
nero, tratta da Poesie in forma di rosa (Milano, Garzanti, 1964), apre
la finestra sullundicesimo lungometraggio di Mario Martone (conteggiando
anche Rasoi del 1993), presentato in concorso ufficiale durante lultimo
Festival di Cannes. Diventato ormai un habitué del Lido veneziano, la sua
prima apparizione sulla Croisette risale invece a Lamore molesto (1995),
mentre, per lultima, bisogna risalire addirittura a diciotto anni fa, quando Lodore
del sangue (2004) concorse nella sezione Quinzaine des Réalisateurs. Dopo lincomprensibile
mancata incetta di premi per Qui rido io (2021), il regista classe 59
torna in sala con un noir tratto dallomonimo romanzo del concittadino Ermanno
Rea, ambientato nel napoletano come quasi tutti i suoi titoli. Ne La
pelle (Roma-Milano, Aria dItalia, 1949), Curzio Malaparte scrive: «Napoli è la più misteriosa città dEuropa,
è la sola città del mondo antico che non sia perita come Ilio, come Ninive,
come Babilonia. È la sola città del mondo che non è affondata nellimmane
naufragio della civiltà antica. Napoli è una Pompei che non è stata mai
sepolta. Non è una città: è un mondo. Il mondo antico, precristiano, rimasto
intatto alla superficie del mondo moderno».
Una scena del film Dopo
circa quarantanni Felice (Pierfrancesco Favino) fa ritorno da Il Cairo
a Napoli, nello spettrale quartiere Sanità, dovè nato e cresciuto prima di
scappare in Libano. Questa sua fuga a quindici anni lo ha salvato da una vita quasi
certamente condannata alla criminalità, considerate le amicizie malsane di cui
si era circondato. Dallalto di un grattacielo situato nel Centro Direzionale
del capoluogo campano, come un figliol prodigo redento scende alla cieca tra i
vicoli immutati della sua infanzia, in un avvicinamento progressivo e
ineluttabile dentro il “ventre di Napoli”. In prima istanza si reca dallottuagenaria
madre (Aurora Quattrocchi), intenta a condurre una vita appartata in un
desolato e angusto “vascio” (qui una delle sequenze più intense degli ultimi
decenni, con il figlio che lava la madre in un catino di plastica). Giorno dopo
giorno, il protagonista-flâneur ritorna
al suo passato: parla con gli abitanti della zona, rivive i codici del luogo e
i riti sociali, percorre le strade di un tempo assaporando sapori creduti
persi. Un giorno entra in contatto con la comunità ecclesiastica del quartiere,
incarnata da Don Luigi, interpretato da Francesco Di Leva, memorabile
protagonista de Il sindaco di Rione sanità (2019). Il parroco è lemblema della contrapposizione civile e
pacifica alla delinquenza locale – ampiamente diffusa tra giovani e
giovanissimi – ricordando la figura di don Giuseppe
Diana, barbaramente trucidato dalla camorra. Don Luigi più volte esorta
Felice a scappare via da Napoli, a ritornare in Egitto dalla moglie (Sofia
Essaïdi) e sfuggire, quindi, al confronto con il boss più temuto da tutti: Oreste
Spasiano detto ‘O Malommo (Tommaso Ragno), amico dinfanzia del
protagonista – sua nemesi – con il quale condivide un tragico segreto.
Una scena del film
Quella
di Favino è unaltra prova “sopra le righe”, talmente accurata da sembrare
forse sovraccarica nellintenzione di aderire quanto più possibile al
personaggio, di certo complesso e stratificato. Il picco del suo percorso
interpretativo nel film si ha verso la compiuta evoluzione fonetica e
lessicale, dalla cadenza arabofona a quella più strettamente di lingua
napoletana (considerando anche lorigine romana dellattore). La sua attenzione
allaspetto linguistico è comprovata da svariate esperienze, dal
fiorentino del televisivo Gino Bartali – Lintramontabile (2006) al
siciliano de Il traditore (2019) fino al calabrese in Padrenostro
(2020).
Il
lavoro sulle inquadrature è accurato, sicuramente scaturito dallamore
viscerale per la parte oscura della città, così lontana dallimmagine abilmente
confezionata per i turisti. Lirismo ma anche crudezza si alternano nel reparto
registico, in un equilibrio estetico che diventa anche morale. Una nota di
merito è dovuta allineccepibile fotografia di Paolo Carnera (allievo di
Carlo Di Palma), già distintosi magistralmente in Favolacce (2020).
La Napoli di Martone, croce e delizia, è respingente ma ammaliante, temibile ma
accattivante, come quella dellultima parte de Il giovane favoloso
(1914), filmata con maestria durante il dantesco peregrinaggio del poeta
recanatese. Il quartiere Sanità – già set desichiano per Loro di Napoli
(1954) e per Ieri, oggi, domani (1963) – è forse il vero protagonista
del film, nel quale si mostra nella sua malinconica superficie ma anche nelle
sue misteriose cavità (Catacombe di San Gaudioso e Cimitero delle Fontanelle).
Una scena del film
La
sceneggiatura – realizzata dallormai consolidata coppia composta dal regista e
dalla moglie Ippolita Di Majo – è costituita idealmente da due sezioni
distinte: nella prima il protagonista si cala nel ruolo di figlio premuroso e
sensibile, nella seconda vira verso un inesorabile inabissamento nella parte
oscura del suo passato, il quale talvolta riaffiora attraverso fugaci
flashback. Come si evince dal titolo, il regista mette in scena il dolore del
ritorno, la difficoltà di riannodare i fili col passato dopo lo spaesamento
dovuto alla perdita delle proprie radici. Felice (nome “non” omen)
è un Ulisse che ritorna a Itaca per riappropriarsi della propria identità dopo
anni di esilio forzato. La struttura drammaturgica è sostanzialmente episodica,
tesa ad aggiungere un tassello dopo laltro per far comprendere allo spettatore
le motivazioni della fuga di Felice e la sua incontrovertibile scelta di un
confronto con lamico camorrista.
Il leitmotiv
della filmografia di Martone combacia con uno o più personaggi – come nel caso
di Noi credevamo (2010) – avviluppati in un perenne disagio
esistenziale, esito di un trauma o comunque di un elemento rimosso con
violenza, pronto a erompere in vista di unagognata catarsi. La cifra
stilistica dellautore si conferma nella magistrale conduzione del comparto
attoriale, dai personaggi principali alle comparse, così come nei lunghi
discorsi in elegante stile teatrale intavolati in ambienti chiusi, ostili e
precari. Insomma, unaltra opera di egregia fattura si aggiunge al prolifico periodo
di Martone, che lo conferma come uno (se non il primo) dei migliori registi italiani
di oggi.
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