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E dall'alba al tramonto sono soli nel sole

di Giuseppe Mattia
  Padrenostro
Data di pubblicazione su web 01/10/2020  

Dopo i due cortometraggi Aria (2005) e Adil e Yusuf (2007) e il lungometraggio d’esordio Good morning Aman (2009), Claudio Noce timbra la sua quarta partecipazione a Venezia, stavolta concorrendo nella sezione principale. Con Padrenostro Pierfrancesco Favino, qui anche in veste di produttore, si aggiudica la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile, chiudendo un indimenticabile 2020 con un David di Donatello per Il traditore (2019) e con un Globo d’oro e un Nastro d’argento per Hammamet (2020). Attraverso una regia che chiama in causa praticamente tutta la grammatica del cinema, Noce porta in laguna un film che oscilla tra la dimensione autobiografica e quella surreale, con indosso un vestito tragico ma con un profumo da coming-of-age story.


Una scena del film
© Biennale Cinema 2020

Il treno di una metropolitana sfreccia all’impazzata nel buio di una galleria. Inquadrature perpendicolari, pulite ed eleganti seguono un uomo disorientato che fatica a respirare. All’improvviso un blackout fisico (e metafisico) interrompe bruscamente la narrazione riportandoci nel 1976, prima a Roma e poi a Riace. Sono gli anni di piombo, qui raccontati di sfuggita: l’autografo di Giorgio Chinaglia su un pallone; ritagli di giornali d’epoca; una voce radiofonica che riporta gli orrori argentini della giunta militare guidata da Jorge Rafael Videla. Il film segue il percorso morale e psichico dell’undicenne Valerio Le Rose, interpretato dal giovane Mattia Garaci che regge tutto il peso del film, sostenuto da una regia che ne sfrutta pienamente le potenzialità. Valerio al tentato assassinio del padre (Favino) da parte dei Nuclei Armati Proletari, vicenda che riprende il reale attentato nei confronti del vicequestore Alfonso Noce, padre del regista. La sparatoria, qui proposta due volte (la seconda dal punto di vista dell’attentatore), viene trasposta con un utilizzo magistrale dello slow-motion, molto simile a quello (quasi) fiabesco degli ultimi lavori di Lars von Trier. Questo sbriciolamento dell’equilibrio narrativo innesca nel protagonista un processo traumatico con il quale dovrà fare i conti, tra dispnea, immaginazione e terrore.


Una scena del film
© Biennale Cinema 2020

Se la prima parte del film (quella romana) ricrea un’atmosfera cruda, concreta, ancorata al tragico, la seconda (quella calabrese) scivola nel disordine, nel solo “accennato”, accarezzando superficialmente i rapporti che Valerio intrattiene col padre e con il suo amico, forse inesistente, Christian (Francesco Gheghi): un malinconico, tremendo Lucignolo (non a caso, nell’incipit, nella stanza del giovane protagonista si intravede uno sfocato pupazzo di Pinocchio). I due preadolescenti vivono con affanno il lento avvicinamento alla coscienza morale, ognuno a suo modo ferito dall’orrore e dalla morte. Si danno la mano nelle difficoltà, tra furti e fughe, tra giuramenti col sangue e precipizi fatali, “guidati” dal meraviglioso montaggio di Giogiò Franchini e dalla splendida direzione della fotografia di Michele D’Attanasio. Molto originale l’utilizzo della musica che talvolta stride con le immagini, come nella scena in cui Buonanotte fiorellino di De Gregori accompagna la mitragliatrice degli attentatori ammiccando all’indimenticabile utilizzo di The Great Gig in the Sky dei Pink Floyd in Buongiorno, notte (2003) di Marco Bellocchio


Una scena del film
© Biennale Cinema 2020

Pellicola senza dubbio coraggiosa, inedita, esteticamente ineccepibile, con tre memorabili interpretazioni maschili. Geniale anche la scelta di mostrare la storia e la Storia attraverso gli occhi di un bambino, come nei capolavori neorealisti di De Sica e Rossellini. In particolar modo riuscito è il rapporto tra figlio e padre, quest’ultimo visto come un Cristo (quello di Mantegna) risorto dopo essere stato crivellato di colpi. Eppure non tutto funziona. La sceneggiatura si fa mano a mano confusa, scontando un accavallamento nella percezione del “reale” dovuto alla presenza di Christian che mischia le carte in tavola confondendo il pubblico. Ulteriore prova sono i frequenti cambi di registro che rendono sfumato e frastagliato l’avvicinamento allo scioglimento finale, come ad esempio il troppo brusco passaggio da momenti di alta tensione (reali) a momenti bucolici e quieti (onirici). Ne pagano le conseguenze gli spettatori, traditi e abbandonati a loro stessi.

In Padrenostro realtà, immaginazione e memoria coesistono troppo a fatica, ben lungi dalla dimensione felliniana che almeno alla fine trovava una tangibile unità. È noto che quanto più è impellente l’esigenza di raccontare qualcosa, tanto più difficile risulta gestire un ideale equilibrio. Se l’intento del regista era quello di rappresentare lo smarrimento del giovane protagonista (in un periodo storico dove il disorientamento è all’ordine del giorno), allora siamo davanti a un film memorabile. Altrimenti parliamo di qualcosa di incompiuto. Allo spettatore l’ardua sentenza.



Padrenostro
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