Dopo i due cortometraggi
Aria (2005) e
Adil e Yusuf (2007) e il lungometraggio desordio
Good morning Aman (2009), Claudio Noce timbra la sua quarta partecipazione a Venezia, stavolta concorrendo nella sezione principale. Con
Padrenostro Pierfrancesco Favino, qui anche in veste di produttore, si aggiudica la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile, chiudendo un indimenticabile 2020 con un David di Donatello per
Il traditore (2019) e con un Globo doro e un Nastro dargento per
Hammamet (2020). Attraverso una regia che chiama in causa praticamente tutta la grammatica del cinema, Noce porta in laguna un film che oscilla tra la dimensione autobiografica e quella surreale, con indosso un vestito tragico ma con un profumo da
coming-of-age story.
Una scena del film
© Biennale Cinema 2020
Il treno
di una metropolitana sfreccia allimpazzata nel buio di una galleria.
Inquadrature perpendicolari, pulite ed eleganti seguono un uomo disorientato
che fatica a respirare. Allimprovviso un blackout fisico (e metafisico)
interrompe bruscamente la narrazione riportandoci nel 1976, prima a Roma e poi
a Riace. Sono gli anni di piombo, qui raccontati di sfuggita: lautografo di Giorgio Chinaglia su un pallone; ritagli di giornali depoca; una voce radiofonica
che riporta gli orrori argentini della giunta militare guidata da Jorge Rafael Videla. Il film segue il percorso morale e psichico dellundicenne
Valerio Le Rose, interpretato dal giovane Mattia Garaci che regge tutto il
peso del film, sostenuto da una regia che ne sfrutta pienamente le potenzialità.
Valerio al tentato assassinio del padre (Favino) da parte dei Nuclei Armati
Proletari, vicenda che riprende il reale attentato nei confronti del vicequestore Alfonso Noce, padre del regista. La sparatoria, qui proposta due volte (la
seconda dal punto di vista dellattentatore), viene trasposta con un utilizzo
magistrale dello slow-motion, molto simile a quello (quasi) fiabesco degli
ultimi lavori di Lars von Trier. Questo sbriciolamento dellequilibrio
narrativo innesca nel protagonista un processo traumatico con il quale dovrà
fare i conti, tra dispnea, immaginazione e terrore.
Una scena del film
© Biennale Cinema 2020
Se la prima parte del film (quella romana) ricrea unatmosfera cruda, concreta, ancorata al tragico, la seconda (quella calabrese) scivola nel disordine, nel solo “accennato”, accarezzando superficialmente i rapporti che Valerio intrattiene col padre e con il suo amico, forse inesistente, Christian (
Francesco Gheghi): un malinconico, tremendo Lucignolo (non a caso, nell
incipit, nella stanza del giovane protagonista si intravede uno sfocato pupazzo di Pinocchio). I due preadolescenti vivono con affanno il lento avvicinamento alla coscienza morale, ognuno a suo modo ferito dallorrore e dalla morte. Si danno la mano nelle difficoltà, tra furti e fughe, tra giuramenti col sangue e precipizi fatali, “guidati” dal meraviglioso montaggio di
Giogiò Franchini e dalla splendida direzione della fotografia di
Michele DAttanasio. Molto originale lutilizzo della musica che talvolta stride con le immagini, come nella scena in cui
Buonanotte fiorellino di
De Gregori accompagna la mitragliatrice degli attentatori ammiccando allindimenticabile utilizzo di
The Great Gig in the Sky dei Pink Floyd in
Buongiorno, notte (2003) di
Marco Bellocchio.
Una scena del film
© Biennale Cinema 2020
Pellicola
senza dubbio coraggiosa, inedita, esteticamente ineccepibile, con tre
memorabili interpretazioni maschili. Geniale anche la scelta di mostrare la storia
e la Storia attraverso gli occhi di un bambino, come nei capolavori neorealisti
di
De Sica e
Rossellini. In particolar modo riuscito è il
rapporto tra figlio e padre, questultimo visto come un Cristo (quello di
Mantegna)
risorto dopo essere stato crivellato di colpi. Eppure non tutto funziona. La
sceneggiatura si fa mano a mano confusa, scontando un accavallamento nella
percezione del “reale” dovuto alla presenza di Christian che mischia le carte
in tavola confondendo il pubblico. Ulteriore prova sono i frequenti cambi di registro
che rendono sfumato e frastagliato lavvicinamento allo scioglimento finale,
come ad esempio il troppo brusco passaggio da momenti di alta tensione (reali) a
momenti bucolici e quieti (onirici). Ne pagano le conseguenze gli spettatori,
traditi e abbandonati a loro stessi.
In Padrenostro realtà, immaginazione e memoria coesistono troppo a fatica, ben lungi dalla
dimensione felliniana che almeno alla fine trovava una tangibile unità. È noto
che quanto più è impellente lesigenza di raccontare qualcosa, tanto più difficile
risulta gestire un ideale equilibrio. Se lintento del regista era quello di rappresentare
lo smarrimento del giovane protagonista (in un periodo storico dove il
disorientamento è allordine del giorno), allora siamo davanti a un film
memorabile. Altrimenti parliamo di qualcosa di incompiuto. Allo spettatore
lardua sentenza.