Dopo
il loro esordio alla regia con La terra dellabbastanza (2018), Damiano
e Fabio DInnocenzo si sono imposti allattenzione della critica internazionale
con Favolacce (2020), pellicola vincitrice dellOrso dargento per la
migliore sceneggiatura al 70° Festival Internazionale del Cinema di Berlino.
Limitati nella distribuzione cinematografica a causa dellemergenza Covid 19, i due gemelli hanno fino a ora
potuto contare sulle piattaforme streaming che, per quanto
provvidenziali, non rendono giustizia a un film pensato e realizzato per essere
fruito sul grande schermo.
In
una soleggiata periferia romana, col frinire assordante delle cicale come
colonna sonora, i registi romani dipingono una realtà marginale potenzialmente
universale e priva di precise coordinate temporali che riecheggia Dogman
(2018) di Matteo Garrone, al cui soggetto non a caso i DInnocenzo hanno
messo mano. In questo limbo galleggiano una dozzina di personaggi tra i quali è
difficile riconoscere il protagonista: una coralità centripeta sul punto di
implodere. Motore dellazione è la miseria umana nascosta tra le stanze di
villette a schiera simili a quelle statunitensi, con giardino, barbecue e piscine
gonfiabili.
Il
film si apre con nubi e temporale, preludio di una tragedia incombente. Prende
la parola una voce fuori campo (Max Tortora). Lespediente narrativo è il ritrovamento di un diario le cui
memorie cessano allimprovviso, lasciando al narratore onnisciente la precisa
missione di continuare la storia interrotta. «Quanto segue è ispirato ad una
storia vera… la storia vera è ispirata ad una storia falsa… La storia falsa non
è molto ispirata». La voce asettica di un giornalista irrompe nel soggiorno di
una delle abitazioni: prima di suicidarsi, due giovani genitori hanno affogato
nella vasca da bagno la figlia appena nata. È un incipit programmatico
che mette in guardia lo spettatore sulla faida tra adulti e bambini che si
dipanerà lungo il film. I primi si presentano come entità volgari, sboccate,
ciniche, frustrate, armate di un romanesco che ricorda alcuni primi film pasoliniani.
Al pari dei personaggi di Michael Haneke, anche i bambini si pongono
allinsegna della negatività in quanto specchi di uneducazione torbida e di
una società castrante. Ma come disse Jean Cocteau nel suo Le sang dun
poète (1930): «Gli specchi farebbero bene a riflettere un po di più prima
di rimandare le immagini». Sconfitti in partenza, intraprendono un percorso di
(de)crescita attraverso la scoperta della sessualità, delle problematiche
relazionali, dellipocrisia imperante. Invece di fuoriuscire dalla palude
melmosa lentamente vi affondano.
Una scena del film La
macchina da presa è portavoce di una decisa ricerca stilistica e di una forte
consapevolezza del mezzo cinematografico attraverso angolazioni e posizioni
inusuali (la scena è proposta attraverso vetri deformanti, specchi, fotocamere
di smartphone e riprese subacquee). Di non poco conto anche la scelta di
inquadrare dettagli allapparenza insignificanti come, in una delle sequenze
iniziali, un gruppo di formiche nellatto di divorare un insetto più grande,
terribile profezia di una guerra quotidiana per la sopravvivenza. I registi,
insieme allautore della fotografia Paolo Carnera (già collaboratore di Stefano
Sollima e Paolo Virzì), adottano obiettivi grandangolari per
racchiudere (o rinchiudere) i vari nuclei familiari; tra gli altri, la famiglia
Placido seduta a tavola per cena nella scena in cui il disoccupato e violento padre
Bruno (Elio Germano) sventa il soffocamento del diligente ma impudente figlio
Dennis (Tommaso Di Cola), il tutto ripreso in campo lungo a simulare una
visione voyeuristica.
Una scena del film Il
racconto procede in forma episodica attraverso il montaggio alternato ad opera
di Esmeralda Calabria (collaboratrice di Nanni Moretti e Giorgio
Diritti); le diverse storie sono destinate a incrociarsi, dalla rassegnata
ragazza con problemi di apprendimento rasata dalla madre come una moderna Renée
Falconetti, al ragazzo che vive col padre bifolco e insensibile in una
specie di baracca, fino alla poco più che maggiorenne ragazza incinta presentataci
con lividi sul corpo e sigaretta tra le dita, disposta a concedersi per soldi.
Non cè volontà di riscatto, di fuga dallombra e dallo squallore di un
contesto che non è quello paesaggistico di Sacro GRA (2013) di Gianfranco
Rosi ma quello interiore che ingloba individui impreparati e deboli. La
chiave di volta di questa fiaba sporca e ignobile è rappresentata dal
personaggio del professore, “cattivo maestro” che ricorda il signor Enning di Germania
anno zero (1948) di Roberto Rossellini, fautore dellorrore finale
trasposto sullo schermo con un fuori campo e un Germano sopra le righe sulla
cui versatilità si sprecano gli aggettivi. Ritroviamo infine la voce del
narratore, autodefinitosi annoiato dalla vita e intenzionato a tessere le fila
del racconto a suo piacimento, riportando il tutto al principio in una sorta di
tentativo catartico. Lo spettatore, in balia del vortice di una crisi
collettiva, assiste impotente e inorridito a un epilogo di dolore: i protagonisti
sono definitivamente intrappolati in un cosmo caotico e cieco. Favolacce rappresenta
quel coraggio drammaturgico che tanto mancava al cinema italiano e che farà
certamente parlare di sé.
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