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Il vero Leopardi.

di Sara Mamone
  Il giovane favoloso
Data di pubblicazione su web 01/09/2014  

 

C’è molto amore nel film che Mario Martone dedica a Giacomo Leopardi, alla sua vita e alla sua opera, e forse intenzionalmente, più alla seconda che alla prima. Solo che per raccontarla sceglie la strada più onesta ed insidiosa della biografia, per giunta raccontata linearmente in ordine cronologico. E allora il rischio di un itinerario nel quale il racconto assume l’aspetto di una diligente lezione scolastica si fa veramente concreto. Naturalmente Martone ha troppo gusto, troppa cultura e troppo sincera curiosità intellettuale per non dare a questo suo Leopardi originalità di pensiero e novità di lettura. Ma, tant’è, le dichiarazioni programmatiche di novità ermeneutiche e, peggio, le inopportune esternazioni del protagonista alter ego Elio Germano al Lido (Giacomo come Kurt Kobain del suo tempo) non riescono a levare completamente di dosso la sensazione di un nobile ed elegante percorso didattico. Certo la polvere di vieti luoghi comuni viene spazzata via ma la figura e l’opera dell’infelice poeta risultano come nei migliori insegnamenti liceali (dall’ermo colle al guardo ridente e fuggitivo di Silvia, fino alla modernissima a-sistematicità dello Zibaldone e all’immancabile apertura scientifico-filosofica della ginestra, con ampi stralci dei medesimi). L’accortezza del regista, qui anche inevitabilmente co-sceneggiatore, cadenza la rappresentazione in tre grandi campiture biografiche: il natio borgo, la fuga e i primi prestigiosi apprezzamenti “internazionali” nella pre-risorgimentale Firenze, la definitiva deriva napoletana con il conclusivo confronto con la natura nella contemplazione del possente sterminator Vesevo.

 


Una scena del film


Le tre stazioni sono a nostro avviso di diseguale qualità, con un mirabile primo squilibrio (o riequilibrio) nella prima in cui il ruolo protagonistico viene afferrato con ferma autorevolezza dal padre Monaldo (artefice anacronistico di un’attenzione educativa tirannica ma appassionata) roccioso difensore di un’idea del mondo ricevuta e indiscutibile. La sua presenza ossessiva ma non priva di inattesi addolcimenti governa il piccolo regno familiare con una madre funerea ed ottusa degna di una tragedia barocca e i tre fratelli: oltre a Giacomo, Carlo e Paolina, scherzosi e complici, custodi incuriositi del genio del primogenito. Grande merito del fascinoso equilibrio di questa prima parte va alla precisione della ricostruzione scenografica, alla mano leggera con cui il regista intreccia opera e vita e, soprattutto alla perfetta calibratura della prova degli attori: Massimo Popolizio, “commendatore” implacabile e insieme padre affettuoso, sempre pronto alla sprezzatura che rompe la granitica infelicità della “missione”, Isabella Ragonese, quasi miracolosa nel tenere insieme la gioia amorosa dell’ammirazione e i presentimenti di un mediocre destino, Paolo Graziosi, asciutto e onnipotente zio materno, Sandro Lombardi che dà corpo e consistenza ad un padre confessore che appare necessario nell’accentuazione mirabile dell’anacronistico mondo nobiliare. E anche, naturalmente, Elio Germano, “giovane favoloso” già fragile e talentuoso ma ancora imbrigliato dalla dominate struttura dei formidabili attori che fanno da argine al suo protagonismo.

 


Una scena del film


La seconda stazione è la meno felice, (forse quella che interessa meno il regista) e l’aspetto didascalico dilaga nei vuoti chiacchiericci di accademie e salotti artistico mondani con il poeta già ammorbato dall’accentuarsi della deformità e il suo interprete già avviato sulla strada straripante del virtuosismo. Gli spettatori sono costretti a sorbirsi stranoti aneddoti scolastici, presentazioni a raffica di insigni personaggi dell’intellighenzia del tempo costretti in due parole (Vieusseux, Tommaseo, Niccolini, forse c’è pure Gino Capponi) e l’inevitabile avvio della relazione amicale con Antonio Ranieri, i  brividi rivoluzionari, la storia della fascinazione per Fanny (Targioni Tozzetti, opportunamente sedotta dal bel Ranieri). I pur eccellenti attori implicati sono costretti in qualche battuta di cortesia, mentre Michele Riondino inaugura con quel sorriso, che accompagnerà stucchevolmente anche la terza ben più drammatica tappa del percorso, quella finale a Napoli.

 


Una scena del film


In questa terza parte l’interesse sonnecchiante del regista si risveglia e la grande esperienza dei luoghi e della cultura a lui così familiari lo rende più ardito non tanto nell’indicazione dei passi canonici (coppe di gelato ad ogni ora, incattivirsi del carattere, sporcizie e debolezze varie) quanto nella creazione smisurata di una discesa agli inferi finalmente lontana dall’agiografia e potentemente visionaria. In essa gli intoppi dell’anima  sono avviluppati da una sorta di eccesso deformante in cui l’iniziazione sessuale e l’ingaglioffamento nel ventre della città assumono il valore di una creazione autonoma. Anche il vagabonaggio nella città ormai preda del colera (verosimilmente l’autentica causa di morte del poeta) e l’esplosione finale del Vesuvio con la sua forza e la sua lava pietrificata rendono emozionante la speranza che rinasce nell’ultima estrema lettura de la Ginestra.

 

Elio Germano pare entusiasmare pubblico e critica. Personalmente il nostro apprezzamento è stato inversamente proporzionale al suo procedere. Il suo virtuosismo ci ha piano piano infastidito, allontanandoci dall’essenza più coinvolgente e sottile della ricreazione dell’autore.

Il giovane favoloso
cast cast & credits
 



 
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