Cè
molto amore nel film che Mario Martone
dedica a Giacomo Leopardi, alla sua
vita e alla sua opera, e forse intenzionalmente, più alla seconda che alla
prima. Solo che per raccontarla sceglie la strada più onesta ed insidiosa della
biografia, per giunta raccontata linearmente in ordine cronologico. E allora il
rischio di un itinerario nel quale il racconto assume laspetto di una
diligente lezione scolastica si fa veramente concreto. Naturalmente Martone ha
troppo gusto, troppa cultura e troppo sincera curiosità intellettuale per non
dare a questo suo Leopardi originalità di pensiero e novità di lettura. Ma,
tantè, le dichiarazioni programmatiche di novità ermeneutiche e, peggio, le
inopportune esternazioni del protagonista alter
ego Elio Germano al Lido
(Giacomo come Kurt Kobain del suo
tempo) non riescono a levare completamente di dosso la sensazione di un nobile
ed elegante percorso didattico. Certo la polvere di vieti luoghi comuni viene
spazzata via ma la figura e lopera dellinfelice poeta risultano come nei
migliori insegnamenti liceali (dallermo colle al guardo ridente e fuggitivo di
Silvia, fino alla modernissima a-sistematicità dello Zibaldone e allimmancabile apertura scientifico-filosofica della
ginestra, con ampi stralci dei medesimi). Laccortezza del regista, qui anche
inevitabilmente co-sceneggiatore, cadenza la rappresentazione in tre grandi
campiture biografiche: il natio borgo, la fuga e i primi prestigiosi
apprezzamenti “internazionali” nella pre-risorgimentale Firenze, la definitiva
deriva napoletana con il conclusivo confronto con la natura nella
contemplazione del possente sterminator Vesevo.
Una scena del film
Le
tre stazioni sono a nostro avviso di diseguale qualità, con un mirabile primo
squilibrio (o riequilibrio) nella prima in cui il ruolo protagonistico viene
afferrato con ferma autorevolezza dal padre Monaldo (artefice anacronistico di
unattenzione educativa tirannica ma appassionata) roccioso difensore di unidea
del mondo ricevuta e indiscutibile. La sua presenza ossessiva ma non priva di
inattesi addolcimenti governa il piccolo regno familiare con una madre funerea
ed ottusa degna di una tragedia barocca e i tre fratelli: oltre a Giacomo,
Carlo e Paolina, scherzosi e complici, custodi incuriositi del genio del primogenito.
Grande merito del fascinoso equilibrio di questa prima parte va alla precisione
della ricostruzione scenografica, alla mano leggera con cui il regista
intreccia opera e vita e, soprattutto alla perfetta calibratura della prova
degli attori: Massimo Popolizio,
“commendatore” implacabile e insieme padre affettuoso, sempre pronto alla
sprezzatura che rompe la granitica infelicità della “missione”, Isabella Ragonese, quasi miracolosa nel
tenere insieme la gioia amorosa dellammirazione e i presentimenti di un
mediocre destino, Paolo Graziosi,
asciutto e onnipotente zio materno, Sandro
Lombardi che dà corpo e consistenza ad un padre confessore che appare
necessario nellaccentuazione mirabile dellanacronistico mondo nobiliare. E
anche, naturalmente, Elio Germano, “giovane favoloso” già fragile e talentuoso
ma ancora imbrigliato dalla dominate struttura dei formidabili attori che fanno
da argine al suo protagonismo.
Una scena del film
La
seconda stazione è la meno felice, (forse quella che interessa meno il regista)
e laspetto didascalico dilaga nei vuoti chiacchiericci di accademie e salotti
artistico mondani con il poeta già ammorbato dallaccentuarsi della deformità e
il suo interprete già avviato sulla strada straripante del virtuosismo. Gli
spettatori sono costretti a sorbirsi stranoti aneddoti scolastici,
presentazioni a raffica di insigni personaggi dellintellighenzia del tempo
costretti in due parole (Vieusseux, Tommaseo, Niccolini, forse cè pure Gino
Capponi) e linevitabile avvio della relazione amicale con Antonio Ranieri, i brividi rivoluzionari, la storia della
fascinazione per Fanny (Targioni Tozzetti, opportunamente
sedotta dal bel Ranieri). I pur eccellenti attori implicati sono costretti in qualche
battuta di cortesia, mentre Michele
Riondino inaugura con quel sorriso, che accompagnerà stucchevolmente anche
la terza ben più drammatica tappa del percorso, quella finale a Napoli.
Una scena del film
In
questa terza parte linteresse sonnecchiante del regista si risveglia e la
grande esperienza dei luoghi e della cultura a lui così familiari lo rende più
ardito non tanto nellindicazione dei passi canonici (coppe di gelato ad ogni
ora, incattivirsi del carattere, sporcizie e debolezze varie) quanto nella
creazione smisurata di una discesa agli inferi finalmente lontana
dallagiografia e potentemente visionaria. In essa gli intoppi dellanima sono avviluppati da una sorta di eccesso
deformante in cui liniziazione sessuale e lingaglioffamento nel ventre della
città assumono il valore di una creazione autonoma. Anche il vagabonaggio nella
città ormai preda del colera (verosimilmente lautentica causa di morte del
poeta) e lesplosione finale del Vesuvio con la sua forza e la sua lava
pietrificata rendono emozionante la speranza che rinasce nellultima estrema
lettura de la Ginestra.
Elio Germano pare
entusiasmare pubblico e critica. Personalmente il nostro apprezzamento è stato
inversamente proporzionale al suo procedere. Il suo virtuosismo ci ha piano
piano infastidito, allontanandoci dallessenza più coinvolgente e sottile della
ricreazione dellautore.
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