Da
qualche anno a questa parte, le inaugurazioni alla Scala sembrano un po il
gioco delle tre carte: Francesco Meli,
Luca Salsi e Anna Netrebko ci sono più o meno
sempre, in combinazione con altri interpreti (un filo) meno prevedibili e
qualche (sparuta) novità. Meli, Salsi, Netrebko cerano già il 7 dicembre del
2019 (Tosca) e del
2021 (Macbeth);
Netrebko e Meli nel 2015 (Giovanna dArco);
Netrebko e Salsi nel 2017 (Andrea Chénier).
Questanno la “novità” erano Elīna Garanča e Michele Pertusi – una “novità” solo perché entrambi al loro primo 7
dicembre – insieme al regista Lluís
Pasqual – che sostituisce Davide Livermore, il regista di tutte le
inaugurazioni dal 2018 al 2021.
La
scelta per lapertura di stagione questanno è caduta sul Don Carlo nella versione in quattro atti realizzata da Verdi
per la Scala nel 1884. Una scelta di basso profilo per il teatro milanese; a
dir poco sorprendente, data loccasione inaugurale, per la quale in genere ci
si permettono allestimenti più impegnativi dal punto di vista produttivo
rispetto a quanto segue in cartellone. Con Don
Carlo in molti avremmo sperato qualcosa di diverso. Che so: una
riproposizione integrale della versione in francese, in cinque atti e con
balletto, antecedente ai tagli effettuati dallo stesso Verdi prima della “prima”
parigina del 1867 – credo mai o comunque rarissimamente riportata in scena?
Oppure la ripresa integrale del testo della “prima” versione parigina – nonostante
i proclami, anche questa mai davvero ripresa alla lettera, senza cioè le
interpolazioni da versioni posteriori? oppure, a voler giocare con la
filologia, una versione mista (ma sempre in francese e con balletto), cogliendo
fior da fiore tra le versioni parigine e quelle successive che Verdi realizzò
dopo il 1867 – per lo più su versi francesi e senza mai arrivare a una
soluzione definitiva?
Un momento dello spettacolo
©Teatro alla Scala
Insomma,
per il 7 dicembre sarebbe stato opportuno sia fare le cose “in grande”,
possibilmente offrendo al pubblico qualcosa di fuori dal consueto. Riccardo
Chailly aveva dato spesso prova in passato di essere un direttore curioso
nei confronti di versioni poco frequentate o addirittura sconosciute di opere
di repertorio, come nel caso di Madama Butterfly, Tosca, Attila, La fanciulla del West. La Scala
peraltro ha masse artistiche di primordine, che sarebbero state gratificate
dallessere coinvolte nella serata più importante della stagione – penso
principalmente al corpo di ballo – ma che col Don Carlo del 1884 restano escluse dallo spettacolo. Non a caso
proprio questo medesimo Don Carlo in
quattro atti è quello scelto da alcuni teatri di provincia per il cartellone
2023-2024: sia il circuito emiliano (Modena, Piacenza, Reggio Emilia), sia
Opera Lombardia (Brescia, Como, Cremona, Pavia) ne hanno proposto due diverse
produzioni, le cui ultime recite si sovrappongono adesso con le riprese della
Scala. Che cosa, dunque, distingue il “tempio della lirica” dai suoi “cugini
poveri” quando lopera che si vede in questo e in quelli è la stessa?
Un momento dello spettacolo ©Teatro alla Scala
Non
certo la qualità dello spettacolo. Lluís
Pasqual negli ultimi decenni non ha prodotto allestimenti memorabili, e,
soprattutto, non alla Scala, dove la sua regia della Donna del lago (2011) non aveva ricevuto che critiche negative. Le
serate inaugurali del teatro milanese si caratterizzano da un po come il luogo
dellindecisione: lattenzione dei media genera ansie di approvazione; il
loggione della Scala è uno dei più conservatori dItalia, e per salvare capra e
cavoli si scelgono spettacoli che cerchino di non scontentare nessuno, e allo
stesso tempo che mostrino però sempre qualche accenno di modernità. Si è fatto
così per anni con le regie di Livermore: tutte molto tecnologiche e
spettacolari, con frequenti citazioni cinematografiche, che di un lavoro
interpretativo avevano almeno la parvenza. Questanno, invece, con Pasqual, si
è rinunciato sia alla modernità, sia a qualsiasi possibilità di lettura
interessante. Più che un allestimento tradizionale del Don Carlo, quello di Pasqual è un non-allestimento: un concerto in
costume, con cantanti fermi (letteralmente!) in scena con le braccia al petto o
spalancate, senza nessun tentativo apparente di Personenregie.
Lesecuzione
musicale non ha migliorato la situazione. Della concertazione di Riccardo Chailly si può dire solo
bene: curata, raffinata, ha messo in evidenza tutte le possibilità
dellorchestra della Scala. La sua direzione è stata però deludente: priva di
partecipazione emotiva, senza alcun senso del dramma. In questo Don Carlo non si piange mai, e alla
fine, anche lascolto risente della mancanza generale di commozione e si fa
faticoso, persino nella versione in quattro atti.
Un momento dello spettacolo ©Teatro alla Scala
Gli
interpreti, da soli, non hanno potuto fare molto per risollevare le sorti di
una serata che si è risolta in un concerto di arie e duetti. Anna Netrebko è perfetta nel ruolo di
Elisabetta di Valois, così come Elīna
Garanča lo è in quelli della Principessa di Eboli. Entrambi ruoli di
enorme impegno tecnico ed espressivo, risolti in entrambi i casi in modo
magistrale. Michele Pertusi
(Filippo II), sebbene indisposto (lo ha annunciato il soprintendente Dominique
Meyer nellintervallo tra primo e secondo atto), ha saputo rendere il suo
personaggio con la classe che lo ha sempre contraddistinto. Poi le note
positive finiscono. Francesco Meli
(Don Carlo) non sembra a suo agio in questo ruolo verdiano. Come si è già scritto
in altre occasioni, spesso il tenore si misura con ruoli non adatti alla sua
vocalità. E nei duetti il confronto è impietoso: sia Netrebko sia Garanča
affrontano la loro parte con una sicurezza e facilità che a Meli mancano. Gianluca Salsi (Rodrigo) è infine una
scelta problematica per il ruolo del marchese di Posa. È uno dei migliori
baritoni oggi sulla piazza, ma il suo non è certo lo stile più adatto per una
parte cantabile da grand seigneur
come quella dei baritoni delle opere francesi. Quindi bene e male allo stesso
tempo: bene la vocalità; male lo stile. Corretto ma poco incisivo il Grande
Inquisitore di Jongmin Park. Molto buono
il resto del cast, come sempre alla Scala.
Il
successo è stato pieno per gli interpreti, contrastato per il direttore.
Generale la disapprovazione per Pasqual.
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