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Il romanticismo dell'inconscio

di Paolo Patrizi
  Giovanna d'Arco
Data di pubblicazione su web 17/12/2015  

Se da almeno un quarantennio è ormai sfatato il luogo comune per cui il primo incontro tra Verdi e Shakespeare (Macbeth, 1847) sarebbe quello di due signori che si urtano per strada, si dicono «Pardon!» e solo molti anni dopo – cioè con Otello e Falstaff – diventano grandi amici, non si è invece sradicato il preconcetto che vuole Giovanna d’Arco (1845) come una poco riuscita prova generale del confronto tra il Cigno di Busseto e il teatro di Schiller: in attesa che I masnadieri, Luisa Miller e, soprattutto, Don Carlo convergano verso ben più alti esiti. Eppure anche questo primo approdo (alla radice c’è un testo schilleriano tra i meno frequentati in Italia come Die Jungfrau von Orléans) è tutt’altro che trascurabile, e non solo perché Verdi stesso ebbe a definirla «la migliore delle mie opere» (fino a quel momento, beninteso), mostrando di preferirla ad altri lavori – Nabucco, I lombardi alla prima crociata, Ernani – cui spettatori e musicologi hanno sempre tributato maggiore affezione e miglior fortuna critica.

Tentativo di replicare il modello dei Lombardi (quello, cioè, di un dramma storico-religioso affrancato dalle implicazioni “oratoriali” del Nabucco), concentrandosi però sui rapporti tra i personaggi piuttosto che sulla dimensione collettiva, Giovanna d’Arco è un passo avanti importante e una miniera di spunti per il Verdi che verrà: lo argomenta perfettamente a parole (nelle interviste) non meno che con i fatti (sul podio) Riccardo Chailly, che già nei suoi anni giovanili al Comunale di Bologna aveva offerto in quest’opera una lettura di notevole profondità musicale. Ora, per il suo primo Sant’Ambrogio come direttore principale della Scala, ha voluto riaffrontarla: e gli esiti sono quelli di una concertazione tanto compenetrata nella partitura quanto capace d’illuminarla in ogni dettaglio. 

Un momento dello spettacolo © Brescia-Amisano
Un momento dello spettacolo 
© Brescia-Amisano

Chailly è una bacchetta che alla causa del Verdi cosiddetto minore ha offerto più d’un contributo: oltre a Giovanna d’Arco anche I due Foscari e, soprattutto, I masnadieri, che rappresentarono, come per Muti, la sua prima affermazione verdiana. Ma – al contrario appunto di Muti – il suo approccio al Verdi degli “anni di galera” non è organico, volto a costruire un edificio unitario che mostri dagli anni giovanili a quelli della maturità un unico grande percorso, in cui ogni partitura venga restituita con un fervore che annulla zone minori e momenti convenzionali. Nella lettura di Chailly, invece, queste zone e questi momenti restano: come a dire che sceverare quanto s’insinua tra le righe del pentagramma (le anticipazioni del Macbeth nelle pagine corali più fortemente legate alla superstizione, certe dissimulate ma in realtà azzardatissime sperimentazioni strumentali…) non significa dover nobilitare una musica oltremisura, e che i frammenti di grandezza hanno una dignità diversa, non inferiore, rispetto ai grandi capolavori tout court

Sta di fatto che tessuto sinfonico e ordito belcantistico si compenetrano, nella lettura di Chailly, con naturalezza estrema e, verrebbe da dire, rispetto reciproco: sebbene le voci dei solisti – al contrario dell’eccezionale prova del coro – non sempre siano all’altezza, quella sintesi tra sinfonismo e vocalismo, paesaggismo orchestrale e pittura canora che è uno dei dati più affascinanti della Giovanna d’Arco riesce qui ad emergere con grande pregnanza. E il trascolorare dall’idillio alla tenebra (e viceversa), che è poi il vero transito drammaturgico-musicale di quest’opera, viene riconsegnato con suggestione infallibile.


Un momento dello spettacolo © Brescia-Amisano
Un momento dello spettacolo 
© Brescia-Amisano

La regia di Moshe Leiser e Patrice Caurier vanta, se non altro, un Konzept forte. Prendendo atto che, in quest’opera, la visionarietà ha un peso maggiore della ricostruzione storica (il Quattrocento del conflitto franco-inglese è più uno sfondo di maniera che un affresco dettagliato, l’eroina verdiana non ha molto da spartire con la reale pulzella d’Orléans), i due autori dello spettacolo virano Giovanna d’Arco in psicodramma borghese ottocentesco. I fantasmi della protagonista sono tutti riconducibili alle sue ossessioni di pulzella (Jungfrau in Schiller) che reclama, secondo natura, il diritto a venir spulzellata e – come accade in certe pazzie femminili del melodramma preverdiano, a cominciare dall’Elvira dei Puritani – trova nel coatto protrarsi della verginità i germi della propria follia. Mentre Giacomo, babbo geloso dell’onore della sua bambina al punto di consegnarla alle truppe nemiche per salvarne la purezza, perde i suoi connotati un po’ assurdi e si trasforma in genitore-archetipo, nonché – pure il trucco lo suggerisce – alter ego dello stesso Verdi, che della paternità conobbe solo i dolori (le sue creature morirono entrambe all’età di un anno), ma come drammaturgo musicale ci lascia pagine fondamentali sulla dialettica tra padre e figlia.

Tutto si gioca nella camera da letto dell’eroina, con medico e fantesca pronti ad accorrere mentre l’accorato papà vigila al capezzale; e, intanto, cavalli e soldati, voci celesti e demoni assatanati si materializzano nella stanza, grazie alla fantasia romanzesca e febbrile della protagonista: diciamo una Jane Austen che non ha raggiunto la pace dei sensi. Il tema superstizione-redenzione (che la rinuncia all’ambiente medievale poteva far svaporare) viene riassunto da una borghesissima statuina della Madonna; lo scontro tra inglesi e francesi lascia aleggiare i connotati di una più tragicamente attuale guerra di religione, calzante alla sessuofobia del contesto; e, in definitiva, il soffocamento della femminilità che ruota attorno alla messinscena di Leiser e Caurier fa rientrare dalla finestra quella dimensione di «tragedia romantica» (così Schiller aveva definito il suo dramma) uscita dalla porta dell’arruffato e semplicistico libretto di Solera.

Un momento dello spettacolo © Brescia-Amisano
Un momento dello spettacolo 
© Brescia-Amisano

Se l’idea di partenza è consistente, la realizzazione appare a tratti manchevole. Convivono fin troppe sollecitazioni: il coro come occhio esterno alla vicenda sembra citare certi Verdi “risorgimentali” di Ronconi, il candido Carlo VII trasformato in statua dorata discende forse dal Principe Felice di Oscar Wilde, i diavolacci rientrano in un trash postmoderno, l’abbondante uso di proiezioni semplifica ma non risolve. Suggestivo, invece, l’uso incombente e deformato delle ombre, tra l’altro funzionale nell’evocare un inconscio romantico ancora ignaro di psicanalisi; e se tanto Schiller quanto Verdi fanno morire Giovanna in battaglia, negandole la catarsi del rogo, questa regia con un bel colpo di teatro gliela restituisce: ovviamente attraverso l’ennesimo sogno voluttuoso e masochistico della protagonista. 

Anna Netrebko è una Giovanna d’Arco molto compenetrata, sul piano scenico, nel personaggio ridisegnato dai due registi. Le cose funzionano meno sul fronte vocale: per la scarsa icasticità di una dizione criptica e, soprattutto, un’emissione oltremodo “pompata”, che la porta a un registro acuto voluminoso ma talvolta scompaginato, sonorità gravi spesso intubate e sparse disomogeneità. Cresce comunque nel corso dello spettacolo: almeno in dirittura di arrivo, la sicurezza dell’interprete prevale sui limiti della cantante. Al contrario, Francesco Meli – voce baciata dalla natura, ma tutt’altro che governata al millimetro – delude sulla distanza: la bellezza timbrica, dopo un po’, non fa dimenticare certe inavvertenze musicali (l’intonazione, soprattutto quando scende, e l’appiombo ritmico non sono adamantini), forse evidenziate da una serata in cattiva forma.

Devid Cecconi, a sua volta, porta il peso di una fonazione come infossata, che impedisce alla voce di espandersi, penalizzandolo soprattutto laddove Verdi si affida allo stile “grandioso” (una prescrizione che, qui come per altri baritoni primoverdiani, ricorre esplicitamente in partitura). Il fraseggiatore, invece, è di buona linea: scabra ma non priva di nobiltà, più sulla falsariga dei primi interpreti della fugace Giovanna d’Arco renaissance degli anni Cinquanta (Panerai, Savarese) che su quella lirico-patetica di Milnes e Bruson. E avere un basso come Dmitry Beloselskiy nel minuscolo ruolo di Talbot è, da parte della Scala, una prova di grandeur ai limiti dello scialo: anche se poi, nelle poche battute riservate al personaggio, si sente lontano un miglio d’aver di fronte una voce niente affatto comprimariale.



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