Se da almeno un quarantennio è
ormai sfatato il luogo comune per cui il primo incontro tra Verdi e Shakespeare (Macbeth,
1847) sarebbe quello di due signori che si urtano per strada, si dicono «Pardon!» e solo molti anni dopo – cioè
con Otello e Falstaff – diventano grandi amici, non si è invece sradicato il
preconcetto che vuole Giovanna dArco
(1845) come una poco riuscita prova generale del confronto tra il Cigno di
Busseto e il teatro di Schiller: in
attesa che I masnadieri, Luisa Miller e, soprattutto, Don
Carlo convergano verso ben più alti esiti. Eppure anche questo primo
approdo (alla radice cè un testo schilleriano tra i meno frequentati in Italia
come Die Jungfrau von Orléans) è
tuttaltro che trascurabile, e non solo perché Verdi stesso ebbe a definirla
«la migliore delle mie opere» (fino a quel momento, beninteso), mostrando di
preferirla ad altri lavori – Nabucco,
I lombardi alla prima crociata, Ernani – cui spettatori e musicologi
hanno sempre tributato maggiore affezione e miglior fortuna critica.
Tentativo di replicare il modello
dei Lombardi (quello, cioè, di un dramma
storico-religioso affrancato dalle implicazioni “oratoriali” del Nabucco), concentrandosi però sui
rapporti tra i personaggi piuttosto che sulla dimensione collettiva, Giovanna dArco è un passo avanti
importante e una miniera di spunti per il Verdi che verrà: lo argomenta
perfettamente a parole (nelle interviste) non meno che con i fatti (sul podio) Riccardo Chailly, che già nei suoi anni giovanili al Comunale di Bologna
aveva offerto in questopera una lettura di notevole profondità musicale. Ora,
per il suo primo SantAmbrogio come direttore principale della Scala, ha voluto
riaffrontarla: e gli esiti sono quelli di una concertazione tanto compenetrata
nella partitura quanto capace dilluminarla in ogni dettaglio.
Un momento dello spettacolo © Brescia-Amisano
Chailly è una bacchetta che alla
causa del Verdi cosiddetto minore ha offerto più dun contributo: oltre a Giovanna dArco anche I due Foscari e, soprattutto, I masnadieri,
che rappresentarono, come per Muti, la
sua prima affermazione verdiana. Ma – al contrario appunto di Muti – il suo
approccio al Verdi degli “anni di galera” non è organico, volto a costruire un
edificio unitario che mostri dagli anni giovanili a quelli della maturità un
unico grande percorso, in cui ogni partitura venga restituita con un fervore
che annulla zone minori e momenti convenzionali. Nella lettura di Chailly,
invece, queste zone e questi momenti restano: come a dire che sceverare quanto sinsinua
tra le righe del pentagramma (le anticipazioni del Macbeth nelle pagine corali più fortemente legate alla
superstizione, certe dissimulate ma in realtà azzardatissime sperimentazioni
strumentali…) non significa dover nobilitare una musica oltremisura, e che i
frammenti di grandezza hanno una dignità diversa, non inferiore, rispetto ai
grandi capolavori tout court.
Sta di fatto che tessuto
sinfonico e ordito belcantistico si compenetrano, nella lettura di Chailly, con
naturalezza estrema e, verrebbe da dire, rispetto reciproco: sebbene le voci
dei solisti – al contrario delleccezionale prova del coro – non sempre siano
allaltezza, quella sintesi tra sinfonismo e vocalismo, paesaggismo orchestrale
e pittura canora che è uno dei dati più affascinanti della Giovanna dArco riesce qui ad emergere con grande pregnanza. E il
trascolorare dallidillio alla tenebra (e viceversa), che è poi il vero
transito drammaturgico-musicale di questopera, viene riconsegnato con
suggestione infallibile.
Un momento dello spettacolo © Brescia-Amisano
La regia di Moshe Leiser e Patrice Caurier vanta, se non altro, un Konzept forte. Prendendo atto che, in
questopera, la visionarietà ha un peso maggiore della ricostruzione storica (il
Quattrocento del conflitto franco-inglese è più uno sfondo di maniera che un
affresco dettagliato, leroina verdiana non ha molto da spartire con la reale
pulzella dOrléans), i due autori dello spettacolo virano Giovanna dArco in psicodramma borghese ottocentesco. I fantasmi
della protagonista sono tutti riconducibili alle sue ossessioni di pulzella (Jungfrau in Schiller) che reclama,
secondo natura, il diritto a venir spulzellata e – come accade in certe pazzie
femminili del melodramma preverdiano, a cominciare dallElvira dei Puritani – trova nel coatto protrarsi
della verginità i germi della propria follia. Mentre Giacomo, babbo geloso
dellonore della sua bambina al punto di consegnarla alle truppe nemiche per salvarne
la purezza, perde i suoi connotati un po assurdi e si trasforma in genitore-archetipo,
nonché – pure il trucco lo suggerisce – alter
ego dello stesso Verdi, che della paternità conobbe solo i dolori (le sue
creature morirono entrambe alletà di un anno), ma come drammaturgo musicale ci
lascia pagine fondamentali sulla dialettica tra padre e figlia.
Tutto si gioca nella camera da
letto delleroina, con medico e fantesca pronti ad accorrere mentre laccorato
papà vigila al capezzale; e, intanto, cavalli e soldati, voci celesti e demoni
assatanati si materializzano nella stanza, grazie alla fantasia romanzesca e febbrile
della protagonista: diciamo una Jane
Austen che non ha raggiunto la pace dei sensi. Il tema
superstizione-redenzione (che la rinuncia allambiente medievale poteva far
svaporare) viene riassunto da una borghesissima statuina della Madonna; lo
scontro tra inglesi e francesi lascia aleggiare i connotati di una più tragicamente
attuale guerra di religione, calzante alla sessuofobia del contesto; e, in
definitiva, il soffocamento della femminilità che ruota attorno alla messinscena
di Leiser e Caurier fa rientrare dalla finestra quella dimensione di «tragedia
romantica» (così Schiller aveva definito il suo dramma) uscita dalla porta dellarruffato
e semplicistico libretto di Solera.
Un momento dello spettacolo © Brescia-Amisano
Se lidea di partenza è consistente,
la realizzazione appare a tratti manchevole. Convivono fin troppe sollecitazioni:
il coro come occhio esterno alla vicenda sembra citare certi Verdi
“risorgimentali” di Ronconi, il
candido Carlo VII trasformato in statua dorata discende forse dal Principe Felice
di Oscar Wilde, i diavolacci rientrano in un trash postmoderno, labbondante uso di proiezioni semplifica ma non
risolve. Suggestivo, invece, luso incombente e deformato delle ombre, tra
laltro funzionale nellevocare un inconscio romantico ancora ignaro di
psicanalisi; e se tanto Schiller quanto Verdi fanno morire Giovanna in
battaglia, negandole la catarsi del rogo, questa regia con un bel colpo di
teatro gliela restituisce: ovviamente attraverso lennesimo sogno voluttuoso e
masochistico della protagonista.
Anna Netrebko è una Giovanna
dArco molto compenetrata, sul piano scenico, nel personaggio ridisegnato dai
due registi. Le cose funzionano meno sul fronte vocale: per la scarsa
icasticità di una dizione criptica e, soprattutto, unemissione oltremodo
“pompata”, che la porta a un registro acuto voluminoso ma talvolta
scompaginato, sonorità gravi spesso intubate e sparse disomogeneità. Cresce
comunque nel corso dello spettacolo: almeno in dirittura di arrivo, la
sicurezza dellinterprete prevale sui limiti della cantante. Al contrario, Francesco Meli – voce baciata dalla natura, ma tuttaltro che governata al
millimetro – delude sulla distanza: la bellezza timbrica, dopo un po, non fa
dimenticare certe inavvertenze musicali (lintonazione, soprattutto quando
scende, e lappiombo ritmico non sono adamantini), forse evidenziate da una
serata in cattiva forma.
Devid Cecconi, a sua
volta, porta il peso di una fonazione come infossata, che impedisce alla voce
di espandersi, penalizzandolo soprattutto laddove Verdi si affida allo stile
“grandioso” (una prescrizione che, qui come per altri baritoni primoverdiani,
ricorre esplicitamente in partitura). Il fraseggiatore, invece, è di buona
linea: scabra ma non priva di nobiltà, più sulla falsariga dei primi interpreti
della fugace Giovanna dArco renaissance
degli anni Cinquanta (Panerai, Savarese) che su quella lirico-patetica
di Milnes e Bruson. E avere un basso come Dmitry
Beloselskiy nel minuscolo ruolo di
Talbot è, da parte della Scala, una prova di grandeur ai limiti dello scialo: anche se poi, nelle poche battute
riservate al personaggio, si sente lontano un miglio daver di fronte una voce
niente affatto comprimariale.
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