La fanciulla del West è un pezzo di teatro musicale ossessionato dalla
rappresentazione dellalterità (i nativi americani, lesotismo californiano,
lemigrazione) e della propria identità (lopera modernista di inizio
Novecento): Fanciulla, infatti, con
le sue canzoni ispirate al folklore americano, la sua orchestrazione a strati,
la sua drammaturgia a quadri, rimanda costantemente al teatro di varietà, al
cinema muto, fino al teatro di Wagner
e Strauss, senza mancare di far
capire a chi ascolti il meccanismo di rimandi interteatrali.
Un momento dello spettacolo.
© Marco Brescia e Rudy Amisano
La nuova produzione scaligera sceglie esplicitamente di
esibire questo meccanismo di rimandi a livello sia registico sia musicale. La
regia di Carsen (il quale ha curato anche le scene insieme a Luis Cavalho) ambienta lopera
allepoca del cinema muto, trasformando la “Polka” da saloon a sala da proiezioni con bar annesso. Un gruppo di avventori
assiste al film dello spettacolo nello spettacolo, ma già sulle note
dellultima parte dellintroduzione orchestrale Carsen rende evidente lo
spostamento dal piano della rappresentazione a quello dellauto-rappresentazione,
facendo muovere come marionette il pubblico del film e trasformandolo nel coro
dei minatori. Con il ribaltamento della percezione diegetica dellorchestra (da
colonna sonora a motore musicale dellazione), il pubblico in sala viene di
conseguenza catapultato al cinema.
Ecco dunque il perché di scenografie dichiaratamente
cinematografiche: Cinemascope per il primo atto, con un deserto da cartolina su
cui Minnie si staglia come eroina di un film; bianco e nero squadrato per il
secondo atto, con toni espressionisti nella chiazza di colore rosso del sangue
di Dick che cola dalla soffitta; e infine la sovrapposizione tra immagini di
repertorio (la cavalcata dei cowboy) e live
filming dei protagonisti per linizio del terzo atto, fino a quando il
momento di svolta del dramma (larrivo à
sauvetage di Minnie per salvare Dick dallimpiccagione) non trasforma tutto
in un esterno dove la diva del film proiettato si rivolge alla folla di fan e
si avvia con Dick/attore verso le quinte, mentre gli stessi fan intonano il
coro finale. Il «Mai più…» appena citato, dunque, è la sintesi – riuscitissima
– della frustrazione malinconica insita nella rappresentazione teatrale, cioè
il suo dover per definizione ripetersi senza mai ripetersi veramente, dove i
personaggi sono sempre il frutto di uno sdoppiamento. Nella Fanciulla del West non si contano i
momenti in cui i protagonisti fanno riferimento a sé stessi e agli altri: su
tutti, è proprio la scena finale a fare da culmine, con Minnie che passa in rassegna
uno per uno i minatori e li “indica” al pubblico.
Un momento dello spettacolo.
© Marco Brescia e Rudy Amisano
Certo, non tutto dello spettacolo di Carsen funziona come
avrebbe potuto. Le sezioni più dialogiche, al contrario di quelle corali, sono
eccessivamente statiche e avrebbero bisogno di un cast dalla presenza scenica
ben più importante. Tutta la seconda parte del primo e lintero secondo atto
sono sostanzialmente lasciati alla buona volontà attoriale dei cantanti. In uno
spettacolo come questo, dove il fascino magnetico dei divi del cinema muto si
dovrebbe sovrapporre a quello canoro, avere una compagnia non allaltezza del
compito vuol dire indebolire in partenza lassunto stesso dello spettacolo in
quanto tale. Verrebbe da dire che i migliori sono alcuni dei solisti fra i
minatori, soprattutto Carlo Bosi nella parte di Nick e Alessandro Luongo in quella di Sonora: entrambi esibiscono non solo ottimo canto, ma una
propensione scenica non comune tale da renderli perfette caricature da film
muto. Barbara Haveman (giunta a
sostituire la preannunciata Eva-Maria Westbroek) è una Minnie di buona energia, con un registro grave un po
debole ma comunque omogeneo. Claudio Sgura è un Jack Rance di bella voce e buona presenza, ma gli manca forse
quel pizzico di introspezione che avrebbe dato al personaggio ancora più
spessore. Roberto Aronica (Dick
Johnson) inizia in sordina tutto il primo atto, con voce un filo troppo nasale
e spenta; ma già dal secondo atto il personaggio si sbozza più chiaramente, per
arrivare a un «Chella mi creda» – cantato volutamente in maniera dimessa e
quasi sottovoce – che è senzaltro una delle pagine da ricordare della serata,
anche per la stretta aderenza con ciò che avviene in buca.
Un momento dello spettacolo.
© Marco Brescia e Rudy Amisano
Chailly, infatti, sembra sposare a fondo lidea di base
dello spettacolo, lossessione per la rappresentazione. La sua è una direzione
che pone sì lorchestra tra i personaggi principali, ma evita la
sovraesposizione a carattere sinfonico da cui talvolta i direttori si fanno
trasportare quando hanno davanti una partitura-capolavoro dorchestrazione come
quella della Fanciulla. Lorchestra
della Scala con Chailly sa trovare il suono esatto sia per le scene più folk,
come linizio del primo atto, sovrapponendo piani sonori di diversa intensità e
stile, sia per le scene più drammatiche, dove alla compagine è richiesto di
“narrare” lazione: è il caso della famosa scena della partita a poker con cui
si chiude il secondo atto, qui condotta da Chailly e dagli orchestrali della
Scala sul filo di una tensione mai esagerata, giocata su dinamiche basse alternate
a occasionali scoppi sonici al limite del bombastico (e non è anche questa una
tipica esperienza cinematografica?). Ma cè anche spazio per un forma di canto dimesso,
stanco, quasi soffocato, come il meraviglioso tempo lentissimo con cui Chailly
stacca «Chella mi creda», rendendo laria una vera e propria trenodia.
Cè poi un altro aspetto di auto-rappresentazione legato
specificatamente a questa produzione: lo sbandierato «ritorno alloriginale»
con cui il Teatro alla Scala (e Chailly in particolare) ha presentato
loperazione, non senza una certa insistenza. È vero che le sezioni dellopera
riaperte (soprattutto quelle legate alle scene con Billy Jackrabbit e Wowkle, i
due nativi americani) e alcune revisioni nellorchestrazione giovano al
complesso di unopera così sfaccettata, ma bisognerebbe ricordare che dirigere
seguendo unedizione critica non vuol dire “tornare alloriginale” (quale
poi?), bensì presentare al pubblico uno spettacolo coerente con le fonti. Lo
stesso discorso, peraltro, siamo certi varrà anche lanno prossimo per lannunciata Butterfly nella versione “originale”
del 1904. Per ora, di “ritorni” ci basta quello alla fila del botteghino di The Girl of the Golden West.