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Farfalle

di Vincenzo Borghetti
  Madama Butterfly
Data di pubblicazione su web 20/12/2016  

Alla Scala era da un po’ che Puccini mancava all’apertura di stagione. L’ultima volta era stato nel 1983, quando il cartellone fu inaugurato con la Turandot di Zeffirelli. Poi più nulla fino a questo 7 dicembre. Non che per tutto questo tempo le opere pucciniane siano state assenti dal teatro milanese, ma non avevano più guadagnato i riflettori di Sant’Ambrogio, per i quali si sono preferite opere e compositori ritenuti più eroici, emblematici o rari, financo “nazionali”, ma senza essere troppo “popolari”. Di quella popolarità che delle opere di Puccini è stata croce e delizia.

Sempre molto amate dal pubblico di tutto il mondo, sempre, per questo, tradizionalmente considerate inadatte ai palcoscenici di primissima sfera. Non è un caso che, se Puccini torna a inaugurare la Scala dopo oltre trent’anni, al Festival di Salisburgo la Bohème sia arrivata solo nel 2012, preceduta, guarda un po’, da Tosca e Turandot ma anche queste in tempi recenti (rispettivamente nel 1989 e nel 2002). La rivalutazione culturale, più che solo musicale, di Puccini è del resto storia degli ultimi decenni: è il frutto dell’impegno di un manipolo di studiosi, via via cresciuto tanto da non essere adesso più solo un manipolo, che non hanno avuto paura di confrontarsi con un fenomeno operistico moderno, sofisticato ma anche “di massa”, e con le sfide intellettuali e i piaceri sensuali (forse il pericolo maggiore) che esso offre a chi vi si accosti.

Una scena dello spettacolo © Marco Bescia & Rudy Amisano
Una scena dello spettacolo 
© Marco Brescia & Rudy Amisano

Su questo fronte la Scala si trova adesso in una congiuntura ideale: il sovrintendente Alexander Pereira, che ha una manifesta propensione per cartelloni meno ingessati rispetto al recente passato (penso alla ottima Cena delle beffe di Umberto Giordano con regia di Mario Martone nella scorsa stagione, impensabile sotto le precedenti gestioni), si trova a collaborare con Riccardo Chailly quale direttore principale, uno dei maggiori e più intellettualmente curiosi direttori (anche) pucciniani fin dagli inizi della sua carriera. Il risultato sono state due delle più interessanti produzioni degli ultimi anni: La fanciulla del West della primavera 2016 (vedi recensione) e appunto quest’ultima Madama Butterfly.

Di entrambe le opere Chailly ha presentato versioni inconsuete. Della Fanciulla la primizia assoluta della versione prima della “prima” a New York nel 1910; di Butterfly la prima versione scaligera del 1904, quella caduta in uno dei più sonori fiaschi della storia dell’opera. In questo caso la primizia non è assoluta. La ricostruzione della versione originaria di Butterfly si deve a Julian Smith, che la realizzò su commissione di Ricordi nel 1981 per un allestimento alla Fenice di Venezia nel 1982, e che poi è stata alla base di una registrazione discografica nel 1996. Dal punto di vista musicale, molto c’è di diverso rispetto alla Butterfly che normalmente si ascolta in teatro, niente tuttavia che ci aiuti oggi davvero a capire i perché di quel tonfo clamoroso la sera del 17 febbraio 1904. Certo è, però, che la vicenda nel 1904 ha tratti di ferocia razzista che l’autore si adopera a smussare nel corso delle riprese successive dell’opera (le principali a Brescia, pochi mesi dopo la disastrosa prima a Milano, poi Londra nel 1905, Parigi nel 1906 e l’ultima a New York nel 1907).

Nella versione finale Pinkerton non diventerà un personaggio amabile, ma non sarà più neppure così irrimediabilmente odioso come nella prima, e verrà perfino ricompensato con un intenso, quanto ormai inutile, cedimento sentimentale, Addio, fiorito asil: un passo decisivo perché il tenore, all’opera tradizionalmente il “buono”, potesse guadagnarsi in extremis un briciolo di simpatia dal pubblico (pubblico che a sua volta poteva così guardarsi in un specchio meno inquietante rispetto a quell’autentico mostro che era il Pinkerton del 1904).

Per questa Butterfly Alvis Hermanis (regia) ha voluto una scena fissa giapponese (scene di Hermanis stesso e Leila Fteita), fatta di pareti scorrevoli (come quelle menzionate nel testo della prima scena dell’opera), con uno spazio al centro (di volta in volta la sala della casetta di Butterfly-Pinkerton, la veranda, il giardino) sovrastato da due livelli praticabili. Su questi si svolgono alcune scene e controscene in momenti importanti dell’opera. Sulle note del fugato d’apertura, alcune geishe vi mimano farfalle bianche intrappolate che pian piano si spengono; vi si svolge l’ingresso di Butterfly nel primo atto (che così quindi è “visto” in scena e non solo “udito” da dietro le quinte come nel libretto; a muoversi sul praticabile è comunque una controfigura), vi si raccoglie un gruppo statuario di invitate alle nozze di Butterfly con Pinkerton, fa la sua apparizione (sul secondo livello) lo zio Bonzo, viene danzato il coro a bocca chiusa e così via.


Una scena dello spettacolo © Marco Brescia & Rudy Amisano
Una scena dello spettacolo 
© Marco Brescia & Rudy Amisano

Le pareti scorrevoli di carta aprono e chiudono spazi alla vista e sono anche lo schermo su cui si alternano le proiezioni (di Ineta Spunova), che mostrano immagini tratte da stampe giapponesi, collegate a quanto di volta in volta il libretto menziona: fiori se si parla di fiori, geishe se si parla di donne giapponesi, paesaggi con porto se si parla di navi, paesaggi notturni quando si fa sera; in generale molte pagode (specie nel secondo atto).

I personaggi sono caratterizzati secondo l’appartenenza etnica: i giapponesi hanno costumi tradizionali e gestualità da teatro kabuki, gli americani costumi e gestualità occidentali (costumi di Kristīne Juriāne, coreografie di Alla Sigalova). Solo Butterfly all’inizio del secondo atto tenta l’impossibile trasformazione, vestendo abiti da signora yenkee in una casa che è anche arredata all’americana (come già nella regia famosa di Jean-Pierre Ponnelle).

Raccontata così potrebbe essere una Madama Butterfly qualsiasi. E in effetti è una Madama Butterfly qualsiasi. Non discuto la qualità tecnica dell’allestimento: scene, costumi, macchine sono tutti di prim’ordine, quali solo un teatro con risorse economiche come la Scala può e sa mettere in campo. Quello che non mi convince è il senso dell’operazione. Le opere del 7 dicembre sono quelle con cui si vuole dare un segno artistico forte, capace, almeno nelle intenzioni, di dare un’impronta alla stagione, oltre che sottolineare l’importanza della Scala nel contesto operistico nazionale e internazionale.

In passato si è provato a dare questo segno, con risultati alterni, come è ovvio che sia, ma ci sono stati spettacoli che, proprio per il coraggio delle loro scelte, hanno saputo far discutere. Penso al Tristan di Patrice Céreau, alla Carmen di Emma Dante, al Don Giovanni di Robert Carsen, al Lohengrin di Claus Guth, alla Traviata di Dmitri Tcherniakov, al Ring di Guy Cassiers, a Giovanna d’Arco di Moshe Leiser e Patrice Caurier. Questi spettacoli hanno anche sollevato dissensi più o meno rumorosi, ed è inevitabile: quando si fanno scelte decise qualcuno si scontenta sempre.

Con la Butterfly la Scala quest’anno è al riparo. Non ci sono stati i fischi dei soliti loggionisti; con poche eccezioni, non ci sono state recensioni severe. Tutto è andato liscio. Si dirà: è stato un bene. Forse, ma per questa scelta la Scala paga anche lo scotto di avere inaugurato con uno spettacolo di routine, di aver rinunciato a mettersi in gioco su uno degli aspetti che sono di maggiore interesse nel teatro d’opera contemporaneo, la regia.


Una scena dello spettacolo © Marco Brescia & Rudy Amisano
Una scena dello spettacolo 
© Marco Brescia & Rudy Amisano

La Butterfly di Hermanis è per molti aspetti uno spettacolo incoerente (sulla stampa si è letto anche “inesistente”) e non riconciliato col testo che con tanto clamore si è scelto di portare in scena. Parto da quest’ultimo punto. Perché mai scegliere la prima versione di Butterfly, quella in cui, come si è detto, il razzismo e la spregevolezza di Pinkerton sono ai limiti del sostenibile, se poi la regia immunizza tutte le sue asprezze in un giapponismo rassicurante? Perché mostrare uno Sharpless interessato quanto Pinkerton alle spose bambine (tanto che intasca il catalogo che gliene fornisce) se poi il personaggio è l’unico occidentale che mostri da subito pietà per Cio-Cio-San, di cui capisce la sincerità dei sentimenti?

Perché poi quelle sporadiche rotture rispetto all’azione suggerita dal libretto, in uno spettacolo che gli è aderente con esiti perfino didascalici (le proiezioni di cui sopra)? Qual è cioè il senso di mostrare l’arrivo di Butterfly in scena, o di far “danzare” il coro a bocca chiusa se da ciò non deriva un lavoro interpretativo sul personaggio (come nell’episodio di Sharpless appena ricordato) o sulla situazione drammatica?

La regia di Hermanis non ha trovato il modo di rendere interessante sul piano scenico e narrativo un testo che pure gli offriva molti spunti: il razzismo e il turismo sessuale (Butterfly ha quindici anni, l’«età dei giuochi», come sottolinea Sharpless nel primo atto) sono, purtroppo, ancora oggi temi di scottante attualità e, come dicevo, sono più presenti nella versione del 1904 che in quella standard dell’opera.

Lo spettacolo deve il suo successo alla componente musicale. Innanzitutto alla direzione di Riccardo Chailly, che si dimostra capace di dare un corpo sonoro differente ai diversi Puccini che affronta. Tanto il suono della Fanciulla del West era trasparente e moderno, tanto quello di questa Butterfly è denso, avvolgente, struggente. Il suo compito era stavolta reso ancora più arduo dalla scelta della prima versione dell’opera. La Butterfly del 1904 è una partitura meno risolta sul piano drammatico, che insiste su scene che le versioni successive snelliscono in modo evidente e che, soprattutto, presenta una audace, ma problematica articolazione in due atti. Reggere la tensione nel lunghissimo secondo atto, nonostante un lieve cedimento nell’intermezzo (il punto su cui poi intervenne Puccini, dividendo l’atto in due), è stata una grande prova direttoriale. Il pubblico ha per questo giustamente premiato Chailly agli applausi finali.

Un’indisposizione ha imposto la sostituzione di Maria José Siri (Butterfly) che ha cantato tutte le recite all’infuori del 16 dicembre. Al suo posto c’era Liana Aleksayan. Il soprano armeno è stata una molto gradita sorpresa. La sua voce, nonostante un registro grave non particolarmente sonoro, si presta ad assecondare le richieste di un ruolo che da quasi belcantistico nel primo atto, si fa vieppiù drammatico nel secondo. Ottimo già il suo ingresso, con il temibile re bemolle sovracuto pieno e sicuro; splendido sia dal punto di vista musicale che da quello scenico il finale.

Molto bene Bryan Hymel in uno dei ruoli più ingrati dell’intero repertorio: ha le difficoltà di un tenore eroico senza averne le gratificazioni drammatiche e musicali (qui manca Addio, fiorito asil), ed è uno dei personaggi più esecrabili della storia del melodramma. Il pubblico fatica a ricompensarlo come avrebbe meritato (come si fa ad applaudire Pinkerton?). Benissimo anche lo Sharpless di Carlos Álvarez, un autentico lusso (vocale e scenico) per il console americano. Molto bene anche i comprimari: gli ottimi Suzuki di Annalisa Stroppa e il Goro di Carlo Bosi. Molto bene anche Costantino Finucci (il principe Yamadori) e il resto del cast.




Madama Butterfly



cast cast & credits
 
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Madama Butterfly di Alvis Hermanis
Lo spettacolo per la regia di Alvis Hermanis al Teatro alla Scala di Milano




 
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