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Teatro collaterale

di Vincenzo Borghetti
  Macbeth
Data di pubblicazione su web 13/12/2021  

 

Macbeth di Giuseppe Verdi alla Scala ha ormai una lunga tradizione come opera di apertura della nuova stagione. Le utilissime schede riportate nel programma di sala – che per ogni titolo in cartellone forniscono sempre i dati di tutte le rappresentazioni ospitate dal teatro – dicono che con questa sono cinque le volte in cui l’opera è stata scelta per l’inaugurazione: nel 1938 (il 26 dicembre, diretta da Marinuzzi), nel 1952 (con De Sabata e Callas), nel 1975 (con Abbado, Cappuccilli e Verrett, per la regia di Strehler), nel 1997 (con Muti, Bruson, Guleghina, regia di Vick).

 

Se si guarda alla storia di Macbeth alla Scala prima del 1938, però, le cose cambiano in modo significativo: dopo il 1874, anno della prima rappresentazione con testo italiano della nuova versione francese, a Parigi, nel 1865 (la prima versione era quella fiorentina del 1847), l’opera sparisce dal teatro per oltre sessant’anni. Vi ritornerà solo nel 1938 ma con sole quattro repliche. Nonostante la revisione del 1865, Macbeth ha seguito il destino della maggior parte delle opere verdiane degli anni Quaranta che, salvo poche eccezioni, hanno avuto poca o nessuna circolazione a partire dalla seconda metà del secolo. Non c’è dubbio, quindi, che (anche) gli allestimenti scaligeri del secondo Novecento abbiano avuto un ruolo importante nel riportare l’opera nel repertorio. A questo ritorno hanno contribuito il coinvolgimento di artisti geniali, come quelli sopra menzionati, insieme agli sforzi produttivi possibili soprattutto per le opere inaugurali e, di conseguenza, all’attenzione dei media che accompagnano questo genere di eventi.


Un momento dello spettacolo
© Marco Brescia & Rudy Amisano

 

Come di consuetudine nelle ultime edizioni, la prima del 7 dicembre è stata trasmessa in diretta televisiva e in streaming. Complice anche la pausa imposta dalla pandemia nel 2020 (venne trasmesso A riveder le stelle, una sorta di concerto televisivo di arie famose ma con scene, costumi e azione), mai come quest’anno l’attenzione e la presenza dei media è stata così grande. Dopo quasi due anni di DAD, lavori svolti ed eventi fruiti da remoto, lo spettacolo teatrale ha ceduto di fronte a quello mediatico. Davide Livermore (regia) ha impostato il suo allestimento quasi solo per il pubblico a distanza. Chi, come me, ha seguito anche la prima in TV ha visto uno spettacolo radicalmente diverso da quello goduto successivamente a teatro. Dunque, che cosa si è visto e dove.

 

Parto dal Macbeth televisivo. Livermore fa largo uso di proiezioni (di D-WOK), e di movimenti dei ponti mobili (vedi le recensioni all’Attila del 2018 e a Tosca del 2019): in scena si alternano quindi molti ambienti differenti, dove i personaggi agiscono e con i quali interagiscono. Il preludio inizia con Macbeth e Banco in un luogo appartato circondati da cadaveri: siamo sì in un bosco, ma non è un campo di battaglia quello che si offre alla vista, bensì il teatro di una strage da regolamento di conti. Con Livermore il Medioevo diventa un presente distopico: Macbeth e Banco salgono infatti su un’automobile, che dal bosco (grazie alle proiezioni) li porta in una città che ha l’aspetto di una cupa metropoli alla Blade Runner, dove tutti corrono, ma come noi usano i cellulari (anche Macbeth lo fa nel primo atto). Grazie alla ripresa video, letteralmente saliamo con loro in macchina, e dai finestrini vediamo scorrere il paesaggio – prima boscoso, poi urbano – dietro i loro volti, come se fosse un film. Ci troviamo poi subito immersi in un universo di grattacieli, un mondo i cui padroni sono nuovi signori feudali: oligarchi ricchi e spietati che, nei piani alti di una “Scottish Court Tower” (la scritta compare nella scenografia; scene di Giò Forma), sono in perenne lotta per la supremazia.


Un momento dello spettacolo
© Marco Brescia & Rudy Amisano


Gli ambienti sono molti e differenziati: grazie ai ponti mobili e all’ascensore si passa velocemente in zone diverse della Tower. Tutto è comunque scuro, freddo ed eccessivamente opulento: vi si trovano fontane con statue e acqua vera, sculture massicce, mobili di design; vi si muovono stuoli di cameriere e servitori in livrea. Dalle immense vetrate si domina la città. Le telecamere dialogano con tutti gli elementi, e costruiscono un movimento continuo; indugiano poi su primi e primissimi piani dei personaggi, penetrano nella loro intimità come in un reality (la scena di sesso tra i Macbeth nel terzo atto, in bianco e nero e col grand’angolo, come se fosse ripresa da una telecamera a circuito chiuso; riprese ravvicinate nell’ascensore ci sono anche nel duetto Macbeth-Banco nel primo atto oltre che nella scena dell’automobile nel preludio), creano effetti illusionistici sorprendenti (nella scena del sonnambulismo Lady Macbeth barcolla su un cornicione sotto il quale a grande distanza vediamo scorrere il traffico) e così via. In sostanza, Livermore investe moltissimo nel rendere lo spettacolo adatto soprattutto al video. Non c’è un lavoro interpretativo approfondito sui personaggi e sulle loro vicende, certo però l’opera si segue come fosse una serie televisiva, una di quelle saghe di argomento politico-familiare di largo seguito, come in una Dallas truculenta e spettacolarizzata.

 

Nel Macbeth visto a teatro non resta quasi più niente di quanto descritto. Gli effetti di cui sopra non sono mostrati come proiezioni sui fondali-schermi: quanto avviene nell’ascensore, per esempio, si vede solo da lontano e perde così la sua efficacia. Negli spazi scenici troppo ampi e indaffarati emerge inoltre lo spaesamento degli interpreti, che faticano a trovare una dimensione psicologica per i loro personaggi. Per esempio, senza i primi piani, durante la cavatina Lady Macbeth sembra passare semplicemente da una poltrona all’altra del suo immenso salotto mentre fuma e beve; sempre in questo salotto rischiarato dalle luci soffuse di lampade da tavolo (ma qui scendono alberi dall’alto) si fatica a percepire un senso di minaccia per la sorte di Banco e suo figlio nella loro scena del secondo atto; non c’è disperazione durante l’aria di Macduff nel quarto; molto attutita è la suspence del canto sul cornicione nella scena del sonnambulismo (Lady Macbeth è solo in alto sul palco, ma sotto di lei c’è la terrazza dove ci sono la dama e il dottore, non la strada trafficata), e così via. A teatro abbiamo cioè visto un Macbeth collaterale, l’epifenomeno di uno spettacolo pensato principalmente in funzione della ripresa video, non per il pubblico in sala che, del resto, è un’esigua minoranza rispetto a quello che guarda da casa, e che poi vedrà e giudicherà lo spettacolo in dvd o sulle piattaforme digitali. Le eccezioni, le uniche, sono il balletto (anche per merito delle splendide coreografie di Daniel Ezralow) e la scena delle apparizioni del terzo atto. Qui l’attività sul palco si tranquillizza. Restano le proiezioni, ma sono poche e mirate, e tutta l’attenzione si concentra (finalmente) sugli esecutori e i personaggi: un peccato che ciò accada solo qui.


Un momento dello spettacolo
© Marco Brescia & Rudy Amisano


Il cast è quello delle inaugurazioni. Non ci sono soltanto dei grandi interpreti, come si richiede in queste occasioni, ma gli stessi grandi interpreti delle prime della Scala. Con qualche variazione, il cast è pressoché lo stesso da alcuni anni a questa parte: Luca Salsi (Macbeth) c’era già per Tosca (2019) e Andrea Chénier (2017) insieme ad Anna Netrebko (Lady Macbeth), presente anche in Giovanna d’Arco (2015); Ildar Abdrazakov (Banco) era il protagonista di Attila (2018), dove cantava Francesco Meli (ora Macduff), che a sua volta era pure nella Tosca e nella Giovanna d’Arco. Livermore stesso è al quarto Sant’Ambrogio di fila: suoi gli allestimenti di Attila, Tosca e A riveder le stelle. Non c’è stata quindi la sorpresa della scoperta, anche perché, almeno nel caso di Salsi e Netrebko, i ruoli sono ormai parte del loro repertorio. Si tratta comunque di una compagnia di canto eccellente: le quattro prime parti hanno garantito il buon esito della serata, che si è distinta per la mancanza delle contestazioni della prima (poche per verità, e per lo più all’indirizzo della regia, e qualcuna per la primadonna).

 

Luca Salsi è un Macbeth dalla voce generosa, piegata a fini espressivi in un ventaglio di possibilità che dal sussurro salgono su fino al canto sfogato. Ne viene fuori un eroe negativo dai tratti quasi espressionistici e perciò di grande impatto musicale e drammatico. Il suo Pietà, rispetto, onore (interpolazione dalla versione del 1847, in uno spettacolo basato sul testo del 1865) gli è valsa una giusta ovazione. Anna Netrebko ha avuto un inizio prudente, non proprio a suo agio nella terribile cavatina e ancor di più nella successiva cabaletta. Non aiutata dalla regia né, tantomeno, dalla direzione, soltanto a partire dal secondo atto (dalla scena del brindisi) è emersa la diva che recita con la voce, che sale e scende senza paura, e che usa le difficoltà immani della scrittura verdiana a fini drammatici. Il registro basso non sarà dei più sonori, ma quale intensità c’è in quei gravi. Quanta cattiveria nelle scalette e nei trilli di bravura eseguiti alla perfezione, quanta fragile energia, poi, nella scena del sonnambulismo.


Un momento dello spettacolo
© Marco Brescia & Rudy Amisano

 

Per Ildar Abdrazakov c’è solo un rammarico: il ruolo di Banco termina troppo presto. Il basso canta così bene che lo si vorrebbe ascoltare di più. Nel suo canto c’è tutta la nobiltà che il personaggio richiede: il legato del fraseggiatore, al servizio di un mezzo vocale possente, corrispettivo sonoro di una figura di grande presenza scenica. Francesco Meli è forse l’interprete ideale di questi ruoli tenorili del primo Verdi: è un peccato che la regia non abbia saputo sfruttare le sue caratteristiche per una resa efficace del personaggio nella sua aria Ah la paterna mano. Davvero molto bene i comprimari: Chiara Isotton (dama di Lady Macbeth, che ha regalato un sorprendente Do sovracuto nel finale primo), Iván Ayón Rivas (Malcom), Andrea Pellegrini (Medico), Leonardo Galeazzi (Domestico), Alberto Rota (Sicario). Tutte ottime voci in piccole parti, come al solito sempre molto curate nei cast della Scala.

 

La direzione di Riccardo Chailly ha avuto alti e bassi. Per i primi due atti hanno prevalso i bassi. Con l’eccezione dei due finali, la direzione è apparsa indolente rispetto alla vicenda, con tempi così rilassati da essere d’intralcio agli interpreti e alla creazione di quell’atmosfera di incombente minaccia così necessaria alla tragedia di Macbeth. Poi, dalla scena del brindisi, le cose cambiano, e dal terzo atto in avanti anche l’orchestra e la direzione si fanno carico del dramma. Assolutamente meravigliosa la resa dei ballabili: i colori e i fraseggi hanno rivelato la grandezza del musicista (e quella della scrittura orchestrale di Verdi). Ottimi, come sempre, l’orchestra e il coro, per la prima volta preparato da Alberto Malazzi, succeduto a Bruno Casoni, che dopo diciannove anni ha lasciato l’incarico conservando quello di direttore del coro di voci bianche del teatro.

 

Grande successo per tutti, senza le ombre delle contestazioni della prima.





Macbeth



cast cast & credits
 
trama trama



Spettacolo visto il 10 dicembre 2021 al Teatro alla Scala di Milano


 
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