Macbeth di Giuseppe
Verdi alla Scala ha ormai una lunga tradizione come opera di apertura della
nuova stagione. Le utilissime schede riportate nel programma di sala – che per
ogni titolo in cartellone forniscono sempre i dati di tutte le rappresentazioni
ospitate dal teatro – dicono che con questa sono cinque le volte in cui lopera
è stata scelta per linaugurazione: nel 1938 (il 26 dicembre, diretta da Marinuzzi),
nel 1952 (con De Sabata e Callas), nel 1975 (con Abbado, Cappuccilli
e Verrett, per la regia di Strehler), nel 1997 (con Muti, Bruson,
Guleghina, regia di Vick).
Se si guarda alla storia di Macbeth alla Scala prima del 1938, però,
le cose cambiano in modo significativo: dopo il 1874, anno della prima
rappresentazione con testo italiano della nuova versione francese, a Parigi,
nel 1865 (la prima versione era quella fiorentina del 1847), lopera sparisce
dal teatro per oltre sessantanni. Vi ritornerà solo nel 1938 ma con sole
quattro repliche. Nonostante la revisione del 1865, Macbeth ha seguito il destino della maggior parte delle opere
verdiane degli anni Quaranta che, salvo poche eccezioni, hanno avuto poca o
nessuna circolazione a partire dalla seconda metà del secolo. Non cè dubbio,
quindi, che (anche) gli allestimenti scaligeri del secondo Novecento abbiano
avuto un ruolo importante nel riportare lopera nel repertorio. A questo
ritorno hanno contribuito il coinvolgimento di artisti geniali, come quelli
sopra menzionati, insieme agli sforzi produttivi possibili soprattutto per le
opere inaugurali e, di conseguenza, allattenzione dei media che accompagnano
questo genere di eventi.
Un momento dello spettacolo © Marco Brescia & Rudy Amisano
Come di consuetudine nelle ultime
edizioni, la prima del 7 dicembre è stata trasmessa in diretta televisiva e in streaming.
Complice anche la pausa imposta dalla pandemia nel 2020 (venne trasmesso A riveder le stelle, una sorta di
concerto televisivo di arie famose ma con scene, costumi e azione), mai come
questanno lattenzione e la presenza dei media è stata così grande. Dopo quasi
due anni di DAD, lavori svolti ed eventi fruiti da remoto, lo spettacolo
teatrale ha ceduto di fronte a quello mediatico. Davide Livermore (regia) ha impostato il suo allestimento quasi
solo per il pubblico a distanza. Chi, come me, ha seguito anche la prima in TV
ha visto uno spettacolo radicalmente diverso da quello goduto successivamente a
teatro. Dunque, che cosa si è visto e dove.
Parto dal Macbeth televisivo. Livermore fa largo uso di proiezioni (di
D-WOK), e di movimenti dei ponti
mobili (vedi le recensioni allAttila del
2018 e a Tosca del 2019): in
scena si alternano quindi molti ambienti differenti, dove i personaggi agiscono
e con i quali interagiscono. Il preludio inizia con Macbeth e Banco
in un luogo appartato circondati da cadaveri: siamo sì in un bosco, ma non è un
campo di battaglia quello che si offre alla vista, bensì il teatro di una
strage da regolamento di conti. Con Livermore il Medioevo diventa un
presente distopico: Macbeth e Banco salgono infatti su unautomobile, che dal
bosco (grazie alle proiezioni) li porta in una città che ha laspetto di una
cupa metropoli alla Blade Runner,
dove tutti corrono, ma come noi usano i cellulari (anche Macbeth lo fa nel
primo atto). Grazie alla ripresa video, letteralmente saliamo con loro in
macchina, e dai finestrini vediamo scorrere il paesaggio – prima boscoso, poi
urbano – dietro i loro volti, come se fosse un film. Ci troviamo poi subito
immersi in un universo di grattacieli, un mondo i cui padroni sono nuovi
signori feudali: oligarchi ricchi e spietati che, nei piani alti di una
“Scottish Court Tower” (la scritta compare nella scenografia; scene di Giò Forma), sono in perenne lotta per
la supremazia.
Un momento dello spettacolo © Marco Brescia & Rudy Amisano
Gli ambienti sono molti e differenziati:
grazie ai ponti mobili e allascensore si passa velocemente in zone diverse
della Tower. Tutto è comunque scuro, freddo ed eccessivamente opulento: vi si
trovano fontane con statue e acqua vera, sculture massicce, mobili di design;
vi si muovono stuoli di cameriere e servitori in livrea. Dalle immense vetrate
si domina la città. Le telecamere dialogano con tutti gli elementi, e
costruiscono un movimento continuo; indugiano poi su primi e primissimi piani
dei personaggi, penetrano nella loro intimità come in un reality (la scena di sesso tra i Macbeth nel terzo atto, in bianco
e nero e col grandangolo, come se fosse ripresa da una telecamera a circuito
chiuso; riprese ravvicinate nellascensore ci sono anche nel duetto Macbeth-Banco
nel primo atto oltre che nella scena dellautomobile nel preludio), creano
effetti illusionistici sorprendenti (nella scena del sonnambulismo Lady Macbeth
barcolla su un cornicione sotto il quale a grande distanza vediamo scorrere il
traffico) e così via. In sostanza, Livermore investe moltissimo nel
rendere lo spettacolo adatto soprattutto al video. Non cè un lavoro
interpretativo approfondito sui personaggi e sulle loro vicende, certo però
lopera si segue come fosse una serie televisiva, una di quelle saghe di
argomento politico-familiare di largo seguito, come in una Dallas truculenta e spettacolarizzata.
Nel Macbeth
visto a teatro non resta quasi più niente di quanto descritto. Gli effetti di
cui sopra non sono mostrati come proiezioni sui fondali-schermi: quanto avviene
nellascensore, per esempio, si vede solo da lontano e perde così la sua
efficacia. Negli spazi scenici troppo ampi e indaffarati emerge inoltre lo
spaesamento degli interpreti, che faticano a trovare una dimensione psicologica
per i loro personaggi. Per esempio, senza i primi piani, durante la cavatina Lady
Macbeth sembra passare semplicemente da una poltrona allaltra del suo immenso
salotto mentre fuma e beve; sempre in questo salotto rischiarato dalle luci
soffuse di lampade da tavolo (ma qui scendono alberi dallalto) si fatica a percepire
un senso di minaccia per la sorte di Banco e suo figlio nella loro scena del
secondo atto; non cè disperazione durante laria di Macduff nel quarto; molto
attutita è la suspence del canto sul cornicione nella scena del sonnambulismo (Lady
Macbeth è solo in alto sul palco, ma sotto di lei cè la terrazza dove ci sono
la dama e il dottore, non la strada trafficata), e così via. A teatro abbiamo
cioè visto un Macbeth collaterale, lepifenomeno di uno spettacolo
pensato principalmente in funzione della ripresa video, non per il pubblico in
sala che, del resto, è unesigua minoranza rispetto a quello che guarda da
casa, e che poi vedrà e giudicherà lo spettacolo in dvd o sulle piattaforme
digitali. Le eccezioni, le uniche, sono il balletto (anche per merito delle splendide
coreografie di Daniel Ezralow) e la
scena delle apparizioni del terzo atto. Qui lattività sul palco si
tranquillizza. Restano le proiezioni, ma sono poche e mirate, e tutta
lattenzione si concentra (finalmente) sugli esecutori e i personaggi: un
peccato che ciò accada solo qui.
Un momento dello spettacolo © Marco Brescia & Rudy Amisano
Il cast è quello delle inaugurazioni. Non
ci sono soltanto dei grandi
interpreti, come si richiede in queste occasioni, ma gli stessi grandi interpreti delle prime della Scala. Con qualche
variazione, il cast è pressoché lo stesso da alcuni anni a questa parte: Luca Salsi (Macbeth) cera già per Tosca
(2019) e Andrea Chénier (2017) insieme ad
Anna Netrebko (Lady Macbeth), presente anche in Giovanna dArco (2015); Ildar Abdrazakov (Banco) era il protagonista di Attila (2018), dove cantava Francesco Meli (ora Macduff), che a sua volta era pure nella
Tosca e nella Giovanna dArco. Livermore stesso è al quarto SantAmbrogio
di fila: suoi gli allestimenti di Attila,
Tosca e A riveder le stelle. Non cè stata quindi la sorpresa della
scoperta, anche perché, almeno nel caso di Salsi e Netrebko, i
ruoli sono ormai parte del loro repertorio. Si tratta comunque di una compagnia
di canto eccellente: le quattro prime parti hanno garantito il buon esito della
serata, che si è distinta per la mancanza delle contestazioni della prima
(poche per verità, e per lo più allindirizzo della regia, e qualcuna per la
primadonna).
Luca Salsi è un Macbeth
dalla voce generosa, piegata a fini espressivi in un ventaglio di possibilità
che dal sussurro salgono su fino al canto sfogato. Ne viene fuori un eroe
negativo dai tratti quasi espressionistici e perciò di grande impatto musicale
e drammatico. Il suo Pietà, rispetto,
onore (interpolazione dalla versione del 1847, in uno spettacolo basato sul
testo del 1865) gli è valsa una giusta ovazione. Anna Netrebko ha avuto un inizio prudente, non proprio a suo agio
nella terribile cavatina e ancor di più nella successiva cabaletta. Non aiutata
dalla regia né, tantomeno, dalla direzione, soltanto a partire dal secondo atto
(dalla scena del brindisi) è emersa la diva che recita con la voce, che sale e
scende senza paura, e che usa le difficoltà immani della scrittura verdiana a
fini drammatici. Il registro basso non sarà dei più sonori, ma quale intensità
cè in quei gravi. Quanta cattiveria nelle scalette e nei trilli di bravura
eseguiti alla perfezione, quanta fragile energia, poi, nella scena del
sonnambulismo.
Un momento dello spettacolo © Marco Brescia & Rudy Amisano
Per Ildar
Abdrazakov cè solo un rammarico: il ruolo di Banco termina troppo presto.
Il basso canta così bene che lo si vorrebbe ascoltare di più. Nel suo canto cè
tutta la nobiltà che il personaggio richiede: il legato del fraseggiatore, al
servizio di un mezzo vocale possente, corrispettivo sonoro di una figura di
grande presenza scenica. Francesco Meli
è forse linterprete ideale di questi ruoli tenorili del primo Verdi: è
un peccato che la regia non abbia saputo sfruttare le sue caratteristiche per
una resa efficace del personaggio nella sua aria Ah la paterna mano. Davvero molto bene i comprimari: Chiara Isotton (dama di Lady Macbeth,
che ha regalato un sorprendente Do sovracuto nel finale primo), Iván Ayón Rivas (Malcom), Andrea Pellegrini (Medico), Leonardo Galeazzi (Domestico), Alberto Rota (Sicario). Tutte ottime
voci in piccole parti, come al solito sempre molto curate nei cast della Scala.
La direzione di Riccardo Chailly ha avuto alti e bassi. Per i primi due atti hanno
prevalso i bassi. Con leccezione dei due finali, la direzione è apparsa
indolente rispetto alla vicenda, con tempi così rilassati da essere dintralcio
agli interpreti e alla creazione di quellatmosfera di incombente minaccia così
necessaria alla tragedia di Macbeth.
Poi, dalla scena del brindisi, le cose cambiano, e dal terzo atto in avanti
anche lorchestra e la direzione si fanno carico del dramma. Assolutamente
meravigliosa la resa dei ballabili: i colori e i fraseggi hanno rivelato la
grandezza del musicista (e quella della scrittura orchestrale di Verdi). Ottimi, come sempre,
lorchestra e il coro, per la prima volta preparato da Alberto Malazzi,
succeduto a Bruno Casoni, che dopo diciannove anni ha lasciato
lincarico conservando quello di direttore del coro di voci bianche del teatro.
Grande successo per tutti, senza le ombre
delle contestazioni della prima.
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