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Oggi arrivano i barbari

di Vincenzo Borghetti
  Attila
Data di pubblicazione su web 11/12/2018  

Tanti applausi per la prima della nuova stagione alla Scala. Per tutti, anche per la regia. A dirla tutta, dei buu per la regia ci sono stati, ma così sparuti e poco convinti che gli applausi li hanno facilmente messi in secondo piano. Gli applausi invece sono stati inaspettatamente lunghi, ma non entusiastici: anche questi, come i buu, erano in fondo poco convinti. Che cosa è successo, dunque, lo scorso 7 dicembre all’inaugurazione della Scala?   
 
Non molto. Questo era il timore generalizzato nelle discussioni sul web nei mesi che hanno preceduto la prima. Si è cominciato a mugugnare sulla mancanza di un vero e proprio “evento” non appena si è saputo il titolo d’apertura, quindi più o meno dall’autunno scorso. Una vera riscoperta, in effetti, Attila non è, non è più almeno. Alla Scala l’ultima edizione era del 2011; negli ultimi sei anni si contano le produzioni dell’Opera di Roma (2012), della Fenice di Venezia e del Comunale di Bologna (2016); quella del Festival Verdi di Parma è dello scorso settembre. La novità di quest’Attila avrebbe dovuto essere, secondo il battage del teatro, nella versione dell’opera che si è scelto di rappresentare: non la prima assoluta, quella della Fenice del 17 marzo 1846, bensì quella della Scala del 26 dicembre successivo.   
 
Il cast del primo Attila milanese era diverso rispetto a quello veneziano, tuttavia Verdi non intervenne sulla composizione per adattarla alla nuova compagnia; si limitò a scrivere una nuova romanza per Foresto, che a Milano era affidato a Napoleone Moriani («Oh dolore! Ed io vivea»), in luogo di quella scritta per Carlo Guasco a Venezia («Che non avrebbe il misero»). A questa nuova romanza si aggiungono poi alcune (meravigliose) battute di introduzione strumentale che Rossini compose per un’esecuzione nel suo salotto parigino del terzetto del terzo atto («Che più s’indugia»), e che per questa occasione sono state orchestrate (Rossini le aveva scritte per pianoforte). Per quanto splendide e mai inserite nelle rappresentazioni dell’opera, un’unica nuova romanza per il tenore all’inizio del terzo atto e cinque battute introduttive sono troppo poco per montare un “caso” intorno al recupero di una versione rara se non inedita della partitura, come a ragione la Scala aveva fatto, e con successo, per La fanciulla del West e Madama Butterfly di Puccini, entrambe del 2016. Attila, inoltre, è stato percepito dai più come ripiego, visto che per il Sant’Ambrogio 2018 era da tempo nell’aria una nuova produzione dei Vespri siciliani che, per diverse ragioni, smuoveva tutt’altre curiosità e appetiti rispetto all’opera messa poi in apertura di cartellone.     


Un momento dello spettacolo
© Marco Brescia e Rudy Amisano

La “sensazione” che il titolo di per sé non prometteva di offrire, il teatro ha cercato di costruirla altrove. La Scala ha infatti affidato lo spettacolo a Davide Livermore, regista tra i più acclamati e discussi delle ultime generazioni. La sua ultima regia per il teatro milanese è stata il Tamerlano del 2017, una delle migliori e più sorprendenti produzioni liriche degli ultimi anni, e non solo in Italia. Si sarebbe sperato che questo Attila rinnovasse il successo dello spettacolo precedente. Così, però, non è stato.   
 
Come nel Tamerlano, Livermore opta per uno spostamento cronologico della vicenda narrata: dal Medioevo al Novecento, che qui è non è quello della Rivoluzione d’ottobre, bensì quello delle fasi conclusive della Seconda guerra mondiale. Attila per Livermore è un feroce capo militare alla testa di truppe di occupazione – nazifasciste, si potrebbe aggiungere –; anche se qui non ci sono né svastiche né fasci, è chiaramente quello il riferimento. Il sipario si apre su una «piazza di Aquileja» che richiama una città distrutta dai bombardamenti così come se ne vedono nei film del Neorealismo: la scena mostra un enorme praticabile a metà tra l’arco di trionfo e il ponte ferroviario di una possibile Roma del 1944; sullo sfondo si proiettano immagini in bianco e nero di quella che sembra la Berlino post-raid aerei di Berlino anno zero (scene di Giò Forma; video di D-Wok). In questo spazio, in cui sul finire del preludio i personaggi sono bloccati come in un tableau vivant, l’azione si fa subito concitata. Davanti ai nostri occhi si consumano vari atti di ferocia ai danni dei vinti (umiliazioni, esecuzioni sommarie e via dicendo), dislocati in più punti della scena come in un totale cinematografico. La sortita di Odabella riporta l’attenzione sul proscenio ed è una vera e propria citazione da Roma città aperta: l’eroina si fa contro al nemico stringendo avvolta in una mano una bandiera, come la Pina di Anna Magnani che allo stesso modo stringe lo scialle nella scena madre del film di Rossellini (costumi di Gianluca Falaschi).   


Un momento dello spettacolo
© Marco Brescia e Rudy Amisano

Dopo questo inizio di grande effetto, però, lo spettacolo perde di mordente: le scene si fanno statiche, i movimenti e la recitazione generici. Anche quando ci sono altre citazioni cinematografiche esplicite (Portiere di Notte di Liliana Cavani e La caduta degli dei di Visconti nella scena del banchetto del secondo atto sono le più immediate), queste restano sullo sfondo, e la recitazione e i movimenti dei cantanti non ricevono la stessa cura iniziale. Ci sono tuttavia momenti felici. Per esempio, la visione di Attila nel primo atto, che Livermore realizza come una versione animata dell’affresco di Raffaello nelle Stanze vaticane (che Verdi stesso aveva preso a modello per questa scena), oppure il finale dell’opera che ripropone scelte cinematografiche analoghe a quelle dell’inizio. Ho l’impressione che si tratti di uno spettacolo realizzato “solo in parte”, come se Livermore non avesse avuto la possibilità (o la costanza) di condurre fino in fondo le sue scelte registiche (come invece era avvenuto nel Tamerlano) e abbia optato (o sia stato convinto a farlo) per soluzioni meno radicali. Quel tanto che basta per scontentare qualche loggionista, senza però fare appassionare davvero nessuno.   
 
Dal punto di vista musicale si è verificato qualcosa di simile. La direzione di Riccardo Chailly è stata al massimo corretta. Dopo le prime battute del preludio, in cui il direttore ottiene dall’orchestra interessanti sonorità misteriose e vellutate insieme, non ci sono più sorprese degne di nota. E dire che la scrittura del primo Verdi, di cui Chailly peraltro è un esperto, abbonda di soluzioni melodiche e timbriche singolarissime (penso al trattamento che egli riservò all’orchestra nella romanza di Odabella del primo atto «Oh! nel fuggente nuvolo», solo per fare un esempio), che però il direttore lascia scivolare via senza particolare cura. Certo, tutto fila liscio tra palco e buca, e alla fine il pubblico reagisce in modo positivo, ma niente di più.   


Un momento dello spettacolo
© Marco Brescia e Rudy Amisano

Le cose vanno meglio con la compagnia di canto. Ildar Abdrazakov (Attila) è un veterano del ruolo che ha cantato un po’ ovunque nella sua ormai quasi ventennale carriera. Di Attila Abdrazakov ha la voce e il fisico, entrambi imponenti. Ha anche ottima eleganza musicale e grandi capacità di attore, che gli permettono di tratteggiare un personaggio che è al contempo minaccioso e molto seducente. Fabio Sartori è anch’egli un veterano della parte (è stato Foresto alla Scala già nel 2011). Non ha le doti fisiche e attoriali di Abdrazakov, ma canta e recita benissimo con la voce. E poi l’aria sostitutiva per Moriani gli sta (e la esegue) a pennello! Nobile e sicuro è l’Ezio di George Petean, che ci ricorda che baritoni in grado di cantare Verdi con gusto senza eccedere nei decibel esistono ancora, per fortuna.   
 
Con due veterani in due dei ruoli principali, l’attenzione della serata era puntata in particolare su Saioa Hernández, alle prese con l’unica vera sfida vocale dell’opera: la parte di Odabella. Il soprano si è costruita una solidissima reputazione negli ultimi anni, cantando con molto successo opere impegnative (Francesca da Rimini, Wally, Gioconda). Arriva ora alla Scala per uno dei ruoli più impervi del repertorio ottocentesco. Hernández ne supera con stile le difficoltà: esce indenne dalla temibile sortita «Santo di patria indefinito amor!» (solo le colorature potrebbero essere più a fuoco) e dalla non meno temibile romanza «Oh! nel fuggente nuvolo», così vicine nell’opera e così diverse nella vocalità; dà poi il meglio di sé nei concertati, in cui la voce svetta luminosa su coro, solisti e orchestra. Hernández è un’interprete convinta, sia dal punto di vista musicale, sia da quello attoriale e ottiene per questo un meritatissimo successo, che però non è un trionfo (forse Odabella non era il ruolo più adatto a questo scopo). Di gran lusso i comprimari Francesco Pittari (Uldino), Gianluca Buratto (Leone), ottimi interpreti che la Scala sa sempre garantire anche nelle parti secondarie.


Attila
Dramma lirico in un prologo e tre atti


cast cast & credits
 
trama trama


Un momento dello spettacolo
© Marco Brescia e Rudy Amisano


 
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