Si chiude la 80ª Mostra
internazionale darte cinematografica di Venezia, unedizione molto particolare
stravolta dallo sciopero degli sceneggiatori e degli attori hollywoodiani, cha
ha costretto la direzione artistica a ridefinire in corsa un programma già
fatto e in alcune parti già annunciato, comè successo per film di apertura che
avrebbe dovuto essere Challengers di Luca Guadagnino, ritirato
dalla distribuzione statunitense e sostituito dallitaliano Il comandante di
Edoardo De Angelis. Meno America del previsto, meno star al Lido e una
selezione ufficiale che è comunque riuscita ad arginare questa evidentemente
inaspettata emorragia rivelandosi, nel complesso, di buon livello.
Per quanto riguarda il concorso
ufficiale, forse mai come questanno è stato facile prevedere quali sarebbero
stati i quattro film vincitori dei premi più importanti: Poor Things! di
Yorgos Lanthimos (Leone doro), Evil Does Not Exist di Ryusuke
Hamaguchi (Leone dargento - Gran Premio della giuria), Io Capitano
di Matteo Garrone (Leone dArgento - Premio speciale per la regia), Green
Border di Agneska Holland (Premio speciale della giuria) hanno
subito catalizzato, con ampio margine sugli altri, linteresse sia del pubblico
che della critica e la giuria ha confermato quella che evidentemente era molto
di più di una semplice sensazione diffusa. 
Una scena di Il male non esiste© Biennale Cinema
Si tratta di quattro opere e di quattro
autori molto diversi tra loro. Il Leone doro è stato vinto da Lanthimos, che
sembra aver (fortunatamente) lasciato le gelide geometrie (anche narrative) di The
Lobster e del The Killing of a Sacred Deer, proseguendo il corso
inaugurato con The Favourite (già Leone dArgento nel 2018), di cui Poor
Things! amplifica il lato barocco dellimmagine, anche attraverso un uso
massiccio della computer graphics. La
storia è ambientata nellepoca vittoriana, in cui troviamo echi di Cronenberg, Lynch, Lang e persino Mel Brooks, visto che la protagonista è
una specie di Frankenstein donna (Bella Baxter, molto generosamente interpretata
da Emma Stone) che, con lo spirito del Candide di Voltaire, intraprende un percorso di emancipazione prima dal suo
“creatore” (Willem Dafoe), e quindi da tutto il genere maschile, in una
progressiva presa di coscienza di sé stessa e delle sue potenzialità,
smascherando le contraddizioni, le ipocrisie e le debolezze della società
patriarcale. Nonostante che Lanthimos continui a essere un regista sempre
troppo narcisisticamente “innamorato” delle sue immagini, questa sua nuova fase
produttiva e soprattutto questo suo “disgelo” formale stanno giovando non poco allevoluzione
e allefficacia del suo cinema. Meritato Leone dArgento a Ryūsuke
Hamaguchi che con Evil Does Not Exist si conferma essere regista capace
di filmare il tempo e i tempi dei suoi personaggi, allinterno di una dinamica
narrativa lievemente didascalica (una società vuole costruire una specie di
resort in un piccolissimo paese immerso nei boschi, andando irrimediabilmente a
sconvolgerne la cristallizzata semplicità di uno stile di vita in tranquilla
armonia con la natura), dove il vero protagonista è proprio il paesaggio con la
sua luce vivida e la sua ambigua oscurità, come nellimprovvisa accelerazione
drammaturgica che chiude il film, in un finale che proprio quelloscurità rende
forse più criptico che aperto.

Una scena di Poor Things © Biennale Cinema
Il Leone dArgento per la regia è di
Matteo Garrone con il suo Io Capitano, lunico della folta pattuglia dei
film italiani che ha davvero convinto la giuria, con la storia dei giovanissimi
migranti Seydou e Moussa, sognatori e incoscienti che scappano dalle famiglie e
con i soldi guadagnati di nascosto partono da Dakar verso il “mito dellEuropa”,
nella totale inconsapevolezza di ciò a cui andranno incontro. Il risultato è unodissea
che somiglia molto a un tragico Pinocchio, dove Seydou, separato dal suo amico,
affronta da solo il suo viaggio verso quello che appare sempre meno lo sperato “paese
dei balocchi” e che invece lo condurrà, suo malgrado, a diventare precocemente
un uomo. Garrone non rinuncia a innestare quegli elementi onirici che gli sono
cari, né a una certa ricercatezza dellimmagine, che rischia a volte di
stridere con la gravità delle cose mostrate in questo “racconto dei racconti”
della contemporaneità, che tra laltro permette al suo protagonista Seydou
Sarr di vincere più che meritatamente il Premio Marcello Mastroianni al
miglior attore emergente. 
Una scena di Io Capitano © Biennale Cinema
Il Premio speciale della giuria è
del film più bello e potente del concorso: Green Border di Agneska
Holland, ancora una storia di migranti, ma questa volta di afghani, siriani e
curdi che tentano di superare il confine tutto europeo tra Bielorussia e
Polonia. Qui non ci sono ladri, banditi, campi di concentramento, non cè una
malavita organizzata che tortura e traffica esseri umani come se fossero
schiavi, mandandoli alla deriva nel Mediterraneo, ma soldati ed eserciti regolari
che con crudeltà nazista ammassano, seviziano e derubano, intere famiglie. Un aberrante
ping-pong di reciproci “respingimenti”, dove uomini, vecchi, donne e bambini diventano
una massa indistinta di corpi che, di volta in volta, di giorno vengono catturati
e di notte, vivi o morti che siano, vengono gettati aldilà del confine dello
stato, senza soluzione di continuità. Girato in un bianco e nero asciutto e
tuttaltro che estetizzante, il film mostra con estremo realismo e senza sconti
dove finisce la nostra civiltà e quanto questo confine sia vicino. 
Una scena di Il confine verde© Biennale Cinema
Decisamente più generose (e forse
anche “politiche”) le due Coppe Volpi a Cailee Spaeny per Priscilla
di Sofia Coppola e a Peter Sarsgaard per Memory di Michael
Franco, due buone interpretazioni, ma sicuramente non le migliori viste nel
concorso. Altrettanto generosa (e anche altrettanto politica) è lOsella per la
migliore sceneggiatura a El Conde di Pablo Larraín,
rilettura in chiave satirica della figura di Pinochet, visto come un immortale vampiro che attraversa i secoli e
che ancora si nutre del sangue e dei cuori del popolo cileno (il film è già
disponibile su Netflix).
Fuori dai premi sono rimasti
comunque dei buoni film come il Brizé sentimentale di Hors-saison,
le biografie di Leonard Bernstein (Maestro
di Bradley Cooper) ed Enzo
Ferrari (Ferrari di Michael Mann), The Killer
di David Fincher, Bastarden di Nikolaj Arcel e (inaspettatamente)
anche Dogman, il Joker diversamente abile di Luc Besson. Capitolo
a parte per i tanti (troppi) film italiani che, Garrone a parte, sono rimasti
un po ai margini del concorso. Non male Adagio di Stefano Sollima,
solido e onesto film di genere (finalmente); forse un po troppo ambizioso Finalmente
lalba di Saverio Costanzo, ambientato allindomani dellomicidio di
Wilma Montesi, che vorrebbe mettere in scena «la perdita dellinnocenza
dellItalia tutta» (parole del regista), ma che alla fine sembra più un piccolo
Babylon della “Hollywood sul Tevere” degli anni 50. Quasi
irriconoscibile la mano di Giorgi Diritti in Lubo; eppure la
storia quasi pirandelliana (tratta dal romanzo Il seminatore di Mario Cavatore) di un padre di etnia jenisch che, durante la Seconda guerra
mondiale nella neutrale Svizzera, cerca giustizia (e una sua particolare
vendetta) perché la polizia gli ha sottratto i figli e ucciso accidentalmente
la moglie, avrebbe aspetti molto intriganti e profondi, ma la piatta messa in
scena del regista la rende troppo ellittica e sfilacciata, smorzandone
volutamente (e inspiegabilmente) le asperità, anestetizzandone inevitabilmente
linteresse, che nemmeno lottima prova attoriale di Franz Rogowski
riesce a risollevare. In ultimo Enea di Pietro Castellitto, già
criticato preventivamente per il suo inserimento in concorso, è uno di quei
film da prendere o lasciare. Come il precedente I predatori, parte molto
bene, con un bel dialogo sulla famiglia e sulla sua effettiva importanza, salvo
poi procedere per accumulo su personaggi, suggestioni, tematiche, diramazioni
narrative, derive evidentemente e inspiegabilmente autodistruttive dei
protagonisti, che rendono il film più caotico che complesso, quasi in preda a
una bulimia di cose da voler dire e voler mostrare. 
Una scena di Ferrari© Biennale Cinema
Per trovare il migliore film del
festival bisogna comunque uscire dal concorso principale e andare verso
Orizzonti. Come già lo scorso anno era inspiegabilmente successo per Lav
Diaz e il suo When the Waves Are Gone, anche questanno troviamo,
altrettanto inspiegabilmente, il bellissimo Shadows of Fire di Shinya
Tsukamoto, che continua il suo viaggio intorno e dentro la natura umana nel
suo rapporto con la guerra, con la violenza, con personaggi che esprimono tutto
il loro insopprimibile bisogno di unintimità fisicamente sentimentale. Questa
volta il suo sguardo passa attraverso gli occhi magnetici e già disillusi di un
bambino di sette anni, che vive di espedienti nel Giappone della crisi, mentre
la Seconda guerra mondiale sta finendo. Ovviamente questa manifesta superiorità
non ha portato nessun premio al regista giapponese, esattamente come lo scorso
anno con Lav Diaz, e la sezione Orizzonti è stata vinta dallungherese Explanation
for Everything di Gábor Reisz. La giuria ha voluto riconoscere il
suo premio speciale a Una sterminata domenica di Alex Parroni,
una sorta di Jules et Jim tra ragazzini della periferia romana costretti
a crescere troppo in fretta: un film indubbiamente molto vicino al gusto e allestetica
del presidente della stessa giuria Jonas Carpignano. 
Una scena di Ombra di fuoco © Biennale Cinema
Sempre (incomprensibilmente?) fuori
concorso troviamo The Palace di Roman Polanski, una farsa
dadaista, pericolosamente e per questo anche magneticamente in bilico tra Buñuel e Vacanze di Natale, che
ci parla di tempi e di corpi mostruosamente mutanti, tutti chiusi allinterno
di un disneyano hotel di Gstaad durante la festa di capodanno del 2000. Quindi
il ritorno più atteso: Coup de chance di un ritrovato Woody Allen,
che torna a parlare di amori, tradimenti e omicidi, rileggendo e ironicamente ribaltando
le atmosfere noir di Match Point, il tutto attraverso uno stile
particolarmente inedito che fa legittimamente pensare cha abbia lasciato piena
libertà di girare al suo sodale Vittorio Storaro. Ancora fuori concorso
lultimo (bellissimo) film postumo di William Friedkin The Caine
Mutiny Court-Martial, un claustrofobico legal movie chiuso nellaula
di un tribunale dove si sta svolgendo un processo per ammutinamento: tutto è
già successo e ciò che interessa non è la verità, né tantomeno se le decisioni
prese siano state le migliori per la sicurezza di tutti, quanto piuttosto limprescindibilità
del rispetto delle procedure regolamentari come unica prassi tautologicamente
corretta indipendentemente dal contesto in cui si opera (se il regolamento
stabilisce chi è il comandante, significa che il comandante ha sempre ragione
perché così dice il regolamento, come insegna il famoso comma 22). Altro evento
speciale è stato Hit Man di Richard Linklater, divertente action
comedy, perfetto meccanismo di scrittura cinematografica e di messa in
scena su un docente universitario (un ottimo Glen Powell, anche
sceneggiatore) che per caso si ritrova a fare da esca per la polizia come finto
killer. Sempre fuori concorso Daaaaaalì!, ultima follia di Quentin
Dupieux, gioco di scatole cinesi coerentemente surreale sul personaggio del
famoso pittore interpretato da cinque diversi attori.

Una scena di The Caine Mutiny Court-Martial © Biennale cinema
Unultima considerazione merita lottima
selezione della Settimana Internazionale della Critica, allinterno della quale
spicca il premio “Luigi De Laurentis” Leone del futuro alla migliore opera
prima della Mostra a Love is a Gun del taiwanese Lee Hong-chi, che con una regia già molto matura realizza un affascinante
noir realista di vendetta e (impossibile) espiazione, che rimanda alle
atmosfere di Tsai Ming-liang. Da non
dimenticare il film vincitore della SIC, ovvero Malqueridas di Tana Gilbert, un documentario di
testimonianza civile, un film “verticale”, emotivamente molto forte, composto
da video girati e fatti clandestinamente uscire da un carcere femminile cileno
dalle stesse detenute.
Quello visto allottantesima Mostra
di Venezia è un cinema sempre più consapevole della sua crisi, ma che ancora non
sembra perfettamente riuscito a capire quale possa essere la sua direzione
futura, mentre tutto intorno strategie produttive, distributive e commerciali
continuano incessantemente a cambiare. Come si è visto in questa (per noi
italiani) incredibile estate, che ha visto tornare il pubblico in sala, ma quasi
esclusivamente per la grande serialità (Mission Impossible) e i grandi
eventi, siano essi “dautore” come Oppenheimer o commerciali (ma meglio
se sempre “dautore” o “dautrice”) come Barbie, ovvero film che non hanno
avuto bisogno della promozione legata ai grandi Festival. E questa è senza
dubbio una cosa su cui dover riflettere.
|
 |