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Venezia 80, buon cinema in Mostra

di Luigi Nepi
  Venezia 80, buon cinema in Mostra
Data di pubblicazione su web 21/09/2023  

Si chiude la 80ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, un’edizione molto particolare stravolta dallo sciopero degli sceneggiatori e degli attori hollywoodiani, cha ha costretto la direzione artistica a ridefinire in corsa un programma già fatto e in alcune parti già annunciato, com’è successo per film di apertura che avrebbe dovuto essere Challengers di Luca Guadagnino, ritirato dalla distribuzione statunitense e sostituito dall’italiano Il comandante di Edoardo De Angelis. Meno America del previsto, meno star al Lido e una selezione ufficiale che è comunque riuscita ad arginare questa evidentemente inaspettata emorragia rivelandosi, nel complesso, di buon livello.

Per quanto riguarda il concorso ufficiale, forse mai come quest’anno è stato facile prevedere quali sarebbero stati i quattro film vincitori dei premi più importanti: Poor Things! di Yorgos Lanthimos (Leone d’oro), Evil Does Not Exist di Ryusuke Hamaguchi (Leone d’argento - Gran Premio della giuria), Io Capitano di Matteo Garrone (Leone d’Argento - Premio speciale per la regia), Green Border di Agneska Holland (Premio speciale della giuria) hanno subito catalizzato, con ampio margine sugli altri, l’interesse sia del pubblico che della critica e la giuria ha confermato quella che evidentemente era molto di più di una semplice sensazione diffusa.

Una scena di Il male non esiste
Una scena di Il male non esiste
© Biennale Cinema

Si tratta di quattro opere e di quattro autori molto diversi tra loro. Il Leone d’oro è stato vinto da Lanthimos, che sembra aver (fortunatamente) lasciato le gelide geometrie (anche narrative) di The Lobster e del The Killing of a Sacred Deer, proseguendo il corso inaugurato con The Favourite (già Leone d’Argento nel 2018), di cui Poor Things! amplifica il lato barocco dell’immagine, anche attraverso un uso massiccio della computer graphics. La storia è ambientata nell’epoca vittoriana, in cui troviamo echi di Cronenberg, Lynch, Lang e persino Mel Brooks, visto che la protagonista è una specie di Frankenstein donna (Bella Baxter, molto generosamente interpretata da Emma Stone) che, con lo spirito del Candide di Voltaire, intraprende un percorso di emancipazione prima dal suo “creatore” (Willem Dafoe), e quindi da tutto il genere maschile, in una progressiva presa di coscienza di sé stessa e delle sue potenzialità, smascherando le contraddizioni, le ipocrisie e le debolezze della società patriarcale. Nonostante che Lanthimos continui a essere un regista sempre troppo narcisisticamente “innamorato” delle sue immagini, questa sua nuova fase produttiva e soprattutto questo suo “disgelo” formale stanno giovando non poco all’evoluzione e all’efficacia del suo cinema.

Meritato Leone d’Argento a Ryūsuke Hamaguchi che con Evil Does Not Exist si conferma essere regista capace di filmare il tempo e i tempi dei suoi personaggi, all’interno di una dinamica narrativa lievemente didascalica (una società vuole costruire una specie di resort in un piccolissimo paese immerso nei boschi, andando irrimediabilmente a sconvolgerne la cristallizzata semplicità di uno stile di vita in tranquilla armonia con la natura), dove il vero protagonista è proprio il paesaggio con la sua luce vivida e la sua ambigua oscurità, come nell’improvvisa accelerazione drammaturgica che chiude il film, in un finale che proprio quell’oscurità rende forse più criptico che aperto.

Una scena di Poor Things © Biennale Cinema
Una scena di Poor Things 
© Biennale Cinema

Il Leone d’Argento per la regia è di Matteo Garrone con il suo Io Capitano, l’unico della folta pattuglia dei film italiani che ha davvero convinto la giuria, con la storia dei giovanissimi migranti Seydou e Moussa, sognatori e incoscienti che scappano dalle famiglie e con i soldi guadagnati di nascosto partono da Dakar verso il “mito dell’Europa”, nella totale inconsapevolezza di ciò a cui andranno incontro. Il risultato è un’odissea che somiglia molto a un tragico Pinocchio, dove Seydou, separato dal suo amico, affronta da solo il suo viaggio verso quello che appare sempre meno lo sperato “paese dei balocchi” e che invece lo condurrà, suo malgrado, a diventare precocemente un uomo. Garrone non rinuncia a innestare quegli elementi onirici che gli sono cari, né a una certa ricercatezza dell’immagine, che rischia a volte di stridere con la gravità delle cose mostrate in questo “racconto dei racconti” della contemporaneità, che tra l’altro permette al suo protagonista Seydou Sarr di vincere più che meritatamente il Premio Marcello Mastroianni al miglior attore emergente.

Una scena di Io Capitano   © Biennale Cinema
Una scena di Io Capitano 
© Biennale Cinema

Il Premio speciale della giuria è del film più bello e potente del concorso: Green Border di Agneska Holland, ancora una storia di migranti, ma questa volta di afghani, siriani e curdi che tentano di superare il confine tutto europeo tra Bielorussia e Polonia. Qui non ci sono ladri, banditi, campi di concentramento, non c’è una malavita organizzata che tortura e traffica esseri umani come se fossero schiavi, mandandoli alla deriva nel Mediterraneo, ma soldati ed eserciti regolari che con crudeltà nazista ammassano, seviziano e derubano, intere famiglie. Un aberrante ping-pong di reciproci “respingimenti”, dove uomini, vecchi, donne e bambini diventano una massa indistinta di corpi che, di volta in volta, di giorno vengono catturati e di notte, vivi o morti che siano, vengono gettati aldilà del confine dello stato, senza soluzione di continuità. Girato in un bianco e nero asciutto e tutt’altro che estetizzante, il film mostra con estremo realismo e senza sconti dove finisce la nostra civiltà e quanto questo confine sia vicino.

Una scena di Il confine verde © Biennale Cinema
Una scena di Il confine verde
© Biennale Cinema

Decisamente più generose (e forse anche “politiche”) le due Coppe Volpi a Cailee Spaeny per Priscilla di Sofia Coppola e a Peter Sarsgaard per Memory di Michael Franco, due buone interpretazioni, ma sicuramente non le migliori viste nel concorso. Altrettanto generosa (e anche altrettanto politica) è l’Osella per la migliore sceneggiatura a El Conde di Pablo Larraín, rilettura in chiave satirica della figura di Pinochet, visto come un immortale vampiro che attraversa i secoli e che ancora si nutre del sangue e dei cuori del popolo cileno (il film è già disponibile su Netflix).

Fuori dai premi sono rimasti comunque dei buoni film come il Brizé sentimentale di Hors-saison, le biografie di Leonard Bernstein (Maestro di Bradley Cooper) ed Enzo Ferrari (Ferrari di Michael Mann), The Killer di David Fincher, Bastarden di Nikolaj Arcel e (inaspettatamente) anche Dogman, il Joker diversamente abile di Luc Besson. Capitolo a parte per i tanti (troppi) film italiani che, Garrone a parte, sono rimasti un po’ ai margini del concorso. Non male Adagio di Stefano Sollima, solido e onesto film di genere (finalmente); forse un po’ troppo ambizioso Finalmente l’alba di Saverio Costanzo, ambientato all’indomani dell’omicidio di Wilma Montesi, che vorrebbe mettere in scena «la perdita dell’innocenza dell’Italia tutta» (parole del regista), ma che alla fine sembra più un piccolo Babylon della “Hollywood sul Tevere” degli anni ’50. Quasi irriconoscibile la mano di Giorgi Diritti in Lubo; eppure la storia quasi pirandelliana (tratta dal romanzo Il seminatore di Mario Cavatore) di un padre di etnia jenisch che, durante la Seconda guerra mondiale nella neutrale Svizzera, cerca giustizia (e una sua particolare vendetta) perché la polizia gli ha sottratto i figli e ucciso accidentalmente la moglie, avrebbe aspetti molto intriganti e profondi, ma la piatta messa in scena del regista la rende troppo ellittica e sfilacciata, smorzandone volutamente (e inspiegabilmente) le asperità, anestetizzandone inevitabilmente l’interesse, che nemmeno l’ottima prova attoriale di Franz Rogowski riesce a risollevare. In ultimo Enea di Pietro Castellitto, già criticato preventivamente per il suo inserimento in concorso, è uno di quei film da prendere o lasciare. Come il precedente I predatori, parte molto bene, con un bel dialogo sulla famiglia e sulla sua effettiva importanza, salvo poi procedere per accumulo su personaggi, suggestioni, tematiche, diramazioni narrative, derive evidentemente e inspiegabilmente autodistruttive dei protagonisti, che rendono il film più caotico che complesso, quasi in preda a una bulimia di cose da voler dire e voler mostrare.

Una scena di Ferrari © Biennale Cinema
Una scena di Ferrari
© Biennale Cinema

Per trovare il migliore film del festival bisogna comunque uscire dal concorso principale e andare verso Orizzonti. Come già lo scorso anno era inspiegabilmente successo per Lav Diaz e il suo When the Waves Are Gone, anche quest’anno troviamo, altrettanto inspiegabilmente, il bellissimo Shadows of Fire di Shin’ya Tsukamoto, che continua il suo viaggio intorno e dentro la natura umana nel suo rapporto con la guerra, con la violenza, con personaggi che esprimono tutto il loro insopprimibile bisogno di un’intimità fisicamente sentimentale. Questa volta il suo sguardo passa attraverso gli occhi magnetici e già disillusi di un bambino di sette anni, che vive di espedienti nel Giappone della crisi, mentre la Seconda guerra mondiale sta finendo. Ovviamente questa manifesta superiorità non ha portato nessun premio al regista giapponese, esattamente come lo scorso anno con Lav Diaz, e la sezione Orizzonti è stata vinta dall’ungherese Explanation for Everything di Gábor Reisz. La giuria ha voluto riconoscere il suo premio speciale a Una sterminata domenica di Alex Parroni, una sorta di Jules et Jim tra ragazzini della periferia romana costretti a crescere troppo in fretta: un film indubbiamente molto vicino al gusto e all’estetica del presidente della stessa giuria Jonas Carpignano.

Una scena di Ombra di fuoco © Biennale Cinema
Una scena di Ombra di fuoco 
© Biennale Cinema

Sempre (incomprensibilmente?) fuori concorso troviamo The Palace di Roman Polanski, una farsa dadaista, pericolosamente e per questo anche magneticamente in bilico tra Buñuel e Vacanze di Natale, che ci parla di tempi e di corpi mostruosamente mutanti, tutti chiusi all’interno di un disneyano hotel di Gstaad durante la festa di capodanno del 2000. Quindi il ritorno più atteso: Coup de chance di un ritrovato Woody Allen, che torna a parlare di amori, tradimenti e omicidi, rileggendo e ironicamente ribaltando le atmosfere noir di Match Point, il tutto attraverso uno stile particolarmente inedito che fa legittimamente pensare cha abbia lasciato piena libertà di girare al suo sodale Vittorio Storaro. Ancora fuori concorso l’ultimo (bellissimo) film postumo di William Friedkin The Caine Mutiny Court-Martial, un claustrofobico legal movie chiuso nell’aula di un tribunale dove si sta svolgendo un processo per ammutinamento: tutto è già successo e ciò che interessa non è la verità, né tantomeno se le decisioni prese siano state le migliori per la sicurezza di tutti, quanto piuttosto l’imprescindibilità del rispetto delle procedure regolamentari come unica prassi tautologicamente corretta indipendentemente dal contesto in cui si opera (se il regolamento stabilisce chi è il comandante, significa che il comandante ha sempre ragione perché così dice il regolamento, come insegna il famoso comma 22). Altro evento speciale è stato Hit Man di Richard Linklater, divertente action comedy, perfetto meccanismo di scrittura cinematografica e di messa in scena su un docente universitario (un ottimo Glen Powell, anche sceneggiatore) che per caso si ritrova a fare da esca per la polizia come finto killer. Sempre fuori concorso Daaaaaalì!, ultima follia di Quentin Dupieux, gioco di scatole cinesi coerentemente surreale sul personaggio del famoso pittore interpretato da cinque diversi attori.

The Caine Mutiny Court-Martial © Biennale cinema
Una scena di The Caine Mutiny Court-Martial 
© Biennale cinema

Un’ultima considerazione merita l’ottima selezione della Settimana Internazionale della Critica, all’interno della quale spicca il premio “Luigi De Laurentis” Leone del futuro alla migliore opera prima della Mostra a Love is a Gun del taiwanese Lee Hong-chi, che con una regia già molto matura realizza un affascinante noir realista di vendetta e (impossibile) espiazione, che rimanda alle atmosfere di Tsai Ming-liang. Da non dimenticare il film vincitore della SIC, ovvero Malqueridas di Tana Gilbert, un documentario di testimonianza civile, un film “verticale”, emotivamente molto forte, composto da video girati e fatti clandestinamente uscire da un carcere femminile cileno dalle stesse detenute.

Quello visto all’ottantesima Mostra di Venezia è un cinema sempre più consapevole della sua crisi, ma che ancora non sembra perfettamente riuscito a capire quale possa essere la sua direzione futura, mentre tutto intorno strategie produttive, distributive e commerciali continuano incessantemente a cambiare. Come si è visto in questa (per noi italiani) incredibile estate, che ha visto tornare il pubblico in sala, ma quasi esclusivamente per la grande serialità (Mission Impossible) e i grandi eventi, siano essi “d’autore” come Oppenheimer o commerciali (ma meglio se sempre “d’autore” o “d’autrice”) come Barbie, ovvero film che non hanno avuto bisogno della promozione legata ai grandi Festival. E questa è senza dubbio una cosa su cui dover riflettere.









Ryusuke Hamaguchi, presente alla Mostra e premiato per Il male non esiste




Edoardo De Angelis e Pierfrancesco Favino, al Lido per Comandante





Matteo Garrone, premiato per Io Capitano







 
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