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Rapiti

di Giuseppe Mattia
  Rapito
Data di pubblicazione su web 07/06/2023  

Che durante la 76ª edizione del Festival di Cannes sia stata snobbata un’opera così sorprendente come Rapito di Marco Bellocchio la dice lunga sulla tendenza della kermesse a privilegiare, almeno negli ultimi anni, giovani autori con film costruiti ad hoc per scioccare e sorprendere attraverso forme e strutture inconsuete: da Julia Ducournau (classe 83) con Titane a Ruben Östlund (classe 74) con Triangle of Sadness fino all’ultima Palma d’oro assegnata a Justine Triet (classe 78) per Anatomie d’une chute.

Con il suo ventiseiesimo lungometraggio (escluso l’episodio Discutiamo, discutiamo nel film collettivo Amore e rabbia, 1969) il regista piacentino sembra essere giunto nel pieno di una seconda fase artistica, cominciata con L’ora di religione (2002) e ribadita coi recenti e riuscitissimi Il traditore (2019), Marx può aspettare (2021) ed Esterno notte (2022). Nella sua impegnata (e impegnativa) filmografia, Bellocchio ha saputo delineare una ben precisa poetica, mirata a indagare le ambiguità dell’individuo, del potere, della politica, della società corrotta e prevaricatrice e, non da ultimo, della famiglia (sin dal folgorante esordio I pugni in tasca del 1965). Ogni suo titolo è abilmente incardinato in precisi contesti storici e socio-culturali, come si riscontra anche in quest’ultima gemma destinata a essere ricordata per la sua strabiliante atmosfera e per il suo vigore, una sorta di corrispettivo cinematografico dello zoliano J’accuse: in comune con l’editoriale dello scrittore francese, uscito su «L’Aurore» nel 1898, l’affaire del piacentino vanta un’architettura di questioni, risolte e non, a partire da un episodio di antisemitismo realmente accaduto. Liberamente ispirato al romanzo Il caso Mortara di Daniele Scalise (Mondadori 1997), Rapito ripercorre le vicende dell’omonima famiglia israelita residente a Bologna, città facente parte dello Stato della Chiesa nell’Italia preunitaria.



Una scena del film

Una domestica (Aurora Camatti), preoccupata per il precario stato di salute del neonato Edgardo (Enea Sala), decide all’insaputa dei genitori di celebrare il rito battesimale, convinta di preservarlo dal limbo in caso di improvvisa dipartita. Venuto a sapere anni dopo del sacramento compiuto, l’inquisitore padre Pier Gaetano Feletti (Fabrizio Gifuni), con l’avallo del papa Pio IX (Paolo Pierobon), il 23 giugno del 1858 ordina ai gendarmi pontifici di sottrarre il seienne dall’abitazione dei Mortara. Edgardo viene così condotto a Roma, presso la Casa dei Catecumeni, per essere educato insieme ad altri coetanei nati ebrei secondo i precetti cattolici, inducendolo a rinnegare e ripudiare la sua fede d’origine. La questione privata e familiare – alimentata dal padre (Fausto Russo Alesi) e dalla madre di Edgardo (Barbara Ronchi) – diventa un caso diplomatico destinato a varcare i confini europei, minando il già precario rapporto politico fra le due fedi monoteiste ed esponendosi, di fatto, a strumentalizzazioni politiche. A ciò si aggiungono anche i tumulti e le ripercussioni del processo risorgimentale in corso, dalle prime bandiere tricolori all’esplosione delle mura in prossimità di Porta Pia (1870), episodio che decreta la fine dello Stato Pontificio e del potere temporale di una Chiesa anacronistica e terrificante.



Una scena del film

Per quanto riguarda il comparto attoriale ci si trova di fronte una prova più memorabile dell’altra: dalla conferma del talento di Russo Alesi – già distintosi nelle due precedenti pellicole bellocchiane – alle prove dei due vincitori del David di Donatello 2023: Ronchi con Settembre (2022) di Giulia Steigerwalt e Gifuni con Esterno notte, incommensurabile nel ruolo di Aldo Moro, precedentemente interpretato sul palcoscenico dall’attore in Con il vostro irridente silenzio (2020). Strabilianti anche le prove del mefistofelico Pierobon nei panni di Pio IX, del misurato e indottrinato Filippo Timi (cardinal Giacomo Antonelli) – già bellocchiano Benito Mussolini in Vincere (2006) – e di Leonardo Maltese, nel ruolo di un fanatico e imperscrutabile Edgardo adulto. Menzione ulteriore ai giovanissimi attori, da Sala fino agli altri suoi compagni di “prigionia”.

Sul comparto tecnico si segnala l’encomiabile lavoro di montaggio alternato di Francesca Calvelli (compagna del regista) e di Stefano Mariotti, in grado di restituire all’occorrenza un ritmo vorticoso ma anche placido, ponendo ad esempio sullo stesso piano temporale un innocente nascondino tra bambini e il suggestivo assedio sabaudo alle porte della capitale. Medesima lode anche per la direzione della fotografia di Francesco di Giacomo – magistrale nel ricreare atmosfere plumbee, lugubri e opprimenti – coadiuvato dall’ineccepibile resa scenografica ad opera di Andrea Castorina. Impareggiabili poi le scelte musicali di Fabio Massimo Capogrosso, tali da sembrare incorporate alla sceneggiatura valorizzando e definendo i numerosi momenti di Spannung. La regia maestosa di Bellocchio abbraccia questi esiti con una freschezza e una maestosità proverbiale, con scene intime e di massa vigorose al punto da “rapire” anche gli spettatori. La sceneggiatura firmata dallo stesso Bellocchio, Susanna Nicchiarelli, Edoardo Albinati e Daniela Ceselli, è densa di riflessioni e riferimenti, sorreggendo numerose e approfondite questioni nelle maglie indecifrabili della Storia.



Una scena del film

La capacità del regista di sfuggire al manicheismo è proverbiale, riuscendo con coerenza ed eleganza mettere lo spettatore di fronte alle pieghe insidiose degli eventi, tra sfumature e contraddizioni. Anche la parte lesa, quella della famiglia Mortara, pur di non piegarsi all’aut aut della Chiesa, ossia di abiurare alla fede ebraica, decide di rinunciare a riprendere con sé Edgardo. Se mai fosse necessario individuare una dicotomia in Rapito si potrebbe parlare della contrapposizione tra cieca fede e legittimo dubbio, due sentieri tortuosi destinati prima o poi a convergere. Ciò che rende imperdibili i film di Bellocchio è quel costante senso di imprevedibilità che permea l’intera struttura drammaturgica: da un momento all’altro può succedere qualsiasi cosa, da un abbraccio inteso come tentato omicidio a incubi di indicibile brutalità fino a un Cristo che noncurante scende dalla croce per andare chissà dove. Ennesima conferma di un autore inesauribile.




Rapito
cast cast & credits
 


La locandina del film


 
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