Che durante
la 76ª edizione del Festival di Cannes sia stata snobbata unopera così
sorprendente come Rapito di Marco Bellocchio la dice lunga sulla
tendenza della kermesse a privilegiare, almeno negli ultimi anni, giovani
autori con film costruiti ad hoc per scioccare e sorprendere attraverso forme e
strutture inconsuete: da Julia Ducournau (classe 83) con Titane
a Ruben Östlund (classe 74) con Triangle of Sadness
fino allultima Palma doro assegnata a Justine Triet (classe 78) per Anatomie
dune chute.
Con
il suo ventiseiesimo lungometraggio (escluso lepisodio Discutiamo,
discutiamo nel film collettivo Amore e rabbia, 1969) il regista piacentino
sembra essere giunto nel pieno di una seconda fase artistica, cominciata con Lora
di religione (2002) e ribadita coi recenti e riuscitissimi Il traditore
(2019), Marx può aspettare (2021) ed Esterno notte (2022).
Nella sua impegnata (e impegnativa) filmografia, Bellocchio ha saputo delineare
una ben precisa poetica, mirata a indagare le ambiguità dellindividuo, del
potere, della politica, della società corrotta e prevaricatrice e, non da
ultimo, della famiglia (sin dal folgorante esordio I pugni in tasca del
1965). Ogni suo titolo è abilmente incardinato in precisi contesti storici e
socio-culturali, come si riscontra anche in questultima gemma destinata a
essere ricordata per la sua strabiliante atmosfera e per il suo vigore, una
sorta di corrispettivo cinematografico dello zoliano Jaccuse: in comune
con leditoriale dello scrittore francese, uscito su «LAurore» nel 1898, laffaire
del piacentino vanta unarchitettura di questioni, risolte e non, a partire da
un episodio di antisemitismo realmente accaduto. Liberamente ispirato al
romanzo Il caso Mortara di Daniele Scalise (Mondadori 1997), Rapito
ripercorre le vicende dellomonima famiglia israelita residente a Bologna,
città facente parte dello Stato della Chiesa nellItalia preunitaria.
Una scena del film
Una
domestica (Aurora Camatti), preoccupata per il precario stato di salute
del neonato Edgardo (Enea Sala), decide allinsaputa dei genitori di
celebrare il rito battesimale, convinta di preservarlo dal limbo in caso di
improvvisa dipartita. Venuto a sapere anni dopo del sacramento compiuto, linquisitore
padre Pier Gaetano Feletti (Fabrizio Gifuni), con lavallo del papa Pio
IX (Paolo Pierobon), il 23 giugno del 1858 ordina ai gendarmi
pontifici di sottrarre il seienne dallabitazione dei Mortara. Edgardo viene così
condotto a Roma, presso la Casa dei Catecumeni, per essere educato insieme ad
altri coetanei nati ebrei secondo i precetti cattolici, inducendolo a rinnegare
e ripudiare la sua fede dorigine. La questione privata e familiare –
alimentata dal padre (Fausto Russo Alesi) e dalla madre di Edgardo (Barbara
Ronchi) – diventa un caso diplomatico destinato a varcare i confini europei,
minando il già precario rapporto politico fra le due fedi monoteiste ed
esponendosi, di fatto, a strumentalizzazioni politiche. A ciò si aggiungono
anche i tumulti e le ripercussioni del processo risorgimentale in corso, dalle
prime bandiere tricolori allesplosione delle mura in prossimità di Porta Pia
(1870), episodio che decreta la fine dello Stato Pontificio e del potere
temporale di una Chiesa anacronistica e terrificante.
Una scena del film
Per
quanto riguarda il comparto attoriale ci si trova di fronte una prova più
memorabile dellaltra: dalla conferma del talento di Russo Alesi – già
distintosi nelle due precedenti pellicole bellocchiane – alle prove dei due
vincitori del David di Donatello 2023: Ronchi con Settembre (2022) di Giulia
Steigerwalt e Gifuni con Esterno notte, incommensurabile nel ruolo
di Aldo Moro, precedentemente interpretato sul palcoscenico dallattore in
Con il vostro irridente silenzio (2020). Strabilianti anche le prove del
mefistofelico Pierobon nei panni di Pio IX, del misurato e indottrinato Filippo
Timi (cardinal Giacomo Antonelli) – già bellocchiano Benito Mussolini in
Vincere (2006) – e di Leonardo Maltese, nel ruolo di un fanatico
e imperscrutabile Edgardo adulto. Menzione ulteriore ai giovanissimi attori, da
Sala fino agli altri suoi compagni di “prigionia”.
Sul
comparto tecnico si segnala lencomiabile lavoro di montaggio alternato di Francesca
Calvelli (compagna del regista) e di Stefano Mariotti, in grado di
restituire alloccorrenza un ritmo vorticoso ma anche placido, ponendo ad
esempio sullo stesso piano temporale un innocente nascondino tra bambini e il suggestivo
assedio sabaudo alle porte della capitale. Medesima lode anche per la direzione
della fotografia di Francesco di Giacomo – magistrale nel ricreare
atmosfere plumbee, lugubri e opprimenti – coadiuvato dallineccepibile resa
scenografica ad opera di Andrea Castorina. Impareggiabili poi le scelte
musicali di Fabio Massimo Capogrosso, tali da sembrare incorporate alla
sceneggiatura valorizzando e definendo i numerosi momenti di Spannung. La regia
maestosa di Bellocchio abbraccia questi esiti con una freschezza e una
maestosità proverbiale, con scene intime e di massa vigorose al punto da “rapire”
anche gli spettatori. La sceneggiatura firmata dallo stesso Bellocchio, Susanna
Nicchiarelli, Edoardo Albinati e Daniela Ceselli, è densa di riflessioni e
riferimenti, sorreggendo numerose e approfondite questioni nelle maglie
indecifrabili della Storia.
Una scena del film
La
capacità del regista di sfuggire al manicheismo è proverbiale, riuscendo con
coerenza ed eleganza mettere lo spettatore di fronte alle pieghe insidiose degli
eventi, tra sfumature e contraddizioni. Anche la parte lesa, quella della
famiglia Mortara, pur di non piegarsi allaut aut della Chiesa, ossia di
abiurare alla fede ebraica, decide di rinunciare a riprendere con sé Edgardo.
Se mai fosse necessario individuare una dicotomia in Rapito si potrebbe
parlare della contrapposizione tra cieca fede e legittimo dubbio, due sentieri
tortuosi destinati prima o poi a convergere. Ciò che rende imperdibili i film di
Bellocchio è quel costante senso di imprevedibilità che permea lintera
struttura drammaturgica: da un momento allaltro può succedere qualsiasi cosa,
da un abbraccio inteso come tentato omicidio a incubi di indicibile brutalità
fino a un Cristo che noncurante scende dalla croce per andare chissà dove. Ennesima
conferma di un autore inesauribile.
|
 |