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Moro o la stanza della tortura

di Marco Pistoia
  Moro o la stanza della tortura
Data di pubblicazione su web 03/03/2020  

Nella notte tra il 15 e il 16 marzo (giorno del rapimento) del 1978 Aldo Moro è assorto nella lettura de Il Dio crocifisso «del teologo protestante Jürgen Moltmann, una riflessione incentrata sul ruolo dell’apocalisse nella storia e sul destino ultimo dell’uomo dopo la morte». Ce lo ricorda Miguel Gotor, storico massimo di Moro, aggiungendo, fra le altre cose, che poche ore prima un funzionario parlamentare, Tullio Ancora, «sta dettando un messaggio di Aldo Moro a Luciano Barca, uno dei più stretti collaboratori di Enrico Berlinguer» (A. Moro, Lettere dalla prigionia, a cura di M. Gotor, Torino, Einaudi, 2008, p. XII) per rassicurare il segretario del PCI sul profondo processo di rinnovamento che i due leader (Moro e Berlinguer) hanno a cuore.

Le lettere e il memoriale dello statista costituiscono i testi di questo spettacolo, la cui magistrale drammaturgia è dello stesso Fabrizio Gifuni, anche nelle vesti di interprete e regista. La scena è pressoché spoglia: un tavolino e una sedia, un microfono, alcuni fogli sparsi per terra, un mucchietto di polvere bianca di gesso. Ma c’è un dettaglio degno di rilievo: un rettangolo, inscritto sul pavimento del palcoscenico, delimita lo spazio dove Gifuni-Moro agisce. Con un prima e un dopo in cui, rispettivamente, l’attore vi entra e vi esce, per poi rientrarvi nel finale. In entrambe le situazioni, egli alza una gamba, come a manifestare un’esitazione o lo spavento del prigioniero che, come del resto pensò Moro, fino a un certo momento spera di uscire indenne. Possibile allusione alla stanza della prigionia (come una pirandelliana “stanza della tortura”), dalla quale Gifuni legge-interpreta i testi. Ma anche a un recinto a suo modo sacro, dove l’attore svolge a un tempo un agone e un “gioco”. Del resto, Gifuni parla spesso nelle sue interviste di campo magnetico che deve crearsi tra sé e noi spettatori: un luogo circoscritto in cui agisce e nel quale si consuma un rito antico e odierno.

Dando oralità a testi scritti per essere letti privatamente da destinatari diversi, Gifuni si è dovuto immaginare-inventare una serie di timbri e toni vocali per rendere parte gli spettatori non solo dei contenuti dei testi ma anche dell’atteggiamento – tout court psicologico – con cui sono stati scritti. Diversamente dal suo memorabile Moro cinematografico (per Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana, 2012), dove Gifuni vestiva i panni dello statista invecchiandosi, assumendone i movimenti, evocandone la voce, stavolta niente di tutto questo accade: Moro è presente anzitutto attraverso i testi. È incarnato attraverso la voce: una voce spesso cavernosa, spesso dolente – come se arrivasse da un aldilà, certo da un inferno quale è stata la prigionia –, in cui si percepisce l’amarezza verso coloro che, in una delle ultime lettere, definirà ex compagni di partito.


Un momento dello spettacolo torinese per l’inaugurazione del 31° Salone Internazionale del Libro, 9 maggio 2018
© Fabrizio Gifuni

Lettere e memoriale procedono in una sorta di montaggio parallelo e alternato – intrecciate le une con l’altro – mettendo in rilievo la complessità del pensiero che vi sta dietro, ma anche la ricorrente qualità della scrittura. Si passa così dai toni talora ilari della voce talora legati alle lettere alla moglie a quelli sempre più aspri – via via che i cinquantacinque giorni trascorrono – rivolti ai membri del suo partito. Più volte Gifuni dà un’accelerazione alla lettura come se il suo personaggio fosse preso, per dirla con Pasolini, da una disperata vitalità, ma anche da una foga sempre più rabbiosa verso certi politici: che siano maggiori (Andreotti, Cossiga, Fanfani, Zaccagnini, Leone, Taviani) o minori (Gaspari, Bartolomei), tutti costoro sono oggetto, chi più chi meno, di un j’accuse terribile, messo in risalto grazie a una performance interpretativa intensa. Gifuni è coerente con quei lavori di matrice letteraria o poetica (di recente Caproni) cui ci ha abituato da sedici anni e nei quali dà corporeità alle parole, mettendone in rilievo la lingua, lo stile, la forma, anzi esaltando questi elementi, porgendoli a voce alta a beneficio del pubblico che ovunque riempie i teatri.

Pur essendo diverso dai precedenti spettacoli, si potrebbero tuttavia individuare alcuni “fili relazionali” con essi, in particolare con quello gaddiano (L’ingegner Gadda va alla guerra o della tragica istoria di Amleto Pirobutirro, 2010) per quel dolente e disperato carattere che attraversa entrambi. E se il dittico Pasolini-Gadda ha costituito – anche nella versione in dvd – uno specifico progetto dal titolo Pasolini-Gadda. Antibiografia di una nazione, a suo modo Con il vostro irridente silenzio appare come un ideale pendant. Nella sua essenza questo ultimo spettacolo è ancor più “civile” e “politico”, a conferma dell’impegno “militante” dell’attore. Che dopo quasi due ore è fortemente provato da uno sforzo fisico che lo rende come un atleta da maratona animato dalla profonda passione per i suoi progetti. Una passione che rende sempre di altissimo profilo estetico ed etico i suoi lavori.

Infine: la manciatina di gesso che all’inizio Gifuni si sparge in testa mi ha fatto pensare, ma non saprei bene perché, a Pinter e in particolare a Ceneri alle ceneri. E, d’altra parte, se Pasolini scrisse Le ceneri di Gramsci, l’altra sera al Vascello si sono sparse, in un commosso e commovente omaggio, “le ceneri di Moro”.



Con il vostro irridente silenzio
cast cast & credits
 




La locandina dello spettacolo
visto al Teatro Vascello di Roma il 22 febbraio 2020
© Fabrizio Gifuni

In scena al Teatro della Pergola dal 18 al 23 gennaio 2022
 
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