Nella notte tra il 15 e il 16 marzo
(giorno del rapimento) del 1978 Aldo
Moro è assorto nella lettura de Il
Dio crocifisso «del teologo protestante Jürgen Moltmann, una riflessione incentrata sul ruolo
dellapocalisse nella storia e sul destino ultimo delluomo dopo la morte». Ce
lo ricorda Miguel Gotor, storico
massimo di Moro, aggiungendo, fra le altre cose, che poche ore prima un
funzionario parlamentare, Tullio Ancora,
«sta dettando un messaggio di Aldo Moro a Luciano
Barca, uno dei più stretti collaboratori di Enrico Berlinguer» (A. Moro, Lettere
dalla prigionia, a cura di M. Gotor, Torino, Einaudi, 2008, p. XII) per
rassicurare il segretario del PCI sul profondo processo di rinnovamento che i
due leader (Moro e Berlinguer) hanno a cuore.
Le lettere e il memoriale dello
statista costituiscono i testi di questo spettacolo, la cui magistrale
drammaturgia è dello stesso Fabrizio
Gifuni, anche nelle vesti di interprete e regista. La scena è pressoché
spoglia: un tavolino e una sedia, un microfono, alcuni fogli sparsi per terra,
un mucchietto di polvere bianca di gesso. Ma cè un dettaglio degno di rilievo:
un rettangolo, inscritto sul pavimento del palcoscenico, delimita lo spazio
dove Gifuni-Moro agisce. Con un prima e un dopo in cui, rispettivamente, lattore
vi entra e vi esce, per poi rientrarvi nel finale. In entrambe le situazioni, egli
alza una gamba, come a manifestare unesitazione o lo spavento del prigioniero
che, come del resto pensò Moro, fino a un certo momento spera di uscire
indenne. Possibile allusione alla stanza della prigionia (come una
pirandelliana “stanza della tortura”), dalla quale Gifuni legge-interpreta i
testi. Ma anche a un recinto a suo modo sacro, dove lattore svolge a un tempo
un agone e un “gioco”. Del resto, Gifuni parla spesso nelle sue interviste di
campo magnetico che deve crearsi tra sé e noi spettatori: un luogo circoscritto
in cui agisce e nel quale si consuma un rito antico e odierno. Dando oralità a testi scritti per essere letti privatamente da destinatari diversi, Gifuni si è dovuto immaginare-inventare una serie di timbri e toni vocali per rendere parte gli spettatori non solo dei contenuti dei testi ma anche dellatteggiamento – tout court psicologico – con cui sono stati scritti. Diversamente dal suo memorabile Moro cinematografico (per Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana, 2012), dove Gifuni vestiva i panni dello statista invecchiandosi, assumendone i movimenti, evocandone la voce, stavolta niente di tutto questo accade: Moro è presente anzitutto attraverso i testi. È incarnato attraverso la voce: una voce spesso cavernosa, spesso dolente – come se arrivasse da un aldilà, certo da un inferno quale è stata la prigionia –, in cui si percepisce lamarezza verso coloro che, in una delle ultime lettere, definirà ex compagni di partito. Un momento dello spettacolo torinese per linaugurazione del 31° Salone Internazionale del Libro, 9 maggio 2018 © Fabrizio Gifuni Lettere e memoriale procedono in
una sorta di montaggio parallelo e alternato – intrecciate le une con laltro –
mettendo in rilievo la complessità del pensiero che vi sta dietro, ma anche la
ricorrente qualità della scrittura. Si passa così dai toni talora ilari della
voce talora legati alle lettere alla moglie a quelli sempre più aspri – via via
che i cinquantacinque giorni trascorrono – rivolti ai membri del suo partito. Più
volte Gifuni dà unaccelerazione alla lettura come se il suo personaggio fosse
preso, per dirla con Pasolini, da
una disperata vitalità, ma anche da una foga sempre più rabbiosa verso certi
politici: che siano maggiori (Andreotti,
Cossiga, Fanfani, Zaccagnini, Leone, Taviani) o minori (Gaspari,
Bartolomei), tutti costoro sono oggetto,
chi più chi meno, di un jaccuse terribile,
messo in risalto grazie a una performance
interpretativa intensa. Gifuni è coerente con quei lavori di matrice letteraria
o poetica (di recente Caproni) cui ci
ha abituato da sedici anni e nei quali dà corporeità alle parole, mettendone in
rilievo la lingua, lo stile, la forma, anzi esaltando questi elementi,
porgendoli a voce alta a beneficio del pubblico che ovunque riempie i teatri.
Pur essendo diverso dai precedenti
spettacoli, si potrebbero tuttavia individuare alcuni “fili relazionali” con
essi, in particolare con quello gaddiano (Lingegner
Gadda va alla guerra o della tragica
istoria di Amleto Pirobutirro, 2010) per quel dolente e disperato carattere
che attraversa entrambi. E se il dittico Pasolini-Gadda ha costituito – anche nella versione in dvd – uno specifico progetto dal titolo Pasolini-Gadda. Antibiografia di una nazione, a suo modo Con il vostro irridente silenzio appare come un ideale pendant. Nella sua essenza questo ultimo spettacolo è ancor più
“civile” e “politico”, a conferma dellimpegno
“militante” dellattore. Che dopo quasi due ore è fortemente provato da uno
sforzo fisico che lo rende come un atleta da maratona animato dalla profonda
passione per i suoi progetti. Una passione che rende sempre di altissimo
profilo estetico ed etico i suoi lavori.
Infine: la manciatina di gesso che
allinizio Gifuni si sparge in testa mi ha fatto pensare, ma non saprei bene
perché, a Pinter e in particolare a Ceneri alle ceneri. E, daltra parte, se
Pasolini scrisse Le ceneri di Gramsci,
laltra sera al Vascello si sono sparse, in un commosso e commovente omaggio,
“le ceneri di Moro”.
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