Allinaugurazione della stagione
del Teatro alla Scala questanno la politica è entrata come mai era successo
negli ultimi decenni. Poche settimane prima del 7 dicembre, il console ucraino
a Milano aveva espresso «grande disappunto e rammarico» sia per la scelta di Boris Godunov di Modest Musorgskij come titolo dapertura, sia per la presenza russa
nelle stagioni del teatro – che, come tutti i teatri dopera, ha stagioni
ricche di musiche, direttori, solisti russi –, facendo inoltre una richiesta
esplicita di rivedere la programmazione. Le risposte istituzionali non si sono
fatte attendere, e hanno ribadito lovvia distinzione tra cultura europea (di
cui quella russa è parte) e contingenze politiche, insieme alle altrettanto
ovvie esigenze organizzative (la programmazione di un grande teatro dopera si
fa con anni di anticipo). Le dichiarazioni del console hanno comunque acceso
nuovamente il dibattito sui rapporti tra cultura e politica che già aveva
coinvolto il Teatro alla Scala in occasione della nuova produzione della Dama di picche, andata in scena il 23
febbraio scorso, il giorno precedente allinizio della guerra.
Una scena dello spettacolo
© Teatro alla Scala
Le posizioni espresse sui media
sono state pressoché unanimemente le stesse sopra sintetizzate, ma non sono
mancate le proteste. La rappresentazione di una delle opere fondamentali del
repertorio russo – che narra la storia di un
sanguinario tiranno (russo anchesso) – mentre è
in corso linvasione russa dellUcraina ha avuto leffetto di far riscoprire ai
più che la politica è materia fondamentale del teatro, dopera e non, che in
tutta la sua storia ha costantemente portato in scena vicende che invitano a
riflettere sul potere, sulla sua conquista e il suo mantenimento, sul difficile
rapporto tra ambizione personale e bene comune, tra ragion di stato e felicità
individuale, tra potere laico e religioso, e via dicendo. Alla Scala, per le inaugurazioni
degli ultimi anni, si sono visti Macbeth
(2021), Tosca (2019), Attila (2018), Andrea Chénier (2017), tutte opere che affrontano in modo diretto e
deciso qualcuno dei temi di cui sopra.
Certo, date le circostanze, con Boris Godunov –
storia di uno zar che arriva al trono grazie alluccisione del legittimo erede
per giunta ancora fanciullo – i riferimenti allattualità
sono sembrati più immediati e dolorosi con inevitabile identificazione del
feroce usurpatore Boris con la figura dellattuale
presidente della confederazione russa. Del resto le proteste sono poco
giustificate, visto che lopera di Musorgskij è una grande opera russa che non
rappresenta una glorificazione né della Russia, passata o presente, né,
tantomeno, di chi la governa.
Una scena dello spettacolo
© Teatro alla Scala
Kasper
Holten (regia) ha dato rilievo al significato
politico dellopera, ma lo ha fatto evitando soluzioni troppo facili nel
contesto attuale. In scena non si vede la Russia di oggi, anzi, non si vede una
sola Russia, se ne vedono tante: quella del popolo, in costumi tradizionali;
quella dellesercito, di Pimen e i suoi scrivani, Grigorij, Varlaam e altri
personaggi di contorno, in uniformi e abiti ottocenteschi; quella di Boris e
dei suoi figli, che dai costumi tradizionali della scena dellincoronazione
passano a quelli moderni nella scena al Cremlino – abiti moderni che
condividono con Šuiskij, Ščelkalov e i Boiari (costumi di Ida Marie Ellekilde). Tutta la vicenda è inserita in unenorme
cartina geografica che fa da scatola e da fondale, dove allinterno scorrono le
pagine e le immagini della cronaca di Pimen (scene di Es Devlin), con pochissimi altri elementi scenici che, di nuovo,
mescolano epoche e stili diversi.
Holten propone in questo modo una
lettura pessimistica della storia russa: attraverso la sovrapposizione delle
collocazioni cronologiche racconta con lopera di Musorgskij il destino tragico
di un paese che, nonostante tutti i rivolgimenti politici, è da secoli
schiacciato sotto il tallone di tiranni avidi
solo di potere e conquiste. Al termine della sua parabola politica, Holten fa
morire Boris per mano di Grigorij, il falso Dimitri. Lo zar è ormai folle,
ossessionato dal fantasma dello zarevič
fatto uccidere da lui ancora bambino, che nello spettacolo compare come
fantasma insanguinato già nella scena dellincoronazione, e poi in tutta la
seconda parte dellopera. Il tiranno cade vittima della sua stessa ambizione e
della sua crudeltà, ma la sua morte per Holten non è una liberazione. Dopo aver
fatto uccidere lusurpatore, Grigorij nellultima scena punta il suo sguardo
spietato sui suoi figli, Ksenija e Fëdor non responsabili dei crimini paterni,
lasciando intendere linizio di una scia di sangue e sofferenza che, grazie alluso
di costumi di epoche diverse, unisce il XVII secolo di Boris Godunov al regime
oppressivo degli zar nel XIX di Musorgskij a quello dei dittatori di oggi: in
questo Boris la storia non fa che
ripetersi, e non cè speranza per nessuno.
Una scena dello spettacolo
© Teatro alla Scala
La chiave interpretativa di
Holten è chiara senza per questo essere banale. Alcuni elementi, tuttavia, sono
sottolineati dal regista con una tale insistenza da perdere in efficacia, ed è
un peccato. Mi riferisco in particolare al fantasma dello zarevič, la cui presenza fissa in quasi tutta la seconda parte dellopera
ne indebolisce leffetto inquietante, così rendendolo superfluo sotto il
profilo drammatico: a un certo punto si smette quasi di notarlo.
Holten ha avuto a disposizione
una squadra formidabile di interpreti, tutti straordinari sia come attori che
come cantanti, ma va detto che in unopera come questa, tutta costruita sul
declamato, la distinzione tra canto e recitazione è impossibile. Ildar Abdrazakov è stato un Boris
ideale. Il basso ha disegnato un personaggio tormentato fin dallinizio,
sorreggendo un canto attentissimo a tutte le sfumature della scrittura di
Musorgskij con una recitazione minuziosa e allo stesso tempo appassionata. La
sua è stata una lezione di canto scenico, perché la dedizione al personaggio
non ha mai messo sullo sfondo la cura della linea melodica, il tutto senza le
gigionerie che spesso caratterizzano la resa del personaggio. Con lui si
distingue Yaroslav Abaimov, un
Innocente che risolve in un intenso canto struggente le difficoltà della sua
parte. Segnalo poi il Pimen di Ain Anger,
il Principe Šuiskij di Norbert Ernst,
il Varlaam di Stanislav Trofimov, lo
Ščelkalov di Alxey Malkov, ma in
generale tutto il cast ha dato una prova magnifica, ed è merito del teatro aver
saputo mettere insieme una compagnia di questo livello, cosa non scontata per
unopera con tanti personaggi come il Boris.
Una scena dello spettacolo
© Teatro alla Scala
Con
lopera di Musorgskij Riccardo Chailly
(direzione) ha ritrovato una forma che sembrava perduta nelle scorse inaugurazioni
(Attila, Tosca, Macbeth). Il Boris nella versione 1869, scelta per
questa inaugurazione, presenta una scrittura ruvida, sorprendente nel panorama
ottocentesco per esiti primitivi e modernisti insieme che poi lo stesso autore
avrebbe in parte rivisto nelle versioni successive (e che invece la revisione
della partitura operata da Rimskij-Korsakov avrebbe poi del tutto cancellato).
Ebbene, sulla forza espressiva degli elementi meno addomesticati e così
caratteristici, Chailly ha costruito la sua concertazione, mettendo in evidenza
tutti i tratti più spiazzanti della partitura e sempre al servizio della
costruzione del dramma. Timbri e fraseggi cupi generano unatmosfera
angosciante, che serpeggia anche nei momenti più luminosi (come, per esempio,
nella scena dellincoronazione). Una parte del merito è poi senzaltro dellorchestra,
che lo ha seguito a meraviglia, e del coro, preparato splendidamente dal nuovo
maestro Umberto Gualazzi; il suo
predecessore, Bruno Casoni, ha
guidato il Coro di Voci Bianche dellAccademia della Scala, con esiti come
sempre ottimi. Il
successo è stato pieno: applausi generosi per tutti; per Abdrazakov una
meritata ovazione.