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Ognuno muore solo

di Vincenzo Borghetti
  Boris Godunov
Data di pubblicazione su web 20/12/2022  

All’inaugurazione della stagione del Teatro alla Scala quest’anno la politica è entrata come mai era successo negli ultimi decenni. Poche settimane prima del 7 dicembre, il console ucraino a Milano aveva espresso «grande disappunto e rammarico» sia per la scelta di Boris Godunov di Modest Musorgskij come titolo d’apertura, sia per la presenza russa nelle stagioni del teatro – che, come tutti i teatri d’opera, ha stagioni ricche di musiche, direttori, solisti russi –, facendo inoltre una richiesta esplicita di rivedere la programmazione. Le risposte istituzionali non si sono fatte attendere, e hanno ribadito l’ovvia distinzione tra cultura europea (di cui quella russa è parte) e contingenze politiche, insieme alle altrettanto ovvie esigenze organizzative (la programmazione di un grande teatro d’opera si fa con anni di anticipo). Le dichiarazioni del console hanno comunque acceso nuovamente il dibattito sui rapporti tra cultura e politica che già aveva coinvolto il Teatro alla Scala in occasione della nuova produzione della Dama di picche, andata in scena il 23 febbraio scorso, il giorno precedente all’inizio della guerra.

Una scena dello spettacolo
© Teatro alla Scala

Le posizioni espresse sui media sono state pressoché unanimemente le stesse sopra sintetizzate, ma non sono mancate le proteste. La rappresentazione di una delle opere fondamentali del repertorio russo – che narra la storia di un sanguinario tiranno (russo anch’esso) – mentre è in corso l’invasione russa dell’Ucraina ha avuto l’effetto di far riscoprire ai più che la politica è materia fondamentale del teatro, d’opera e non, che in tutta la sua storia ha costantemente portato in scena vicende che invitano a riflettere sul potere, sulla sua conquista e il suo mantenimento, sul difficile rapporto tra ambizione personale e bene comune, tra ragion di stato e felicità individuale, tra potere laico e religioso, e via dicendo. Alla Scala, per le inaugurazioni degli ultimi anni, si sono visti Macbeth (2021), Tosca (2019), Attila (2018), Andrea Chénier (2017), tutte opere che affrontano in modo diretto e deciso qualcuno dei temi di cui sopra.

Certo, date le circostanze, con Boris Godunov – storia di uno zar che arriva al trono grazie all’uccisione del legittimo erede per giunta ancora fanciullo – i riferimenti all’attualità sono sembrati più immediati e dolorosi con inevitabile identificazione del feroce usurpatore Boris con la figura dell’attuale presidente della confederazione russa. Del resto le proteste sono poco giustificate, visto che l’opera di Musorgskij è una grande opera russa che non rappresenta una glorificazione né della Russia, passata o presente, né, tantomeno, di chi la governa.

Una scena dello spettacolo
© Teatro alla Scala

Kasper Holten (regia) ha dato rilievo al significato politico dell’opera, ma lo ha fatto evitando soluzioni troppo facili nel contesto attuale. In scena non si vede la Russia di oggi, anzi, non si vede una sola Russia, se ne vedono tante: quella del popolo, in costumi tradizionali; quella dell’esercito, di Pimen e i suoi scrivani, Grigorij, Varlaam e altri personaggi di contorno, in uniformi e abiti ottocenteschi; quella di Boris e dei suoi figli, che dai costumi tradizionali della scena dell’incoronazione passano a quelli moderni nella scena al Cremlino – abiti moderni che condividono con Šuiskij, Ščelkalov e i Boiari (costumi di Ida Marie Ellekilde). Tutta la vicenda è inserita in un’enorme cartina geografica che fa da scatola e da fondale, dove all’interno scorrono le pagine e le immagini della cronaca di Pimen (scene di Es Devlin), con pochissimi altri elementi scenici che, di nuovo, mescolano epoche e stili diversi.

Holten propone in questo modo una lettura pessimistica della storia russa: attraverso la sovrapposizione delle collocazioni cronologiche racconta con l’opera di Musorgskij il destino tragico di un paese che, nonostante tutti i rivolgimenti politici, è da secoli schiacciato sotto il tallone di tiranni avidi solo di potere e conquiste. Al termine della sua parabola politica, Holten fa morire Boris per mano di Grigorij, il falso Dimitri. Lo zar è ormai folle, ossessionato dal fantasma dello zarevič fatto uccidere da lui ancora bambino, che nello spettacolo compare come fantasma insanguinato già nella scena dell’incoronazione, e poi in tutta la seconda parte dell’opera. Il tiranno cade vittima della sua stessa ambizione e della sua crudeltà, ma la sua morte per Holten non è una liberazione. Dopo aver fatto uccidere l’usurpatore, Grigorij nell’ultima scena punta il suo sguardo spietato sui suoi figli, Ksenija e Fëdor non responsabili dei crimini paterni, lasciando intendere l’inizio di una scia di sangue e sofferenza che, grazie all’uso di costumi di epoche diverse, unisce il XVII secolo di Boris Godunov al regime oppressivo degli zar nel XIX di Musorgskij a quello dei dittatori di oggi: in questo Boris la storia non fa che ripetersi, e non c’è speranza per nessuno.

Una scena dello spettacolo
© Teatro alla Scala

La chiave interpretativa di Holten è chiara senza per questo essere banale. Alcuni elementi, tuttavia, sono sottolineati dal regista con una tale insistenza da perdere in efficacia, ed è un peccato. Mi riferisco in particolare al fantasma dello zarevič, la cui presenza fissa in quasi tutta la seconda parte dell’opera ne indebolisce l’effetto inquietante, così rendendolo superfluo sotto il profilo drammatico: a un certo punto si smette quasi di notarlo.

Holten ha avuto a disposizione una squadra formidabile di interpreti, tutti straordinari sia come attori che come cantanti, ma va detto che in un’opera come questa, tutta costruita sul declamato, la distinzione tra canto e recitazione è impossibile. Ildar Abdrazakov è stato un Boris ideale. Il basso ha disegnato un personaggio tormentato fin dall’inizio, sorreggendo un canto attentissimo a tutte le sfumature della scrittura di Musorgskij con una recitazione minuziosa e allo stesso tempo appassionata. La sua è stata una lezione di canto scenico, perché la dedizione al personaggio non ha mai messo sullo sfondo la cura della linea melodica, il tutto senza le gigionerie che spesso caratterizzano la resa del personaggio. Con lui si distingue Yaroslav Abaimov, un Innocente che risolve in un intenso canto struggente le difficoltà della sua parte. Segnalo poi il Pimen di Ain Anger, il Principe Šuiskij di Norbert Ernst, il Varlaam di Stanislav Trofimov, lo Ščelkalov di Alxey Malkov, ma in generale tutto il cast ha dato una prova magnifica, ed è merito del teatro aver saputo mettere insieme una compagnia di questo livello, cosa non scontata per un’opera con tanti personaggi come il Boris.

Una scena dello spettacolo
© Teatro alla Scala

Con l’opera di Musorgskij Riccardo Chailly (direzione) ha ritrovato una forma che sembrava perduta nelle scorse inaugurazioni (Attila, Tosca, Macbeth). Il Boris nella versione 1869, scelta per questa inaugurazione, presenta una scrittura ruvida, sorprendente nel panorama ottocentesco per esiti primitivi e modernisti insieme che poi lo stesso autore avrebbe in parte rivisto nelle versioni successive (e che invece la revisione della partitura operata da Rimskij-Korsakov avrebbe poi del tutto cancellato). Ebbene, sulla forza espressiva degli elementi meno addomesticati e così caratteristici, Chailly ha costruito la sua concertazione, mettendo in evidenza tutti i tratti più spiazzanti della partitura e sempre al servizio della costruzione del dramma. Timbri e fraseggi cupi generano un’atmosfera angosciante, che serpeggia anche nei momenti più luminosi (come, per esempio, nella scena dell’incoronazione). Una parte del merito è poi senz’altro dell’orchestra, che lo ha seguito a meraviglia, e del coro, preparato splendidamente dal nuovo maestro Umberto Gualazzi; il suo predecessore, Bruno Casoni, ha guidato il Coro di Voci Bianche dell’Accademia della Scala, con esiti come sempre ottimi. Il successo è stato pieno: applausi generosi per tutti; per Abdrazakov una meritata ovazione. 


Boris Godunov
Dramma popolare in quattro parti (sette quadri) dalla tragedia omonima di Alexandr Puškin e dalla "Storia dello Stato russo" di Nikolaj Karamzin


cast cast & credits
 
trama trama


Una scena dello spettacolo visto al Teatro alla Scala di Milano
il 10 dicembre 2022
© Teatro alla Scala


 
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