Al
Teatro alla Scala torna il Ballo in maschera. Lultima produzione dellopera
è stata quella del 2013 (vedi recensione),
sotto la sovrintendenza e direzione artistica di Stéphane Lissner
(2005-2015), quando la Scala intraprendeva quel necessario processo di
rinnovamento con lo scopo di mettersi di nuovo in dialogo con i teatri suoi
pari dopo la direzione di Riccardo Muti. Non a caso, la regia di quel Ballo
era affidata a Damiano Michieletto, che in meno di dieci anni aveva avviato
una solida carriera in Italia e iniziava a muoversi a livello internazionale (il
suo primo spettacolo al Festival di Salisburgo è del 2012), ma la cui fama di
regista “moderno” lo teneva ancora lontano dai teatri italiani più
conservatori. Come era prevedibile, il risultato fu una contestazione aperta contro
la pretesa di rimettere in scena unopera importante di Giuseppe Verdi in
modo radicalmente diverso da quanto si era visto fino ad allora al Piermarini
(Michieletto aveva spostato lazione dalla Boston del XVII secolo a quella
contemporanea con tutte le conseguenze del caso). I soliti “buu” furono
addirittura rinforzati dal lancio di volantini “riparativi” allindirizzo del
compositore così malamente vilipeso dal regista.
Un momento dello spettacolo
© Marco Brescia & Rudy Amisano Da
Lissner in avanti, nessuno dei nuovi sovrintendenti ha più nemmeno pensato a uninversione
di rotta. Del resto, sebbene auspicato da un manipolo di irriducibili del
pubblico dellopera, oggi un ritorno programmatico allautarchia teatrale degli
anni di Muti sarebbe irrealistico. Eppure, in questa stagione ci sono segnali
poco incoraggianti in questo senso. A partire dallapertura il 2 dicembre con
il problematico Macbeth di Davide
Livermore, con lunica eccezione dei Thaïs di Olivier Py,
finora alla Scala non si sono visti spettacoli degni di particolare nota. Le
reazioni della critica alle regie di Capuleti e Montecchi, Ariadne
auf Naxos e La Dama
di Picche
– tre delle quattro nuove produzioni andate in scena da gennaio 2022 – sono
state tuttaltro che lusinghiere.
Questo
Ballo in maschera non ha fatto eccezione. Marco Arturo Marelli
(regia, scene e costumi) ambienta lazione in un passato indefinito dal punto
di vista cronologico: settecentesca è la decorazione della scatola scenica,
mentre alcuni dei costumi richiamano anche epoche più recenti. Per il resto,
non cè molto da aggiungere. La Personenregie pare inesistente: i cantanti si
muovono col solito repertorio di pose. Lo stesso vale per i movimenti delle
masse. Il lighting design (Marco Filibeck) ha prestato
luci “di servizio” senza un contributo riconoscibile alla creazione di
atmosfere per la narrazione della vicenda. Spiace dirlo, ma ormai produzioni di
questo tipo sono una rarità anche nei teatri di provincia. È inevitabile il
confronto con il Ballo di Michieletto che vede questo di Marelli
perdente, come se i dieci anni che separano le due produzioni siano trascorsi
inutilmente.
Un momento dello spettacolo © Marco Brescia & Rudy Amisano Per
fortuna la resa musicale è stata di ben altro livello. Sondra Radvanovsky è unAmelia
superlativa. Già interprete del ruolo alla Scala nel 2013, il soprano ha
mostrato una maturazione vocale ed espressiva formidabile. Radvanovsky gestisce
le dinamiche e lo “scatto” con la padronanza della donizettiana di lungo corso,
ma allo stesso tempo col volume e la sicurezza negli acuti della Turandot fresca
di debutto (e con esito felicissimo, in concerto a Roma, Parco della Musica, il
12 marzo scorso con Antonio Pappano sul podio). Le sue finezze
espressive emergono tutte nel duetto del secondo atto, e poi anche di più nellaria
del terzo (“Morrò, ma prima in grazia”), che scatena il lunghissimo applauso
della sala. Lo stesso discorso vale per Ludovic Tézier (Renato, previsto
solo per le due ultime recite; in quelle precedenti il ruolo era affidato a Luca
Salsi), un baritono dalla voce possente e duttile insieme, dotato di
tecnica solida e di grande intelligenza interpretativa. Un autentico capolavoro
di espressione e di capacità di controllo è stata la sua resa della grande aria
del terzo atto “Eri tu che macchiavi quellanima”, la cui tessitura pone a
cimento anche i cantanti più esperti.
Un momento dello spettacolo © Marco Brescia & Rudy Amisano Una piacevolissima
scoperta Federica Guida che mette al servizio di Oscar acuti sonori e
luminosi, non scontati nei soprani di coloratura. Un discorso a parte merita Francesco
Meli (Riccardo). Delle sue scelte di repertorio si è già scritto in
occasione della Tosca del 7 dicembre 2019. Restiamo della nostra idea: si ha limpressione che il
tenore canti al limite delle proprie possibilità. Intendiamoci: Riccardo è il ruolo
che più sta a pennello alla sua voce, che impiega con fraseggio elegante e leggero come
la scrittura verdiana suggerisce, riuscendo a rendere con efficacia il
personaggio dellinnamorato. Il punto è che, insieme a queste qualità, il ruolo
richiede anche grande potenza vocale, soprattutto quando si canta in una sala ampia
come quella della Scala e accanto a voci come quelle di Radvanovsky e Tézier. Invece
alla fine della sua performance si notava un certo affaticamento. Bene Okka
von der Damerau (Ulrica), la cui presenza si deve una sostituzione
dellultimo minuto. Dei comprimari piace menzionare Paride Cataldo (Un
servo dAmelia), ma, ad eccezione di Costantino Finucci (Un giudice), il
resto del cast non è parso ai livelli abituali della Scala.
Nelle ultime recite (19
e 22 maggio), Giampaolo Bisanti ha sostituito Nicola Luisotti
alla direzione (che a sua volta aveva sostituito Riccardo Chailly,
previsto originariamente per tutte le rappresentazioni). La sua è una direzione
tecnicamente inappuntabile, attenta ai fraseggi e ai dettagli timbrici,
assecondato a meraviglia dallorchestra: notevoli il contrasto di colori che
apre la scena di Ulrica e laccompagnamento appassionato nel terzo atto. Resta
tuttavia una lettura che non esalta la varietà stilistica della partitura
verdiana, quei momenti di alleggerimento danzanti che caratterizzano molti
punti dellopera.
Un momento dello spettacolo © Marco Brescia & Rudy Amisano
Il successo è stato
pieno, in particolare, come si diceva, per Radvanovsky e Tézier, e per Guida e
Meli. Il teatro era gremito, cosa di per sé rimarchevole per una recita fuori
abbonamento in una domenica segnata da temperature già ampiamente estive.
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