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Congedo da una Berlinale

di Siro Ferrone e Sara Mamone
  69° Festival Internazionale del Cinema di Berlino. I premi
Data di pubblicazione su web 16/02/2019  

Si è concluso il 69° festival del cinema di Berlino, l’ultimo sotto la direzione di Dieter Kosslick che ne è stato per diciotto anni il dominus assoluto confermandone la vocazione sociale e politica e, soprattutto, rendendolo un’inimitabile occasione di festa popolare (pare che molti berlinesi pensino a questo appuntamento nella programmazione delle proprie ferie). Quattrocento i film presentati nelle varie sezioni, quasi quattromila i giornalisti accreditati, una decina i cinema coinvolti, innumerevoli le attività a latere, etc.  

I congedi sono sempre complessi: comportano bilanci, rancori, nostalgie, desideri, sensi di colpa, orgogli, malinconie, un forte senso di disorientamento. La loro difficoltà è anche proporzionale alla durata della vicenda che va a concludersi e all’intensità della vicenda stessa. E proprio questo disorientamento, accentuato dal preannuncio del congedo, ci pare la cifra che ha caratterizzato questa edizione, meno politica, più morbida delle precedenti, alla luce di un desiderio di riconciliazione presente in molti film. Desiderio che ha forse limato gli artigli del direttore e dei suoi selezionatori volgendo il loro interesse dall’attenzione politica alla più ampia e un po’ datata, sessantottesca, assunzione dello slogan “il personale è politico”. Il che ha portato lo sguardo sui deboli della società, in particolare i bambini (mai così presenti con le loro storie), ma ne ha anche annacquato la forza, estendendo l’ammissione a quasi tutte le opzioni narrative.   

Guardando all’ampiezza delle tematiche prescelte, stupisce quindi la complessiva modestia dell’insieme, una sorta di mancanza generale di forza, quasi che la curiosità si sia un po’ spenta. O che le forze siano state impiegate nella prodigiosa energia organizzativa, nelle più problematiche sezioni parallele, levando sangue e linfa alla competizione. Non sono mancati film di grande interesse, non solo per le problematiche affrontate ma anche per lo stile della narrazione: Grâce à Dieu di François Ozon affrontava con grande finezza narrativa il crudo tema dello scandalo pedofilo nella potente e ricchissima diocesi lionese (nella civilissima Francia, figlia prediletta del papato cattolico);  il bellissimo (dai noi ampiamente considerato il migliore dell’edizione) film cinese Di jiu tian chang (So Long, My Son) svolgeva con impareggiabile maestria la partita tra privato e pubblico nel trentennio cruciale della nuova Cina, tra comunismo, rivoluzione culturale, adesione al capitalismo; La paranza dei bambini (Piranhas) di Claudio Giovannesi affrontava con freddezza e senza sbavature la impercettibile migrazione dal gioco al crimine di una baby gang in una Napoli facilmente eleggibile a parabola universale delle periferie; il mongolo Öndög rispondeva perfettamente alle richieste di suggestioni di ampi orizzonti culturali.      
 
La presenza tedesca questa volta è stata particolarmente nutrita e, forse in una sorta di omaggio al direttore uscente, generosamente premiata da una giuria internazionale che merita qualche riflessione conclusiva. Presieduta da Juliette Binoche, inalberava una meccanica parità di genere, leggermente avvantaggiando quello femminile proprio in virtù della presidente. Al cui fascino e patriottismo dobbiamo forse uno dei verdetti più tendenziosi e squinternati degli ultimi anni: non per il prestigioso premio “della giuria” al degnissimo conterraneo Ozon, ma per il massimo catalizzatore di tutte le attese di ogni edizione: l’Orso d’oro. Assegnato al franco-israelo-tedesco Synonimes di Nadav Lapid.

Tematica perfettamente “berlinese” racconta i disagi esistenziali provocati nel giovane protagonista dalla recente politica israeliana che lo induce ad un “esilio” parigino non meno deludente. Scolasticamente provocatorio, narcisistico e autoreferenziale, post godardiano e un po’ bertolucciano (si apre su una suggestiva citazione di Ultimo tango a Parigi e prosegue con una costante citazione sottesa di The Dreamers) il film non si solleva di un centimetro dalla cronaca di una rabbia personale.    
 
È certamente diritto, e in alcuni casi vera forza di una giuria, essere imprevedibile. L’imprevedibilità è una grande dote ma richiede buon gusto e solide motivazioni che conducano al riesame delle idee costituite. Per quanto ci siamo umilmente sottoposti al riesame della memoria, continuiamo a ritenere che il premio sia assolutamente cervellotico. I giudici non sono giudicabili ma forse tra i buoni propositi della nuova gestione potrebbe non essere inutile una maggior cura nella scelta.    
 
Comunque un grazie consuntivo a Kosslick per quel che ci ha dato in questi diciotto anni, e un augurio preventivo al designato Carlo Chatrian per quello che ci darà.  


Orso d’oro al miglior film

Synonymes

di Nadav Lapid


Orso d’argento Gran Premio della Giuria

Grâce à Dieux

di François Ozon


Orso d'argento Premio Alfred Bauer

Systemsprenger

di Nora Fingscheidt


Orso d’argento per la migliore regia

Angela Schanelec 

per Ich war zuhause, aber (I Was at Home, But)


Orso d’argento alla migliore attrice

Yong Mei 

per Di jiu tian chang di Wang Xiaoshuai


Orso d’argento al miglior attore

Wang Jingchun

per Di jiu tian chang di Wang Xiaoshuai


Orso d’argento per la miglior sceneggiatura

Roberto Saviano, Maurizio Braucci e Claudio Giovannesi 

per La paranza dei bambini di Claudio Giovannesi


Orso d'argento per il miglior contributo artistico

Rasmus Videbæk per la fotografia

in Ut og stjæle hester di Hans Petter Moland








Il regista vincitore dell'Orso d'oro Nadav Lapid con il produttore Saïd Ben Saïd
© Internationale Filmfestspiele Berlin








Orso d’argento per la migliore regia: Angela Schanelec
© Internationale Filmfestspiele Berlin







La consegna del premio come miglior attrice a Yong Mei e come miglior attore a Wang Jingchun

 
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