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Piermario Vescovo

Attese e passaggi

Data di pubblicazione su web 05/10/2010
L'attesa

Pubblichiamo la stesura – provvisoria – di un capitolo di un libro di Piermario Vescovo, sorta di prosecuzione di Entracte. Drammaturgia del tempo (Venezia, Marsilio, 2007), dedicato alla durata spettacolare, che prende spunto dal cartellone – ricco di proposte sia nel senso di durate estreme che di durate, al contrario, estremamente brevi – dell’ultima edizione del Napoli Teatro Festival, dello scorso mese di giugno. Il titolo provvisorio è Il tempo a Napoli e apparirà sempre per i tipi di Marsilio.

 

 

1.

L’idea di un teatro nel tempo e negli spazi dell’attesa, di una finzione o “recita” dissimulata nei luoghi cittadini e mescolata alla vita appare di grande interesse e suggestione. Il percorso ribalta, anzitutto, la direzione scontata del rapporto tra la città e il teatro, che assume lo spazio quotidiano e la vita cittadina quali oggetti dell’”imitazione” teatrale. Un simile nesso organico tra le due dimensioni non esiste più da tempo o, se sopravvive, ciò avviene con la conseguenza dello scadimento nel bozzetto o nella visione oleografica. Napoli – tra tutte le città italiane, e non solo – è un soggetto spesso privilegiato in questa direzione e di questo scadimento, dove quella che Goethe definiva splendidamente – in una pagina del Viaggio in Italia – la «vita del giorno» non appare più assumibile, e da molto tempo, secondo una corrispondenza semplice e diretta.

Lo spazio metropolitano come luogo in sé diversamente teatrale è uno dei grandi temi che attraversa la storia della rappresentazione cittadina nel Novecento. Pescando davvero dal mazzo, mi viene da citare un testo tra i moltissimi, e probabilmente non tra i più ovvi e visibili. L’accostamento deriva da una singolare convergenza, tra un quadro di città e un’idea di finzione del quotidiano. Minnie la candida di Massimo Bontempelli (scritta tra il 1925 e il 1927) ambienta un intero atto nello spazio della città allo scendere della sera, quando essa si rivela composta da «frammenti di pubblicità luminose [...] in lingue diverse; alcune [...] di sillabe senza significato [...] tutto un palpitare di luci sul nero profondo», ma si apre mostrando all’opera in un caffè terrazza sul panorama diurno una serie di attori che fingono scene programmate dedicate ai ruoli e alle situazioni della vita quotidiana, mescolandosi ai clienti veri.

A Bontempelli – che rammento, spero, non a caso – spettano anche lunghe meditazioni sulla categoria o idea novecentesca di candore, che comprende tanto le tecniche dello straniamento che lo sguardo diretto alla vita quotidiana, al principio di un percorso che si potrebbe far arrivare fino ad esperienze appartentemente “banali” come quelle, appunto, delle cosiddette candid camera televisive.

E da qui possiamo entrare in argomento, e fare riferimento a queste situazioni teatrali non riconoscibili in quanto tali, da mescolare al flusso della vita: non però pretesti o canovacci, pensati per essere spiati da un occhio esterno, destinati a uno spettatore non presente sul campo, ma visti e vissuti in compresenza, secondo le linee di un progetto più ambizioso – e, di conseguenza, più complicato – di una «drammaturgia per lo spettatore nei luoghi d’attesa». E una drammaturgia – si potrebbe aggiungere – per l’attore che recita in circostanze non consuete (ma quanta pedagogia teatrale del Novecento, come nei cosiddetti esercizi della “guida” da Grotowski a Salmon, non ha fatto muovere gli attori negli spazi quotidiani per trovare le loro personalità e i loro personaggi?).

Si tratta, dunque, e in prima istanza, di un’operazione di commissione drammaturgica che riguarda anzitutto dei testi, e che si presenta sotto forma di libro: un volumetto edito da Bompiani di centocinquanta pagine – introdotto dal direttore del Napoli Teatro Festival Italia, Renato Quaglia, e dal curatore del progetto, Mario Fortunato – che raccoglie dieci brevi pièces teatrali, espressamente commissionate a dieci autori diversamente rappresentativi della scrittura italiana contemporanea, assortiti per generazione ed appartenenza: Milena Angus, Vincenzo Consolo, Ivan Cotroneo, Andrea De Carlo, Paolo di Paolo, Dacia Maraini, Maria Pace Ottieri, Sandra Petrignani, Pulsatilla, Elisabetta Rasy. Si tratta, quindi, della ricerca o del coordinamento, curato da Ilaria Ceci, sul campo di «compagnie teatrali espressione delle nuove creatività napoletane» – cito ancora dalla presentazione del volumetto – di «artisti giovani, che sperimentano idee di teatro non convenzionali, che accettano di cercare il teatro anche dove non sia previsito che l’attore si dichiari allo spettatore». Sono stati dunque scelti e implicati Giorgia Palombi/Maniphesta teatro, Sara Sole Notarbartolo/Taverna Est, Anna Gesualdi/Teatringestazione, Nicola Laieta/Calone-Laieta, Daniele Russo/Teatro Bellini.

 

2.

Accanto, e prima, della questione della riconoscibilità o meno della finzione in quanto tale, i singoli testi o interventi rivelano la centralità di un’altra questione, certo alla prima connessa, quella dell’individuazione di una soglia di durata. Una questione che si pone, del resto, all’interno di un cartellone di festival che dedica una parte rilevante del suo programma alla durata spettacolare intesa nel senso dell’eccedenza alla norma. Il numero degli spettacoli caratterizzati in questo senso costituisce qui in sé una prospettiva tematica: dalle rispettivamente nove e dodici ore degli ultimi spettacoli – del resto “mondiali” – di Robert Lepage e di Peter Stein, alle sei ore in due serate del Delitto e Castigo ambientato aì Quartieri spagnoli da Gaetano Ventriglia e Silvia Garbuggino, fino alle venti puntate “giornaliere” della teatronovela Bizzarra di Rafael Spregelburd tradotta, adattata e diretta da Manuela Cherubini. La “rarefazione” che caratterizza il gruppo di testi brevi che compongono il progetto de L’attesa disegna una direzione temporale uguale e contraria, secondo una simmetria che va al di sotto – fino ai minimi termini, come l’altra ai massimi – della durata spettacolare.

Un lungo discorso potrebbe riguardare la mutazione stessa nella comune percezione della soglia della “durata minima” dello spettacolo propriamente inteso, indubbiamente abbassatasi nei tempi più recenti: si possono oggi, infatti tranquillamente vedere spettacoli anche molto al di sotto dei vecchi quarantacinque minuti canonici, soprattutto tra le creazioni originali di gruppi più giovani, ma non mancano sul fronte della drammaturgia ormai da considerare a tutti gli effetti “classica” tentativi di presentazione singolare di testi brevi, con durate che si avvicinano piuttosto a quelle di happenings o di installazioni[1]. Nella scorsa stagione, per esempio, Teatri di Vita ha messo in scena come spettacoli autonomi (nel senso espresso dal bollettino di deposito copioni alla SIAE) alcuni dei dramaticules di Beckett, testi estremamente brevi, non più lunghi di quelli qui raccolti. Altri hanno ripreso l’etichetta di Beckett, come Thomas Bernhard che ha battezzato Dramolette i suoi testi brevi e di articolazione unitaria (“drammoletti” è tradotto nel titolo italiano del volume, sesto dell’edizione del suo teatro presso Ubulibri, di prossima apparizione). La categoria inaugurata da Beckett – nell’individuazione di una soglia come unità minima e autonoma, esattamente al contrario di quella del frammento, che richiede un’aggregazione in serie – potrebbe anzi essere assunta qui come altrove in luogo di altre etichette impiegabili per definire anche i singoli pezzi di questo progetto drammaturgico.

 

3.

Parlare di progetto drammaturgico e impiegare un’etichetta quale “drammaturgia dell’attesa” non significa affatto, ovviamente, chiudere la considerazione del caso nei limiti testuali, ma partire da quanto il testo progetta o immagina per considerare una “drammaturgia” nel senso di piano spettacolare, come relazione di azioni e parole nella dimensione spazio-temporale.

Leggendo i testi balza agli occhi una distanza spesso rilevante dalle realizzazioni concrete, del resto chiaramente annunciata nella premessa di Quaglia al volumetto: «Non sempre i testi che gli autori hanno scritto, saranno i testi detti in questi pochi minuti di attesa». E ancora: «Questo volume raccoglie la loro [dei testi] forma originale e completa, che non sarà ritrovata nelle azioni e nelle scene degli artisti che interferiranno con la vita reale e quotidiana di persone e luoghi pubblici della città», eccetera. Questo non mi pare affatto un limite dell’operazione, anzi si tratta del suo principale punto di forza, crinale che permette da una parte di inquadrare – dalla parte degli autori – un’idea media di scrittura drammatica, quanto – da quella dei “realizzatori” – osservare le modalità con cui si realizza un’esperienza di dinamica teatrale. Credo, peraltro, che gli esempi più rilevanti – nell’uno e nell’altro caso – siano quelli che pongono una sorta di tensione tra le due dimensioni e proverò a dire come e perché.

Sul fronte degli autori – non per tutti e non in eguale misura, ovviamente – l’immaginazione di un testo teatrale di breve durata passa attraverso l’individuazione di una situazione dialogico-drammatica, e ciò paga lo scotto di un’unità di spazio supposta in rapporto alla dimensione del palcoscenico. Le scritture di partenza – tranne soprattutto due casi, quelli di Circolare di Pulsatilla e La settimana prossima di Agus – si pongono di più la questione di fare dell’attesa un “contenuto” drammatico, tematizzandola e spingendosi, talora, fino alla sua simbolizzazione, che quella di costruire un meccanismo ipotizzando mimetismo e dinamica, condizioni che permettono alla finzione di confondersi col flusso della vita cittadina in cui troveranno spazio.

Il passaggio dal testo all’azione richiede, infatti, di portare la finzione dichiarata sulla pagina verso una soglia di “evaporazione”, nella sua dissimulazione teatrale: il non essere riconosciuti preventivamente come “attori” è, da una parte, la prima condizione della performance, mentre l’attenzione dei circostanti per quanto accade è l’altra, alla prima combinata ma spesso con essa in evidente conflitto.

In una banca di Andrea De Carlo, L’innocenza dei postini di Paolo Di Paolo, Grandi speranze di Sandra Petrignani, Suvenìr di Elisabetta Rasy sono i testi più funzionali al meccanismo inteso nei termini di una “forma semplice”, in spazio unitario: quelli che sono di più conservabili come “testi” nella realizzazione e che, insieme, sono meglio dissimulabili come conversazioni quotidiane nelle rispettive ambientazioni. Tutti i titoli citati presentano un colloquio tra due persone plausibili – più o meno caratterizzate, ma come nella realtà quotidiana – in luoghi, appunto, dell’attesa, che sono altresì comunemente metropolitani, non specificamente napoletani. Si tratta semplicemente di conversazioni da ascoltare, da spiare, come ci capita del resto spesso, nel tempo vuoto, ingannando l’attesa.

Due amici (anzi, due amiche nel testo di partenza) si incontrano in una banca, facendo la coda, nella situazione immaginata da De Carlo e l’uno racconta all’altro una serie di storie erotico-sentimentali, che termina però con un incontro decisivo, ma con una persona dello stesso sesso, con completo ribaltamento: il personaggio è in coda, appunto, per estinguere il conto bancario prima della partenza col nuovo compagno.

Più aperta – nel senso che non prevede di fatto nessuna conclusione – è la situazione, pur prossima, immaginata da Di Paolo. L’azione si svolge presso un ufficio postale, con la semplice, ma sostanziale differenza, nell’ordine della visibilità, che la scena coinvolge il personale, non clienti in coda tra i clienti, scoprendo un tratto di una storia d’amore contrastato che riguarda un postino e una sua “superiora”: senza segnali forti di conclusione, al contrario del testo precedente, questa “storia” emerge e si spegne nel rumore ambientale e dietro al vetro che separa l’area pubblica da quella riservata al personale.

Un intreccio di storie o rapporti, tra passato e presente, è ancora immaginato da Petrignani, nel foyer di un teatro, dove un uomo, mentre la moglie si allontana per qualche momento, incontra la donna di un tempo, che gli chiede di tornare con lei e gli consegna, per essere chiamata più tardi, durante l’intervallo, il suo biglietto da visita. Qui il colpo di scena è praticamente sospeso o dichiarato con un effetto discendente: posto che noi non potremmo mai sapere cosa farà l’uomo più tardi, il fatto che egli butti via il biglietto prima di entrare in sala dichiara che la cosa non avrà seguito, siglando una rinuncia alle eventuali belle speranze.

Un colpo di scena – anche se meno decisivo, piuttosto modulando una sorpresa nell’ordine della connessione, dell’offerta finale del dato combinatorio – è pure nel testo di Rasy, ambientato sulla pagina presso il Molo di Mergellina in attesa di una partenza e “messo in spazio” al Molo Beverello. Una vecchia signora di circa settant’anni imparruccata, truccata e vestita «da giovane», e una ragazza ventenne aspettano: il loro dialogo scopre – con notevole abilità drammaturgica – tracce sparse di una vicenda: la più vecchia vuole vedere per l’ultima volta un uomo che sta morendo e che non incontra da molti anni, ma poi convince la giovane a partire al posto suo, anche a rischio di non essere riconosciuta e, nel caso in cui il viaggio si rivelasse inutile, ad accontentarsi di acquistare un souvenir. Capiamo perché la prima sia vestita e truccata così e, nel saluto finale, comprendiamo che si tratta di una nonna e di una nipote e che l’uomo che attende di morire è, dunque, insieme il figlio della prima e il padre della seconda e il titolo assume una tutt’altra proporzione simbolica.

La dimensione simbolica – appunto – si pone come una sorta di soglia ulteriore, e segna, in particolare, il testo di Consolo, che mentre si allontana dal tema della committenza inteso in senso stretto, assume, d’altra parte il medesimo a livello icastico, tanto che il titolo coincide senza residuo con quello della raccolta: L’attesa. L’individuazione è qui molto forte e va da un racconto che esterna una serie di dettagli – come nell’uso teatrale – secondo un principio di esplicitazione da racconto riflesso, con modalità non verisimili nella rievocazione sintetica del colloquio quotidiano tra coloro che condividono la memoria: «Lo spavento per me è stato quando i nostri due figli, Calò e Peppe, invece di andare all’oratorio, se ne andavano alla marina a giocare...», eccetera. La scena di partenza si svolge in «un piccolo cortile dietro un’umile casa di un paesino della provincia siciliana» e non in uno spazio cittadino e infatti l’attesa non riguarda qui una situazione quotidiana – dove cioè i personaggi si mescolino a noi che attendiamo – ma senz’altro quella, per antonomasia, della morte. Due vecchi, marito e moglie, assistiti da una badante proveniente dallo Sri Lanka, passano le giornate a rievocare i ricordi della loro esistenza che volge al termine, sotto lo sguardo di una televisione accesa dentro alla casa, di cui vediamo solo le immagini e non il sonoro. Questo – in realtà – che unisce l’esperienza domestica quotidiana a quella dei luoghi pubblici metropolitani, è l’elemento per una possibile risoluzione: il televisore acceso e senza sonoro, che riduce la sua presenza al puro flusso d’immagini. E le immagini – tutte relative al “presidente” – sono qui in netto contrasto con la memoria del vecchio, che è, nel suo racconto, insieme memoria personale e memoria civile del “paese”. La vecchia, distratta dalle immagini, commenta entusiasta e manda baci verso lo schermo, con evidenti farciture d’effetto comico, tra storpiamenti o idiotismi: Silvio diventa Salvio e «salviatore della patria», Bertolaso Bertolazzo, e così via. E il vecchio muore, nella disattenzione della moglie, che rapita dallo schermo non sente né il suo racconto né – quando questo si interrompe – i suoi lamenti.

 

4.

Le soluzioni ambientative più felici mi sembrano soprattutto quelle che hanno cercato uno sviluppo dinamico per testi in partenza statici: procedimento che accomuna in particolare l’esperimento di Giorgia Palombi su Gloria della notte e Assenti di Cotroneo (sviluppato parallelamente in un’altra versione da Anna Gesualdi, ma secondo lo stesso principio) e di Nicola Laieta su Circolare di Pulsatilla. Mentre un caso particolare è posto da La settimana prossima di Milena Agus, articolato in maniera complessa, e dunque con una scrittura assai felice, ma con una precisione di dettaglio che funziona quale messa a fuoco dal punto di vista dei personaggi più che di un ideale spettatore esterno. La costruzione è qui indubbiamente dinamica, ma in un senso piuttosto cinematrografico: il testo è, infatti, retto da una meccanica dell’affacciarsi a guardare, dell’entrare e uscire, del vedere preciso e minuzioso: si considerino i richiami alla tromba delle scale e, perfino, alla balaustra in ferro battuto di queste. In esso una donna e una zingara, tra la soglia e la finestra del primo piano di «un palazzo bellissimo e fatiscente», attendono l’apparizione di una signora, che possa dare un lavoro alla seconda. Il testo è stato “movimentato” – da Daniele Russo, per il Teatro Bellini – moltiplicando le presenze nei vagoni della funicolare di Chiaia, passando dalle tre previste dal testo («Lei», la «Zingara», l’«Amica», che appare solo alla fine) a dieci.

Funicolare, autobus, metropolitana – a differenza di banca, ufficio postale, foyer di teatro – sono mezzi che hanno permesso realizzazioni di azioni che superano il pubblico che queste si scelgono o che le sceglie: le persone in attesa che per caso si raggruppano vicino agli attori “in incognita” e che permettono loro di iniziare la performance, oppure coloro che si avvicinano, attirati da qualcosa che è già iniziato e che desta la loro attenzione, appunto nel tempo vuoto dell’“attesa”. Si tratta di veri e propri stationendrama. Ovviamente in un teatro annunciato e consapevole la dimensione itinerante – per esempio, il Dostoevskij ai Quartieri spagnoli, diviso in due puntate in due sere – è un dato consapevole e il pubblico segue l’azione spostandosi di luogo in luogo, secondo le meccaniche dello spettacolo itinerante. Nei nostri casi l’articolazione da stationendrama è del tutto virtuale, laddove l’azione che pure attira l’attenzione può non essere riconosciuta come “teatro”: chi assiste all’inizio della scena non ne vede necessariamente il compimento, se non nel caso in cui la stazione d’attesa preveda un’unica destinazione. Al binario della metropolitana di Piazza Dante o nella sala d’attesa della funicolare centrale, di piazzetta Augusteo in via Toledo, non si può che andare in una direzione, e così l’azione – salvo a salire nello stesso scompartimento – si porta dietro i propri spettatori. Non così accade alla fermata dell’autobus di Piazza Garibaldi o Piazza Vittoria, dove non tutti coloro che attendono, anzi solo una piccola parte di essi, saliranno sullo stesso autobus e vedranno la continuazione della scena.

Circolare, in fondo, è sulla carta il testo scritto con una maggiore complicazione di spazio e tempo in rapporto dinamicamente “eseguibile” e l’adattamento ambientale ha il merito di risolverlo in maniera particolarmente efficace, oltretutto con la sottrazione a un finale allusivo. Uno spazio fisso dove passano molte persone e si prevendono molte cose viene potenziato in uno spazio in movimento, mentre il finale previsto nel testo scritto, dove la circolarità dell’azione spezza la verosimiglianza e denuncia una finzione che assume la ripetizione a livello simbolico, si risolve in una maggiore complessità offerta dall’apertura dello spazio e dallo spostamento della conclusione. Un «Trentenne per bene» arriva trafelato con la sua valigia a rotelle, cercando un autobus nella folla di Piazza Garibaldi: chiede indicazioni alle persone che attendono (non tutte, necessariamente, l’autobus), scambia frammenti di conversazione con un varia umanità, fino al momento in cui – intuito il contenuto della sua borsa e la ragione della sua attesa (una riunione di Confindustria) – uno «Spilungone» gli rovescia per terra le carte. Quando il trentenne le ha raccolte e sta per salire nel fatidico autobus – tra una smart rossa che parte e una smart verde che parcheggia – un altro «Trentenne per bene» arriva trafelato ad aspettare un altro autobus con lo stesso numero. Il testo, dunque, fa sfilare sulla pagina, a differenza degli altri della raccolta, costruiti su situazioni conversative a due (in qualche caso a tre, con sostituzione parziale del secondo interlocutore, come quelli di Di Paolo e Petrignani), una partitura corale, che prevede molte parti e apparizioni e molti effetti combinati (per esempio le due macchine dello stesso modello e di differente colore che si succedono, annunciando la “circolarità” della vicenda che subito dopo si rivela). Quello che si vede – a Piazza Garibaldi o nell’altro “sito” di Piazza Martiri – procede in due direzioni: da una parte riduce il numero degli attori-spalla, cercando la promozione al ruolo di persone reali in attesa: lascia alcune “parti” essenziali – una ragazza sordomuta, prevista dal testo; un giovane meno formale di passaggio; lo “spilungone” sostituito da un giovane di colore – cercando di provocare reazioni e commenti tra i passanti in attesa, cosa che puntualmente si manifesta, con picchi più o meno forti di partecipazione. In secondo luogo – e parallelamente – l’ambientazione lavora al maggior respiro spaziale, facendo proseguire la vicenda a bordo dell’autobus. In luogo del gesto forte, del sabotaggio del vuotare la valigetta, si accende una discussione animata tra il giovane in giacca e cravatta e il ragazzo di colore: discussione che comincia nella piazza e prosegue a bordo del mezzo. In luogo dello scioglimento di carattere simbolico, abbiamo detto rivelatore di finzione (la coppia di smart come il raddoppiamento del trentenne che attende l’autobus per recarsi a una riunione), viene sostituito da una sorta di dissolvenza per trasferimento: una parte dei presenti perde lo sviluppo della vicenda perché resta ad attendere un altro autobus, altri – già a bordo del mezzo – assistono a qualcosa che è già cominciato: solo un gruppo ristretto compie lo stesso itinerario ed è, a tutti gli effetti, spettatore. In più alcuni elementi – un numero di autobus che non esiste, una fermata che prende a riferimento una via periferica e ignota ai più – consentono e mobilitano l’intervento nella vicenda di coloro che davvero attendono.

Una prospettiva analoga dirige la reinvenzione di altri due testi, con una profonda, estrema, riscrittura, che parte dai dati stessi dell’ambientazione. Vale a dire che mentre la struttura aperta e complessa è direttamente immaginata da Pulsatilla, semplici sono invece le situazioni di attesa previste da Cotroneo e Maraini. Nel secondo caso si danno una stazione ferroviaria – in un luogo non dichiarato – e due personaggi che attendono l’arrivo di un treno che viene da lontano (da Zurigo) e che sta ritardando. Nel primo il colloquio è del tutto irrelato, semplicemente ambientato in «Luogo pubblico. Esterno giorno (o sera)», con una marca ulteriore di sospensione, intercambiabilità, indeterminatezza. Anche queste situazioni sono, felicemente, messe in movimento dai “trattamenti” teatrali. La stazione ferroviaria diventa una stazione di metropolitana, il luogo indeterminato una stazione di funicolare e nell’uno e nell’altro caso – con lo stesso procedimento che abbiamo descritto per Circolare – le vicende cominciano a terra e proseguono dentro al mezzo in movimento.

Partiamo dal testo di Dacia Maraini. Si tratta, di fatto, di un monologo con un ascoltatore muto, dunque – in una normale realizzazione teatrale – pensato in termini di finzione realistica, attraverso un mediatore della parola, che viene così rivolta a un terzo e non direttamente agli spettatori:

 

Alla stazione: un travestito, bello, giovane, con una massa di capelli biondi. Porta un vestito succinto da donna e i tacchi alti, se ne sta seduto su una panca e aspetta. Di fronte, seduto anche lui su una panca, un bambino. Che non apre bocca.

 

Il quadro che circonda la circostanza in sé banale dell’attesa – molto più in là del fatti di far parlare un “travestito” a un bambino (e aldilà di qualche dettaglio scabroso del racconto, a proposito del rapporto con i clienti) – rende l’incontro evidentemente simbolico e lo dichiara apertamente come finzione: si parla, intanto, di una grande emergenza che vede quasi mezza Italia – da Venezia a Firenze – sommersa dalle acque, e si parte da circostanze ambientative non esattamente quotidiane, il che significa, evidentemente, un quadro esterno non verisimile (a meno di non rappresentare la scena in un giorno di reale calamità naturale). Sto, naturalmente, dicendo dell’impiegabilità del testo, così come si presenta, ai fini del progetto, non del buon livello della scrittura drammaturgica in sé, considerando Gloria della notte un testo per il palcoscenico. Il “travestito” racconta al bambino – che resta in silenzio – la storia della sua esistenza, il suo cambio di sesso e identità (da Gunter a Gloria), i rapporti col padre, la morte della madre il suicidio della nonna. Quando finalmente il treno arriva scopriamo, dalle parole con cui il travestito e il bambino chiamano insieme un passeggero che scende, che quest’ultimo è a un tempo l’amante del primo e il padre del secondo, con un colpo di scena non dissimile da altri che abbiamo già visto, solo qui (come in Consolo e Cotroneo) eccedente la verosimiglianza del quotidiano (o del quotidiano non rappresentato come finzione esplicita, almeno).

La versione teatralmente attuata è, di fatto, un’altra cosa, che condivide con il testo da cui prende le mosse la sola figura del “travestito”, che diviene più propriamente una transessuale (altissima e dai capelli neri) e il luogo, la stazione. Non c’è più il bambino e, anzi, la situazione è completamente diversa, ed è quella di un triangolo, che eredita – diciamo così – il dato di rivelazione o scioglimento del nodo (famiglia e alterità, in rapporto al padre-amante) in tensione: qui vediamo, al binario, un uomo che è amante della transessuale e che vede sopraggiungere la moglie: la coppia sale nel metro, la transessuale riappare al binario, guarda l’uomo e richiama la sua attenzione, la moglie comprende e fa una scenata al marito sul mezzo in partenza. Anche questa, dunque, come quella che abbiamo descritto per Circolare, è un’articolazione dinamica in luogo di quella statica prevista dai testi di partenza. L’impatto è complesso e molto felice, per la sua forza e insieme per la non rivelazione del teatro: per l’attrazione su chi assiste al binario o a bordo (la metropolitana presenta un flusso unidirezionale e stabilito del mezzo rispetto al luogo d’attesa, ovviamente, di contro alla pluriderezionalità della fermata d’autobus nello spazio aperto della piazza) e per le reazioni di chi guarda, dalla sorpresa al commento fino a comportamenti più forti (ho assistito a una scena di scherno da parte di un gruppo di adolescenti di sesso maschile, per mettersi in mostra con le ragazzine che accompagnavano, contro l’uomo, nel momento della massima difficoltà, assediato dalle proteste della moglie: esempio di una reattività ingenua rispetto alla comprensione della finzione, quanto fortemente cruda nella sua “verità”).

A Giorgia Palombi – che mi sembra giusto segnalare – spetta anche una reinvenzione altettanto forte, anche se meno radicale (nel senso che qualcosa in più del testo di partenza qui si conserva), del testo di Cotroneo, che genera – come si è anticipato – anche una seconda versione, senza parole, che insiste piuttosto sul carattere simbolico dei due personaggi e sulla loro funzione individualizzante. Due persone – dai nomi evocativi come Benedetto ed Eleonora, che si danno tra loro del voi – attendono in Assenti in un luogo pubblico. In realtà è la donna ad attendere qualcuno che periodicamente non arriva, un amore impossibile, per appartenenza di classe e, poi, capiamo, per condizioni altre ed assolute: la donna, a un certo punto, parla di un tempo di duecento anni, che rivela dunque la ragione del suo «vestito antico, ma molto consumato dall’uso e dal passare del tempo»: la battuta finale rivela il carattere particolare di questa attesa: «Forse è stupido pensare che con la morte smettiamo di essere vivi, non credete?». La prima versione delle due realizzate nella stazione e nel transito della funicolare centrale (da Piazzetta Augusteo su via Toledo al Vomero), mette in scena Eleonora e Benedetto, e il terzo personaggio (giovane in canottiera, dall’aria proletaria), dando anche in questo caso l’apparenza di una triangolazione di rapporto, con un uomo che insegue una donna che lo rifiuta e un uomo più giovane che non si concede. Altri elementi – come quello che mostra la donna un’artista, che lascia sulle panche della stazione gli schizzi col profilo del giovane – complicano la vicenda, offrendo ad essa, a partire ancora da elementi carattterizzanti come tratti di eccentricità o pazzia, dall’abito al comportamento, qualcosa di fuori fase o fuori tempo di questi attori che non cessano tuttavia di sembrare persone reali, verso un’ allusione passibile di simbolicità. L’altra versione – di Anna Gesualdi – riduce i due “sposi” assenti in due figure tristi, demodées, che viaggiano in silenzio per depositare alla discesa – dal Vomero a Chiaia – un mazzo di fiori e un messaggio, in una posizione prestabilita[2].

 

5.

Tutti questi “interventi” negli spazi cittadini dell’attesa (compreso un ultimo, di cui ci resta da dire), suppongono insieme due caratteristiche contrarie: prevedono, per realizzare il loro senso e la loro efficacia, la dissimulazione della finzione, ma sono – al tempo stesso – oggetto di annuncio e di ripetizione. L’annuncio riguarda il programma del festival, le locandine, i dépliants, gli articoli di giornale, che avvisano gli spettatori potenziali, dicendo solo i luoghi, anche se non gli orari, in cui si svolgeranno, queste “scene”. Anche immaginando la differenza tra un pubblico informato e un pubblico casuale – tra gli spettatori consapevoli e i semplici passanti – è evidente che questo è il crinale sottile che separa una finzione comunque annunciata dalla sorpresa di atti e parole che appena si rendono percepibili nel flusso del movimento cittadino.

Secondariamente – ma unitamente – la questione della replica e della ripetizione. Le stesse “scene” possono essere riviste da persone che passano abitudinariamente per gli stessi luoghi, anche se gli orari delle performances e in qualche caso gli spazi stessi – nel caso di Circolare, per esempio, l’impiego di Piazza Martiri oltre che di Piazza Garibaldi – sono stati pensati per evitare tale coincidenza. In realtà anche questa – pur avendo al proposito un’esperienza solo parziale – è una dimensione di grande interesse, vuoi nel caso in cui la ripetizione potenzi la dimensione simbolica del testo, vuoi in quello in cui la replica permetta a passanti consapevoli del gioco di osservare gli altri che guardano. Il secondo caso è evidente; per quanto riguarda il primo si pensi – secondo la modalità che la teoria del testo narrativo chiama frequenza iterativa (ciò che è avvenuto n volte e viene raccontato/mostrato una volta) – come il rivedere la stessa scena o le stesse presenze coincida con un recupero da parte della finzione di circostanze di realtà. Prendiamo – ad esempio – il testo di Cotroneo e le sue due versioni: è evidente, se lo vedessimo rappresentato a teatro, che i personaggi “assenti” si incontrano replicatamente, perennemente, che ogni sera Eleonora attende invano un uomo di cui è innamorata. Anche coloro che recitano la scena e, forse, soprattutto la coppia di sposi silenziosi e fuori tempo, compiono ripetutamente lo stesso itinerario, scendono dal Vomero a Chiaia, depositano ogni volta, nello stesso luogo, un mazzo di fiori. Ciò che nello spazio di una scena – teatrale o naturale – dove si recita è solo “replica” a carico di coloro che fanno lo spettacolo, diviene nel luogo reale che torna a vedere accadere un’azione piuttosto un’attuazione concreta della frequenza, facendo di essa atto ossessivo o simbolico, e, dunque, in qualche modo un’altra realtà.

 

6.

Ho lasciato per ultimo – perché intreccia molti dei piani che abbiamo considerato fin qui - il testo di Maria Pace Ottieri, Petru. Lo stesso meccanismo della frequenza è qui evidente, ma nel senso contrario, al quale sempre la teoria del discorso narrativo si riferisce col nome di frequenza ripetitiva (ciò che è avvenuto una volta e viene raccontato/mostrato n volte). Si tratta, infatti, di un procedimento della memoria, del ricordo o della celebrazione che da una parte caratterizza il testo e che la “messa in spazio” di Anna Gesualdi moltiplica ulteriormente, facendo raccontare tre volte, insieme, il racconto unitario di partenza, sfruttando le due aperture che esso immagina rispetto al finale inevitabile che esso presenta: un procedimento, dunque, ben pertinente, che rafforza sul piano della continuità e della ripetizione ciò che disperde su quello della rappresentazione propriamente intesa. Si tratta anche – e anche per questo – del testo più profondamente connesso a un preciso luogo di Napoli, e che perciò immagina l’azione (o meglio il racconto di un avvenimento) nello spazio stesso in cui si svolge la performance: la stazione Cumana di Montesanto.

Facciamo, questa volta, un percorso inverso. Partiamo dalla realizzazione di Anna Gesualdi e torniamo al testo. Tre ragazze dall’apparenza di giovani “zingare”, posizionate in punti diversi della stazione, che si scambieranno di tempo in tempo – di esecuzione in esecuzione – le rispettive posizioni (un binario, davanti a una scala mobile, l’ingresso al piano inferiore della stazione), raccontano tre volte, in tre prospettive, con tre risoluzioni, la stessa storia, davanti ai viaggiatori che entrano ed escono, partono e arrivano. Qui il movimento è tutto a carico del “passante”, che generalmente fissa lo sguardo, vincendo il riserbo, fermandosi a guardare, oppure avanza indifferente. Qui la “completezza” o anche solo la comprensibilità di una parte del racconto (le ragazze parlano di qualcuno che amavano e che è morto) restano del tutto ideali ed esistono nel piano complessivo di una situazione che viene solo attraversata dagli spettatori. La stessa stazione, anche forse qualche volta nello stesso momento, ospita presenze – questuanti, individui ai margini talora in vistose situazioni di disagio – anche molto più forti ed estreme di queste, che proprio perciò restano sotto una soglia di “disturbo”. Semmai il dato percettivo è quello della scansione in qualche lieve misura artefatta ma che colpisce – anche nel flusso del passaggio – per la sua forma. Tre “zingarelle”, forse “disturbate” o “deviate”, si lamentano ad alta voce, raccontano in maniera sconnessa una storia, ma lo fanno scandendo la loro parola sopra le musiche che vengono da un registratore poggiato ai loro piedi: sono celeberrime melodie, meccanizzate come un supporto da karaoke, o da rap. Si tratta di un dato della storia che viene trasposto alla situazione, dall’enunciato all’enunciazione potremmo anche dire.

Il testo, dunque. L’azione vera e propria – cioè il contenuto del racconto – si svolge negli immediati paraggi, in Piazza Montesanto, e ha una data di riferimento, riportata nella didascalia iniziale: «26 maggio, ore 19.30». Due piccole annotazioni, in attesa di tornare su questo punto decisivo, secondo quella che potremmo chiamare una doppia dissimulazione proprio in rapporto alla centralità del dato. Prima di tutto nel rapporto testo/didascalia: anche immaginando una normale “esecuzione”, vale a dire il testo rappresentato nella sua integrità e con piena comprensione da parte di uno spettatore ideale di tutte le sue parole e delle azioni prescritte, è evidente che questa informazione resta confinata al solo spazio del libro: solo un lettore si accorge di questa circostanza. In secondo luogo, sulla pagina, nessuna dichiarazione, nota o postilla offre delucidazioni al riguardo. Diciamo solo, per ora, che il richiamo resta sì individualizzante, ma nei soli termini diegetici come un termine temporale post quem. Il personaggio che parla – in realtà in una maniera complessa, secondo un flusso (nel senso della categoria dello stream o “discorso immediato”) – racconta evidentemente una storia che si colloca in questo spazio temporale, distinto da quello in cui la racconta.

I personaggi previsti sono due: Petru che suona la fisarmonica e Mirela che “fa il piattino”. Petru suona soprattutto melodie napoletane, che richiamano di più l’obolo dei passanti, come ‘A tazza ‘e cafè, Funiculì funiculà, O surdato’nnammurato, con qualche concessione al repertorio più ampio, sul tipo di Besame mucho. La parola spetta unicamente a Mirela, in un doppio passaggio mentale: riferisce le parole che Petru sta pensando e noi dovremmo sentirle – secondo le istruzioni che ci offre la pagina – «pensare ad alta voce»: la lingua del flusso mentale ci arriva nella nostra lingua, un italiano «semplice ma fluido» (così nella didascalia iniziale), mentre la presa di parola reale – quando cioè la ragazza risponde al suo cellulare, che suona ed interrompe il flusso-racconto – è, in un intervento che il testo lascia a soggetto, la lingua che davvero una giovane rom parla nella realtà:

 

Mirela risponde qualche parola, parla un rumeno ibrido con parole romanes

 

I segnali sonori esterni (quelli cioè che lo spettatore ideale immaginato dal testo dovrebbe ascoltare) – la suoneria di un cellulare, una sirena della polizia, entrambi di stacco rispetto al tappeto sonoro della fisarmonica – sono realizzazioni di scarto dal piano del racconto-ricordo, che, non a caso, si sviluppa, fino al richiamo inderogabile dell’ultimo in soluzioni alternative e, in diverso modo, pacificanti. Si tratta – comprendiamo alla fine – non di segnali sul piano della realtà che riportano il personaggio che parla, facendolo uscire dal tempo interiore del flusso-racconto mentale, alla dimensione concreta, ma, esattamente al contrario, di un ricordo di suoni-segnali che si materializza. E scopriamo – di conseguenza – che la stessa musica della fisarmonica e il personaggio muto e assorto che la suona sono, di fatto, assenti nel nostro tempo di spettatori. Appartengono cioè al 26 maggio del 2009, prima delle ore 19.30. Il racconto di Mirela, tra i due segnali della suoneria del cellulare e la breve restituzione a una presunta realtà esterna, fino a quello decisivo e rivelatore del suono della sirena della polizia, permettono due esiti divaricati alla storia raccontata, che si conclude con la morte “accidentale” del giovane. Il racconto parte dalla rievocazione delle vite del ragazzo e della ragazza che «fa il piattino»: il figlio lasciato al campo rom, il matrimonio in Romania, l’arrivo a Napoli, le condizioni della questua. La sirena è il segnale inequivocabile della morte di Petru, colpito da un proiettile vagante da un sicario in motorino, contromano, davanti alla stazione Cumana. Un finale che i due squilli del cellulare permettono, per un attimo, alla donna di immaginare in un altro modo: i proiettili non colpiscono nessuno oppure uccidono la stessa Mirela.

Il lettore può recuperare il punto di partenza: la storia è quella di Petru (Birladeanu), di trentatré anni, ucciso dai proiettili di sicari della camorra davanti alla stazione di Montesanto il 29 maggio 2009. Le immagini terribili – conservate dalla memoria totalizzante e impietosa, tra perennità e casulità, della rete – sono quelle riprese da una telecamera di sicurezza, che ha fissato per sempre, nel silenzio del mezzo, la scena della morte del giovane davanti ai “tornelli” della stazione di Montesanto, colpito alle gambe e all’addome, tra la folla terrorizzata che si rifugia all’interno e che si tiene lontana – più che per indifferenza, come anche si è scritto – paralizzata dalla sensazione di trovarsi di fronte non a una vittima innocente ma a una cruenta resa dei conti. Le immagini mute registrano lo strazio della ragazza e catturano dei dettagli di una creaturalità estrema: la fisarmonica, i poveri sandali di gomma (immagina o congettura Ottieri certo a partire da questa visione: «quelle maledette ciabatte di gomma, Petru non riesce a correre forte»).

La realizzazione spoglia la complessa struttura del bellissimo testo – bellissimo anche per la non retorica e dissimulata connessione a un fatto spaventoso, per un omaggio alla vittima – e la restituisce come moltiplicandola. Una vicenda terribile che dovrebbe segnare per sempre uno spazio nella percezione collettiva e uno spazio, inevitabilmente, che torna ad essere quello di sempre, attraversato dal flusso del movimento, in un luogo che è insieme il cuore della città antica e della sua apertura, tra le strade concentrate e fitte della vecchia “vita del giorno” e una delle stazioni che caricano e scaricano il movimento perenne di chi va e viene, nella città allargata o, senz’altro, nella Napoli metropolitana.


[1] Cfr. su questo le interessanti osservazioni di Rodolfo Sacchettini, Sulla scena, questioni di formato, in «Lo Straniero», XIII, n.112, ottobre 2009, pp.129-135.

[2] Non posso non richiamare, a proposito di Giorgia Palombi, il significativo parallelo dello spettacolo Napoli Piazza Garibaldi, che mi è parso in assoluto tra le proposte più interessanti viste nella vetrina parallela al cartellone del festival di E45 Napoli Fringe Festival. L’idea di stationendrama che la regista mostra di sviluppare nel senso dinamico – nel movimento effettivo dell’azione da un luogo a un altro – è qui simmetricamente condensata nel passaggio rispetto allo spazio fisso della scena, attraverso apertura allusive e plurime assunzioni di personaggi da parte di un piccolo gruppo di attori, con rapidi travestimenti e sapide, non scontate, caratterizzazioni. Trovo il lavoro progettato dalla Palombi (con Alessandro di Castri, e Susanna Poole) davvero rilevante, per la felicità dellla combinazione di strumenti semplici e apparentemente scontati (travestimenti, video), e un rapporto di grande continuità (non importa se ricercato e consapevole o “casualmente” suggerito dal luogo in sé) con indimenticabili descrizioni/rappresentazioni di questo luogo – tra estremi di ricchezza e squallore – del movimento e del “passaggio” nel tempo della stessa Napoli. Non è gratuita la citazione di Piazza Ferrovia di Raffaele Viviani e di Napoli Ferrovia di Ermanno Rea. Il primo può indurre a riflettere sulle forme di rappresentazione teatrale della realtà di Napoli, al principio stesso del suo sviluppo metropolitano, nel 1918, ivi comprese le tecniche di assunzione del personaggio caratterizzante attraverso la forma della “macchietta” (ieri i venditori e i musicisti-posteggiatori, gli interpreti, i lustrascarpe, oggi i tossici, i venditori extracomunitari, i passanti e i migranti). Il secondo a mettere in campo un caso esemplare di restituzione di identità – memoriale e storica – attraverso la città slabbrata e contemporanea e il suo quartiere più centrale e disperato, in un itinerario qui anche temporale, che ripercorre il quartiere a distanza di mezzo secolo. «Zona cruciale della città di Napoli per tutti coloro che sono costretti ad attraversarla per proseguire in altre direzioni e per quelli che, invece, ci sostano e ci commerciano proprio in virtù di questo continuo passaggio», si legge nel programma di sala. E lo spettacolo è anche – dal punto di vista del coinvolgimento attoriale – un vero e proprio “passaggio” o transito: vi ho visto e riconosciuto il Trentenne per bene di Circolare (Giulio Barbato), che entra anche qui in scena in giacca e cravatta e valigia su rotelle, esibendo un forte accento veneto; Alessandra di Castri, Eleonora straniata nella versione di Assenti realizzata dalla stessa Palombi, qui particolarmente versata nel numero maggiore di assunzioni di personalità e travestimenti, insieme a Pietro Iuliano, Satana e uno degli Abba nella teatronovela Bizzarra e Susanna Poole, che appare anche in Gloria della notte. Mi è piaciuto molto – a materiare il flusso in una dimensione pratica dello spettacolo – l’affacendarsi e lo scambio, in andare e venire, dei singoli attori che siedono alla consolle per occuparsi, in transito, di luci, musica, video.


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