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Voce perduta, voce ritrovata

di Cesare Molinari
  Nuria Garcia
Data di pubblicazione su web 04/06/2010  

Quest’anno il Napoli teatro festival si è aperto con una contestazione: gli ultimi venticinque operai della birreria Peroni, la cui fabbrica è diventata sede di un teatro e di un possibile centro culturale, sono stati messi in mobilità (ossia licenziati) dalla proprietà sud-africana che ha delocalizzato e frammentato la produzione trasferendola in Polonia e in altri paesi a basso costo di mano d’opera. Questi venticinque operai, gli ultimi dei 500 che in tempi migliori lavoravano nella birreria, contestavano la scelta di investire cifre importanti in attività culturali, anziché cercare un rilancio di attività produttive e industriali, che avrebbe permesso loro di rientrare nel mondo del lavoro.
 


Rebecca Blankenship e Rick Miller
 

Questo conflitto fra cultura e lavoro industriale è desolante, ma insieme significativo sotto il profilo sociale, come su quello strettamente occupazionale. La cultura può essere definita un’attività produttiva? Quale scelta genera più occupazione? Il diritto al lavoro degli operai licenziati viene prima o dopo di quello dei molti giovani assunti dal Festival, anche se in gran parte con formula precaria? Il Festival sarà in grado di dare nuova vita al quartiere di Miano, quartiere popolare, ma confinante con la Reggia di Capodimonte e il suo parco?

La contestazione, verbalmente molto dura nei cartelli esposti, si è risolta con grande civiltà: il direttore artistico del Festival, Renato Quaglia, ha presentato al pubblico dello spettacolo inaugurale una delegazione dei lavoratori, che hanno pacatamente esposto i loro problemi. Ciò che, naturalmente, non basta a risolvere il problema.
 


Rebecca Blankenship e Rick Miller

 

Come nel poema epico o nel romanzo d’appendice o nel serial televisivo, anche la storia raccontata da Robert Lepage e dai suoi attori-autori si svolge in una successione di episodi collegati da un tenue filo narrativo e dal ritornare e scomparire di personaggi via via protagonisti o comprimari, trascinati ciascuno dal proprio destino, alla ricerca ciascuno della sua salvezza. Così succedeva del resto in diversi altri spettacoli di Lepage come La trilogie des dragons, una sorta di epos che raccontava settant’anni di storia canadese in un lungo viaggio attraverso lo sterminato paese, oppure in Tectonic plates dove una giovane donna innamorata a Venezia riappariva vent’anni dopo a New York per ritrovarvi l’amato. In verità il gusto di trasferire la dimensione drammatica in quella narrativa, cancellando per quanto possibile i confini spazio-temporali del dramma è ormai molto diffuso nel teatro moderno, che il più delle volte si avvale dell’epos antico o del romanzo moderno, operando feroci sintesi visive come nell’Iliade di Grazia Cipriani o, al contrario, cercando di mantenere il ritmo disteso del racconto, come nel celeberrimo Mahabarata di Peter Brook. In questo stesso festival napoletano Peter Stein presenta un adattamento dei Demoni di Dostoevskij della durata di circa dodici ore, pranzo e cena compresi. Al contrario l’epica degli spettacoli di Lepage non è basata su alcun riferimento letterario. 
 


Rick Miller, Hans Piesbergen e Rebecca Blankenship

 

In questo Lipsynch la storia che tiene uniti o racchiude i singoli episodi, ciascuno dei quali potrebbe vivere di vita propria, è una storia abbastanza semplice e banale che può essere riassunta in quattro parole: una donna di successo raccoglie dalle braccia di una povera ragazza appena morta il bimbo che cresce ed educa rinunciando alla sua carriera. Cresciuto, il ragazzo vola via alla ricerca delle sue origini, ma potrà conoscerle solo tornando dalla madre adottiva.

Da qui gli sviluppi episodici e le deviazioni che inseriscono personaggi anche solo vagamente legati fra di loro; da qui anche il tessuto dei Leit-motive che complicano la vicenda dal punto di vista intellettuale come da quello sentimentale. Ma la storia di Ada, Jeremy e Lupe è pur sempre il motivo centrale, ciò che fornisce all’insieme una leggibile struttura romanzesca, fatta di rinvii e di deviazioni, e una cornice fortemente evidenziata dal fatto che le tre figure centrali – la madre adottiva, quella naturale e il figlio – ritornano simbolicamente riunite alla fine dello spettacolo. D’altra parte, ovviamente, è la specificità dei personaggi a determinare la tematica più evidente e i contenuti più segreti.

Lipsynch, questo titolo abbastanza misterioso per i non anglofoni, significa “cantare in playback” o, alla lettera, “sincronia labiale”, o anche, semplicemente, “doppiaggio”. Infatti, alcune scene centrali riguardano proprio questo tema: in particolare quella esilarante e drammatica in cui un doppiaggio viene eseguito a distanza, tra New York, dove vengono proiettate le immagini del film, e Madrid da dove viene la voce della doppiatrice – tanto è vero che oggi quasi tutti i prodotti non sono che assemblaggi.
 


Lise Castonguay
 

Perché, come Lepage dichiara, il motivo ispiratore centrale, il tema da cui nascono il racconto e lo spettacolo, sarebbe appunto la voce – la voce costruita, educata, perduta e ritrovata, la nostra voce e quella degli altri, la voce del canto e quella della prosa, la voce che comunica e quella che cela. Non per nulla molti dei personaggi (ben più numerosi degli attori) sono cantanti, e in particolare la protagonista (l’attrice che la interpreta è una vera mezzosoprano lirico), che apre lo spettacolo cantando, sola e maestosa sul palco, un’aria di Gorecki sul tema della maternità e che poi mette in moto la storia adottando l’orfanello. Altri sono speaker radiofonici o propriamente doppiatori.

D’altra parte, la struttura stessa dello spettacolo, che trascorre da una grande intensità visiva a scene di pura conversazione o addirittura di monologhi in cui si esalta la dolorosa solitudine di alcuni, rispecchia la centralità di questo tema, che si intreccia però con l’altro motivo centrale, non esplicitamente assunto come generatore, ma altrettanto essenziale e quasi ovvio in uno spettacolo che, alla fine dei conti, racconta il percorso di una vita: il tema del tempo, assunto come assoluto non misurabile, non assumibile come mera dimensione dello spazio, ma che anzi può dissolversi nella contemporaneità – non c’è distanza fra New York e Madrid, così come non si può frazionare il tempo che intercorre fra l’infanzia e l’adolescenza, se basta un gesto per trasformare il neonato in ragazzo.

D’altra parte è anche significativo che tutte le scene di cui si compone il primo episodio – quello di Ada, la grande cantante lirica che si fa madre – abbiano luogo in mezzi di trasporto: l’aereo in volo che poi atterra, l’automobile, il treno e la metropolitana, immobili poiché ciò che in verità si muove sono le nuvole del cielo o le persone sul marciapiede.
 


Un momento dello spettacolo

 

È un episodio di altissima intensità emotiva dovuta proprio al fatto che le riprodotte sensazioni del personaggio che percepisce immobili il treno o l’aereo in cui si trova mentre vede muoversi l’ambiente circostante, contrastano con la razionale visione dello spettatore che osserva dall’esterno il sistema nella sua interezza – ma alla fin fine è lui, lo spettatore, a rinnegare il principio della relatività, secondo cui ogni sistema in accelerazione obbedisce alle proprie misure. Per cui una realtà minuziosamente riprodotta diventa irreale, né si dovrebbe accettare che, nell’aereo, solo la ragazza morta sia illuminata, mentre gli altri passeggeri appaiono come pure silhouettes. Così derealizzata la realtà diventa perfettamente credibile, al punto che non ci si stupisce più che la ragazza morta – non il suo spettro, lei in carne e ossa quale apparirà nell’ultima parte dello spettacolo – possa camminare sopra il treno con cui Jeremy, ormai adulto parte, lasciando indietro la madre adottiva sul marciapiede.
 


Sarah Kemp

 

Anche il secondo episodio, che pure si apre con un monologo, presenta poi un’alta intensità spettacolare, dovuta però non all’impiego di grandi macchine sceniche, ma soltanto alla doppia visione, realizzata con la proiezione sul grande schermo di fondo, del viso cadente e dolente della vecchia logopediatra che viene intervistata – una tecnica, questa, che Lepage aveva ampiamente sfruttato nel suo Amleto (intitolato Elsinore) in cui il solo protagonista era effettivamente presente in scena, tutto il resto essendo generato dalle telecamere. Qui, in Lipsynch, la doppia visione mette in crisi la percezione di chi guarda, indotto a credere che la proiezione sia in diretta. Solo ragionando, se avesse la voglia e il tempo di farlo, e nel successivo sviluppo della scena, potrà rendersi conto che la posizione della telecamera sul palco non permette quella specifica inquadratura, e che dunque deve trattarsi di una registrazione perfettamente sincronizzata stavolta non con la voce, ma con i movimenti e i gesti degli attori. Ciò che vediamo è dunque la compresenza di un passato (la registrazione) e di un presente (l’azione scenica).

Questo trucco diventa più evidente, ma proprio per questo più intrigante, nella scena successiva che si svolge in un cabaret dove Marie, la cantante destinata a diventare afasica, si esibisce in un furioso rock. Se si avesse il tempo di pensare, ci si dovrebbe accorgere che il pianoforte sulla scena è ridotto alla sola tastiera, mentre lo si vede intero nella proiezione, nella quale invece gli attori possono passare attraverso gli oggetti come se questi fossero immateriali. Mentre l’intensità e la frequenza dei gesti e dei movimenti dovrebbe rendere impensabile una sincronizzazione così precisa.
 


Un momento dello spettacolo
 

Da questo momento il grande spettacolo barocco-postmoderno si placa, ma gradualmente poiché le lunghe scene in cui Jeremy, diventato regista (mentre la madre adottiva lo aveva educato al canto), cerca di realizzare un film sulla storia della sua madre biologica che in verità ancora non conosce, queste scene sostituiscono il movimento coreografico a quello scenotecnico: la scenografia fatta di pannelli manovrati a vista compone spazi di geometrico rigore, mentre l’azione diventa danza, a tratti grottesca, intrecciata con lunghi momenti interamente parlati (in almeno quattro lingue diverse), quasi un recupero della pura dimensione drammaturgica. Così soprattutto nei tre lunghi episodi di cui sono protagonisti personaggi meno direttamente implicati nel filo narrativo centrale. Che riemerge prepotentemente nell’ultimo episodio.

In verità il film di Jeremy è già stato girato, ma non da lui. Questo film racconta nei dettagli la tragica storia di Lupe, la madre biologica, ragazza del Nicaragua venduta e poi violata, fuggita finalmente dai suoi aguzzini, ma solo per morire nell’aereo che la portava in Germania. Questo film dovrebbe essere soltanto un’intervista, un racconto che però si materializza sulla scena, non quindi come flash-back, ma come realtà vissuta, come passato che si fa presente, o meglio che è presente per la sua stessa essenza che fa coincidere memoria e destino. La terribile storia passata si dovrebbe concludere con una morte e una nascita, ma questa nascita comporta uno sviluppo successivo di quella stessa storia raccontata nei termini crudi di quel film dell’orrore che è di fatto la vita di tanti miseri. Perciò c’era bisogno di uno happy end che, non potendo avere lo stesso sapore della realtà, si risolve in un tableau simbolico – un abbraccio? una Pietà? – immerso in un’ombra timorosa, ma in sé ricco d’amore e di speranza. 




Lipsynch
cast cast & credits
 


 

 

 

 

 


 

Nuria Garcia


 

 

 

 

 

 

 


 


I locali dell'ex birreria di Miano




 

 
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