Si dà La Calisto di Francesco Cavalli alla Scala, unopera del 1651: la sala è piena, ed è un successo di pubblico oltre che di critica. Solo poco tempo fa sarebbe sembrato un miraggio. La Scala è da un po che col barocco ci prova: prima le tre opere superstiti di Claudio Monteverdi ( LOrfeo nel 2009; Il ritorno di Ulisse in patria nel 2011; LIncoronazione di Poppea, nel 2015); poi quattro titoli handeliani ( Alcina nel 2009; Il trionfo del tempo e del disinganno nel 2016; Tamerlano nel 2017; Giulio Cesare nel 2019). I risultati sono stati via via migliori dal punto di vista artistico, e quindi incoraggianti per la politica culturale intrapresa dalla direzione del teatro.
Lannuncio di Calisto, in coda a una stagione problematica come questa, era tuttavia sembrato una mossa audace. La trilogia monteverdiana aveva sì inaugurato un nuovo corso, ma aveva anche mostrato tutte le difficoltà di portare opere del Seicento al Piermarini, e di farlo con gli specialisti del settore, spesso restii a mettere in campo masse orchestrali meno esigue di quelle storicamente documentate, e a servirsi di voci meno esili dellusato per adattare il suono a spazi così grandi. Con questo Cavalli si temevano quindi esiti analoghi: un successo di stima che camuffa, senza perdere in eleganza, una sostanziale sfiducia sulla possibilità che la Scala possa diventare una casa per questo repertorio. Per fortuna, così non è stato. Non solo, si è trattato di un vero e proprio successo, tanto più rumoroso in quanto unautentica sorpresa per tutti. Il Seicento si può fare, eccome! Basta farlo con intelligenza. A questo punto però lappetito aumenta: quando arriveranno quelle opere che fino a qualche giorno fa sembravano fantascienza? A quando un bel Cesti? o Stradella o Steffani? o un altro Cavalli? oppure, per osare linosato, un bel Lully o Charpentier?
Un momento dello spettacolo
© Marco Brescia & Rudy Amisano
Al successo hanno contribuito in ugual misura sia la parte scenica sia quella musicale. David McVicar ambienta la vicenda in una biblioteca del Seicento con annessa specola, planetario e cannocchiale: siamo in un gabinetto scientifico di metà secolo, uno di quelli in cui si produce il sapere più avanzato osservando i cieli e confrontando le nuove scoperte con la sapienza dei volumi antichi. Questo è lo spazio dei personaggi allegorici del Prologo (il Destino, la Natura, lEternità), insieme a figuranti che il regista ci presenta come donne e uomini dellepoca di Cavalli: vestono tipici abiti seicenteschi neri con ampie gorgiere o copricapi bianchi, ma reinventati in fogge fantasiose (costumi di Dohey Lüthi). Qui si discute dei massimi sistemi, delle sorti del mondo, del senso della vita e del destino della ninfa Calisto, accolta ormai nel novero delle nuove costellazioni. Lo spazio scenico resta lo stesso per tutta la durata dellopera: nella biblioteca si svolgono anche le vicende di Giove, Calisto e Giunone, nonché di Diana ed Endimione, più quelle che a queste si intrecciano creando bello e vario scompiglio (Pan, Silvano, Linfea, Satirino).
Quando dal prologo si passa allopera, si aprono le finestre, dietro cui scorrono immagini tratte da dipinti depoca, diverse a seconda delle scene. Si susseguono così paesaggi rurali, spazi urbani, cieli stellati, fiamme ecc. La biblioteca e losservatorio astronomico, però, restano sempre al loro posto. È questo lelemento forse più significativo dello spettacolo, il segno di una decisa presa di posizione da parte del regista, che rivela quale sia il significato dellopera nella sua lettura. Come scrive Davide Daolmi nellottimo saggio introduttivo nel programma di sala (parrebbe proprio che McVicar lo abbia letto), il prologo fornisce una chiave di interpretazione della storia mitologica rappresentata come unallegoria cosmologica neoplatonica. Si vedono Giove, Diana, Calisto & co., si ride per i loro accoppiamenti. Intanto, attraverso queste vicende gli autori squadernano per il pubblico sofisticate teorie sul mondo. La permanenza del gabinetto scientifico come sfondo e contenitore ci ricorda proprio questo doppio livello di articolazione, che diletta e ammaestra. Basta solo luso della scenografia e il gioco è fatto: il Konzept è palese, arguto e insieme non ingombrante.
Poi, certo, McVicar è un mago nel far recitare gli interpreti e nel muovere lazione. Al di là di tutte le teorie e le allegorie, La Calisto è (anche) unopera molto buffa e molto amorale, che nella Venezia libertina di metà Seicento porta in scena unarcadia traboccante di erotismo, i cui protagonisti si dedicano a piaceri proibitissimi dalla cultura controriformistica. Calisto è una casta ninfa di Diana, che scopre le gioie del sesso grazie a Giove, che la seduce prendendo le sembianze della dea cacciatrice, che per questo diviene oggetto della passione della ninfa. Diana a sua volta professa e impone alle sue seguaci la castità, là dove è la prima a razzolare male, seducendo Endimione. Condiscono e muovono il tutto Satirelli e ninfe perennemente “in fregola”. Un momento dello spettacolo
© Marco Brescia & Rudy Amisano
La parte musicale poteva riservare le sorprese meno piacevoli, dati i precedenti monteverdiani. Christophe Rousset con grande intelligenza è partito dal presupposto che la sala del Piermarini non è il Teatro SantApollinare di Venezia (dove La Calisto fu rappresentata la prima volta, e che contava poche centinaia di posti), e che quindi alla Scala sarebbe stato impensabile prevedere di usare i sei (sei!) strumenti documentati nellorganico del teatro veneziano. Da qui la decisione dei raddoppi, anzi, ben più che raddoppi: Rousset usa tanti strumenti per il continuo (tre chitarroni, chitarre, cembalo, arpa), e poi archi, in quantità congrue, insieme a strumenti a fiato (flauti e cornetti). La ricchezza dei mezzi non solo ha creato una base sonora adatta allo spazio, ma ha permesso al direttore di concertare e strumentare il continuo in base ai personaggi e alle situazioni, potendo ricorrere a una tavolozza timbrica capace già solo per questo di sostenere lattenzione nelle oltre tre ore di spettacolo (e per un pubblico come quello della Scala che il Seicento a teatro lo ha visto pochissimo). Sotto la sua guida si sono esibiti membri del suo ensemble, Les Talens Lyriques, e dellOrchestra del Teatro alla Scala su strumenti storici. Non è facile creare amalgami del genere, specie quando la recente compagine di casa negli ultimi tempi non ha avuto molte occasioni per crescere, e qualche difetto di intonazione resta. A ogni modo, la direzione di Rousset ha trovato tempi, colori e fraseggi perfetti.
Il cast ha messo insieme barocchisti di lunga data e recenti acquisizioni a questo repertorio, con alcune vere scoperte (o nuove scoperte) in entrambi i casi. Bisogna dire che la scrittura di Cavalli (e dellopera seicentesca in generale) è tutto fuorché semplice per i cantanti, soprattutto a causa di tessiture spessissimo ingrate, che pongono a cimento anche gli interpreti più esperti, perché in queste opere bisogna non solo cantare bene, ma anche far capire bene il testo e recitare parecchio. Quando la musica è situata in una fascia scomoda, è particolarmente difficile riuscire a coniugare le tre esigenze. Per prima cosa, anche grazie alla concertazione di Rousset e alla scatola scenica in cui lazione è inserita, le voci viaggiano tutte benissimo in sala, anche quelle più “barocche”.
Un momento dello spettacolo
© Marco Brescia & Rudy Amisano
Tutti recitano con grande convinzione. Luca Tittoto ha voce potente e bel timbro scuro (Giove), perfetto come padre degli dei e irresistibile nei panni del dongiovanni boschereccio. Markus Werba (Mercurio) è uno dei felicissimi casi di interpreti a proprio agio in qualsiasi cosa affrontino: alla Scala ha cantato di tutto e bene, da Mozart a Wagner, a Korngold e a Strauss; alla lista si aggiunge adesso Cavalli, il che fa ben sperare per un ampliamento del suo repertorio allopera barocca. Véronique Gens ha reso la parte di Giunone forse ancora più interessante di quanto lautore non labbia creata: la cantante sa passare dallolimpica maestà ai toni da operetta che il ruolo pure richiede, grazie a una perfetta modulazione della voce e alle raffinate capacità attoriali. Chiara Amarù (Linfea) è un altro dei felici casi di interpreti non specialisti (lavevo ascoltata come ottima Preziosilla a Verona qualche anno fa) che sembra invece cantino solo opera del Seicento, tanto sono a proprio agio con la propria parte. Semplicemente splendido Christophe Dumaux (Endimione): la voce è ricca di armonici e omogenea nei registri, il fraseggio di grande eleganza e la recitazione spigliata anche in un ruolo amoroso, così diverso dagli innumerevoli Tolomei (Giulio Cesare di Handel, anche alla Scala nel 2019) in cui lo si era apprezzato finora. Bene poi Chen Reiss (Calisto) e Olga Bezsmertna (Diana). In entrambi i casi, però, le loro prove non lasciano propriamente il segno. La prima fa tutto bene: intonazione, fraseggio, recitazione, ma nella voce non emerge una personalità spiccata. Così anche la seconda che ha per di più una dizione poco chiara (e, in unopera dove il testo è così importante, non è un dettaglio trascurabile). Molto bene pure il resto della compagnia, di cui piace menzionare Damiana Mizzi (Satirino) e Luigi De Donato (Silvano).
Come dicevo, il successo è stato grande: in teatro dopo la recita si diceva di oltre nove minuti di meritatissimi applausi.
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