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Ancora un passo, e saremo
europeizzati!


di Vincenzo Borghetti
  Tamerlano
Data di pubblicazione su web 28/09/2017  

Forse stavolta ci siamo davvero: alla Scala arriva un’opera seria del Settecento, il Tamerlano di Händel: un ottimo successo di pubblico e di critica. Non sembrava possibile fino a qualche anno fa, anzi fino all’anno scorso, non almeno con questo entusiasmo. L’opera barocca (chiamiamola così), che in Europa quant’è larga e lunga si trova dappertutto e richiama molti spettatori, in Italia arriva sempre un po’ come la resa a una nuova moda internazionale a cui non ci si può sottrarre, e i maldipancia sono frequenti. Degli abbonati, quindi del botteghino e quindi delle direzioni artistiche e sovrintendenze. La Scala è però il teatro che da noi batte la via barocca con maggiore convinzione. Lo scrivevo in occasione dell’ultimo Trionfo del Tempo e del Disinganno: il Sei e primo Settecento tornano in scena con una certa regolarità nel teatro milanese, e la regolarità alla fine scava la pietra.

Lo dimostra questo ultimo Tamerlano. Come per le tre opere monteverdiane degli anni 2009-2015, si tratta di una produzione nuova nata alla Scala, in collaborazione con il Palau de les Artes di Valencia (a differenza dell’Alcina o de Il Trionfo del Tempo e del Disinganno, entrambe opere importate). Uno spettacolo importante, non giocato al risparmio, ma di quelli su cui il teatro ha investito, fiducioso che i tempi per l’opera barocca siano maturi. Uno spettacolo dai riscontri molto positivi sia sul piano artistico sia su quello della politica culturale, che ha portato sotto i riflettori la coda autunnale della stagione scaligera, tradizionalmente riservata a riprese o a produzioni defilate se non di nicchia. Ancora un passo, per parafrasare una lettera di Verdi, e saremo europeizzati? La risposta è “non ancora”, non del tutto. Il trucco c’è e si chiama Plácido Domingo. È lui il “cavallo di Troia” che il sovrintendente Pereira ha usato per fare breccia alla Scala con Händel e l’opera barocca. À la guerre come à la guerre, allora, anche perché questa volta la guerre ha fatto registrare un punto a favore per tutti. 

Andiamo per ordine. I maldipancia non sono del tutto ingiustificati. L’opera del Settecento può essere gravemente indigesta. Una sequela di recitativi (spesso molto lunghi) e di arie (tutte col “da capo”) potrebbe mettere alla prova anche i più incalliti cultori del genere, figurarsi gli abbonati standard. Affinché in scena lo spettacolo funzioni, è decisiva una regia che sappia trovare i modi per raccontare le vicende, ignote ai più e in genere ingarbugliate, o eventualmente per reinventarsele di sana pianta, e che sappia escogitare qualcosa per non scadere in una parata di scenografie e costumi, cosa pericolosa quando non si ha a che fare con un’opera di repertorio. Un Rigoletto o una Valchiria scenicamente poco felici alla peggio passano inosservati; un’opera di Händel o di Vivaldi non degnamente allestita finirebbe invece con la sala semivuota già all’intervallo, alla prima e a tutte le repliche.



Un momento dello spettacolo
© Marco Brescia e Rudy Amisano

Davide Livermore (regia) ha avuto l’intelligenza di realizzare un Tamerlano “da vedere”, in cui non c’è un’idea ogni venti minuti/mezz’ora che poi lascia la musica sola ad arrangiarsi, quasi l’“aspetto teatrale” sia qualcosa di secondario. Come ha fatto? Innanzitutto portando il cinema a teatro. Dall’ouverture (a sipario aperto) in poi lo spettacolo è in continua attività, con movimenti, proiezioni, controscene, colpi di scena capaci di tenere l’attenzione del pubblico puntata verso il palco, senza danni per il plot o per la musica. La Personenregie è curata: qui i cantanti recitano tutti, e lo fanno bene, e i personaggi e le storie che interpretano ne acquistano in interesse. Interesse che è poi sostenuto, e in modo non secondario, dalla trasposizione temporale della vicenda: dall’Anatolia di fine Quattrocento alla Russia della Rivoluzione. Tamerlano, il conquistatore rozzo e violento, è Stalin; Andronico, il principe greco suo succube e allo stesso tempo antagonista, diviene Trotskij; Bajazet, il principe turco prigioniero nelle mani del protagonista, è lo zar Nicola II e via dicendo. 

Livermore prende la trasposizione alla lettera e la conduce fino in fondo, portando l’opera in scena con i media e i linguaggi espressivi dell’epoca: grazie alle proiezioni (di Videomakers D-Work), a recitazione, movimenti e tempi cinematografici, all’uso di rumori diffusi ad hoc, si ha davvero l’impressione di assistere a un film di Ėjzenštejn sulla Rivoluzione d’ottobre. Non mancano (potrebbero?) i treni: il primo atto si svolge quasi per intero su un convoglio in corsa tra paesaggi notturni e innevati, con tanto di svaporamenti evocativi alle fermate (scene di Davide Livermore e Giò Forma). Di per sé la trasposizione non rende l’opera meglio gradita al pubblico, né garantisce la riuscita di uno spettacolo. Nel Tamerlano di Livermore, però, il risultato (per la credibilità con cui storie così lontane tra loro sono sovrapposte, per la cura della messinscena, per la convinzione con cui questa è realizzata e con cui vi partecipano gli interpreti) è strepitoso e sorprendente. 

Sorprendente soprattutto in questo primo atto “ferroviario”. Gli ultimi due spostano l’azione in interni, i palazzi dell’Antico regime ormai violati dai rivoluzionari. Qui tutto diviene meno spettacolarmente cinematografico, anche se l’attenzione nel raccontare la vicenda e condurre scena e cantanti resta la stessa: l’allestimento non cade mai nella ripetizione, né nella superfetazione di gag, ma è sempre prodigo di nuove idee e movimenti che arrivano al momento giusto.



Un momento dello spettacolo
© Marco Brescia e Rudy Amisano

L’opera del Settecento può essere gravemente indigesta. Perché lo spettacolo in scena funzioni, occorre anche che ci siano musicisti che sappiano padroneggiare una sequela di recitativi (spesso molto lunghi) e di arie (tutte col “da capo”). Sul podio per il Tamerlano c’è Diego Fasolis (direttore). Non è la prima volta che con Händel la Scala affida a lui la direzione. Ma è la prima volta in cui una concertazione/direzione interessante si sposa con una resa dell’orchestra (quasi) di pari livello. Come per il più volte citato Trionfo del Tempo e del Disinganno, in buca l’Orchestra della Scala su strumenti storici è affiancata dai Barocchisti, il complesso di cui Fasolis è fondatore e direttore. E le cose funzionano molto meglio. Non si sentono ancora le finezze che contraddistinguono le orchestre specializzate in questo repertorio, nondimeno i passi avanti sono evidenti (per esempio sono spariti, o comunque si sono molto ridotti, i problemi di intonazione). 

Fasolis il Settecento lo conosce bene, e lo mette in pratica con gusto e precisione, come dimostrano la scelta dei tempi, il fraseggio e i timbri attentissimi alle sfumature della musica. Inoltre sa come si trattano i recitativi per far sì che siano efficaci dal punto di vista musicale e quindi teatrale. Infine riesce a ottenere che tutti gli interpreti eseguano bene le appoggiature e le variazioni dei “da capo” e delle cadenze. Di quando in quando propone scelte poco comprensibili. Per esempio durante i recitativi secchi, quando i clavicembali arricchiscono di improvvisazioni l’accompagnamento senza che se ne colga immediatamente la ragione drammatica o musicale; oppure quando insieme al cembalo suona un fagotto, con una sottolineatura del basso che interferisce timbricamente con le voci e pregiudica così l’intelligibilità del testo poetico. Ma sono dettagli che non pregiudicano la qualità generale della sua lettura musicale.



Un momento dello spettacolo
© Marco Brescia e Rudy Amisano

Ottimo il cast. Due controtenori, Bejun Metha (Tamerlano) e Franco Fagioli (Andronico), nei ruoli che Händel creò per due castrati. Metha è un veterano del ruolo, avendo cantato insieme a Domingo in più occasioni. La sua prova è apparsa meno a fuoco di altre volte, dal punto di vista vocale almeno. Forse la recita cui si è assistito è capitata in una giornata non favorevole. La voce sembrava meno ricca del solito, e le colorature di cui la parte abbonda, e che hanno un ruolo fondamentale nel caratterizzare in senso aggressivo il personaggio, erano in gran parte poco percepibili dalla sala. Molto bene invece la sua resa del carattere. Fagioli sfodera un bel colore, anche se uniforme (con i controtenori è piuttosto frequente), e colorature sicure e sonore; ed è perfetto dal punto di vista interpretativo nel ruolo dell’intellettuale idealista macerato. 

Splendida Maria Grazia Schiavo come Asteria. Splendida per le sfumature di timbro e colore nei diversi affetti delle sue arie (qualche asperità ogni tanto negli acuti è bilanciata da un registro medio ampio e pastoso), splendida per la musicalità del fraseggio, delle agilità e per le capacità attoriali (messe peraltro in evidenza dai bellissimi costumi ideati per il suo personaggio da Mariana Fracasso). Molto bene Marianne Crebassa nella parte di Irene. Completa il cast nel ruolo comprimario di Leone Christian Senn

Che dire poi di Plácido Domingo (Bajazet), se non che siamo di fronte a un autentico miracolo? La sua età è ancora sconosciuta, come una volta le sorgenti del Nilo, ma i meglio informati dicono che siamo ben sopra i settanta. A sentirlo e a vederlo in scena si notano solo fiati più corti del solito (e qualche problema di memoria), ma il timbro e la fermezza della voce sono i suoi di sempre. Come sue sono la capacità di adattarsi a un contesto nuovo per la sua storia di interprete, e di farlo fino in fondo, con tanto di appoggiature (e non è frequente nemmeno tra i cosiddetti specialisti) e variazioni (idem). Tanti hanno storto il naso a leggere il suo nome in locandina. Ma se oggi parliamo di questo Tamerlano lo dobbiamo soprattutto a lui e alla sua inarrestabile curiosità artistica.



Tamerlano



cast cast & credits
 
trama trama

Şovun bir anı
Un momento dello spettacolo visto alla Scala il 22 settembre 2017
© Marco Brescia & Rudy Amisano







 
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