Forse stavolta ci siamo davvero: alla Scala arriva unopera seria del Settecento, il Tamerlano di Händel: un ottimo successo di pubblico e di critica. Non sembrava possibile fino a qualche anno fa, anzi fino allanno scorso, non almeno con questo entusiasmo. Lopera barocca (chiamiamola così), che in Europa quantè larga e lunga si trova dappertutto e richiama molti spettatori, in Italia arriva sempre un po come la resa a una nuova moda internazionale a cui non ci si può sottrarre, e i maldipancia sono frequenti. Degli abbonati, quindi del botteghino e quindi delle direzioni artistiche e sovrintendenze. La Scala è però il teatro che da noi batte la via barocca con maggiore convinzione. Lo scrivevo in occasione dellultimo Trionfo del Tempo e del Disinganno: il Sei e primo Settecento tornano in scena con una certa regolarità nel teatro milanese, e la regolarità alla fine scava la pietra. Lo dimostra questo ultimo Tamerlano. Come per le tre opere monteverdiane degli anni 2009-2015, si tratta di una produzione nuova nata alla Scala, in collaborazione con il Palau de les Artes di Valencia (a differenza dellAlcina o de Il Trionfo del Tempo e del Disinganno, entrambe opere importate). Uno spettacolo importante, non giocato al risparmio, ma di quelli su cui il teatro ha investito, fiducioso che i tempi per lopera barocca siano maturi. Uno spettacolo dai riscontri molto positivi sia sul piano artistico sia su quello della politica culturale, che ha portato sotto i riflettori la coda autunnale della stagione scaligera, tradizionalmente riservata a riprese o a produzioni defilate se non di nicchia. Ancora un passo, per parafrasare una lettera di Verdi, e saremo europeizzati? La risposta è “non ancora”, non del tutto. Il trucco cè e si chiama Plácido Domingo. È lui il “cavallo di Troia” che il sovrintendente Pereira ha usato per fare breccia alla Scala con Händel e lopera barocca. À la guerre come à la guerre, allora, anche perché questa volta la guerre ha fatto registrare un punto a favore per tutti.
Andiamo per ordine. I maldipancia non sono del tutto ingiustificati. Lopera del Settecento può essere gravemente indigesta. Una sequela di recitativi (spesso molto lunghi) e di arie (tutte col “da capo”) potrebbe mettere alla prova anche i più incalliti cultori del genere, figurarsi gli abbonati standard. Affinché in scena lo spettacolo funzioni, è decisiva una regia che sappia trovare i modi per raccontare le vicende, ignote ai più e in genere ingarbugliate, o eventualmente per reinventarsele di sana pianta, e che sappia escogitare qualcosa per non scadere in una parata di scenografie e costumi, cosa pericolosa quando non si ha a che fare con unopera di repertorio. Un Rigoletto o una Valchiria scenicamente poco felici alla peggio passano inosservati; unopera di Händel o di Vivaldi non degnamente allestita finirebbe invece con la sala semivuota già allintervallo, alla prima e a tutte le repliche.
Un momento dello spettacolo © Marco Brescia e Rudy Amisano
Davide
Livermore
(regia) ha avuto lintelligenza di realizzare un Tamerlano
“da vedere”, in cui non cè unidea ogni venti
minuti/mezzora che poi lascia la musica sola ad arrangiarsi, quasi
l“aspetto teatrale” sia qualcosa di secondario. Come ha fatto?
Innanzitutto portando il cinema a teatro. Dallouverture
(a sipario aperto) in poi lo spettacolo è in continua attività, con
movimenti, proiezioni, controscene, colpi di scena capaci di tenere
lattenzione del pubblico puntata verso il palco, senza danni per
il plot
o per la musica. La Personenregie
è curata: qui i cantanti recitano tutti, e lo fanno bene, e i
personaggi e le storie che interpretano ne acquistano in interesse.
Interesse che è poi sostenuto, e in modo non secondario, dalla
trasposizione temporale della vicenda:
dallAnatolia di fine Quattrocento alla Russia della Rivoluzione.
Tamerlano, il conquistatore rozzo e violento, è Stalin;
Andronico, il principe greco suo succube e allo stesso tempo
antagonista, diviene Trotskij;
Bajazet, il principe turco prigioniero nelle mani del protagonista, è
lo zar Nicola
II
e via dicendo. Livermore
prende la trasposizione alla lettera e la conduce fino in fondo,
portando lopera in scena con i media
e i linguaggi espressivi dellepoca: grazie alle proiezioni (di
Videomakers
D-Work),
a recitazione, movimenti e tempi cinematografici, alluso di rumori
diffusi ad
hoc,
si ha davvero limpressione di assistere a un film di Ėjzenštejn
sulla Rivoluzione dottobre. Non mancano (potrebbero?) i treni: il
primo atto si svolge quasi per intero su un convoglio in corsa tra
paesaggi notturni e innevati, con tanto di svaporamenti evocativi
alle fermate (scene di Davide
Livermore
e Giò
Forma).
Di per sé la trasposizione non rende lopera meglio gradita al
pubblico, né garantisce la riuscita di uno spettacolo. Nel Tamerlano
di Livermore, però, il risultato (per la credibilità con cui storie
così lontane tra loro sono sovrapposte, per la cura della
messinscena, per la convinzione con cui questa è realizzata e con
cui vi partecipano gli interpreti) è strepitoso e sorprendente. Sorprendente
soprattutto in questo primo atto “ferroviario”. Gli ultimi due
spostano lazione in interni, i palazzi dellAntico regime ormai
violati dai rivoluzionari. Qui tutto diviene meno spettacolarmente
cinematografico, anche se lattenzione nel raccontare la vicenda e
condurre scena e cantanti resta la stessa: lallestimento non cade
mai nella ripetizione, né nella superfetazione di gag, ma è sempre
prodigo di nuove idee e movimenti che arrivano al momento giusto.
Un momento dello spettacolo © Marco Brescia e Rudy Amisano
Lopera
del Settecento può essere gravemente indigesta. Perché lo
spettacolo in scena funzioni, occorre anche che ci siano musicisti
che sappiano padroneggiare una sequela di recitativi (spesso molto
lunghi) e di arie (tutte col “da capo”). Sul podio per il
Tamerlano
cè Diego
Fasolis
(direttore). Non è la prima volta che con Händel la Scala affida a
lui la direzione. Ma è la prima volta in cui una
concertazione/direzione interessante si sposa con una resa
dellorchestra (quasi) di pari livello. Come per il più volte
citato Trionfo
del Tempo e del Disinganno,
in buca lOrchestra della Scala su strumenti storici è affiancata
dai Barocchisti, il complesso di cui Fasolis è fondatore e
direttore. E le cose funzionano molto meglio. Non si sentono ancora
le finezze che contraddistinguono le orchestre specializzate in
questo repertorio, nondimeno i passi avanti sono evidenti (per
esempio sono spariti, o comunque si sono molto ridotti, i problemi di
intonazione). Fasolis
il Settecento lo conosce bene, e lo mette in pratica con gusto e
precisione, come dimostrano la scelta dei tempi, il fraseggio e i
timbri attentissimi alle sfumature della musica. Inoltre sa come si
trattano i recitativi per far sì che siano efficaci dal punto di
vista musicale e quindi teatrale. Infine riesce a ottenere che tutti
gli interpreti eseguano bene le appoggiature e le variazioni dei “da
capo” e delle cadenze. Di quando in quando propone scelte poco
comprensibili. Per esempio durante i recitativi secchi, quando i
clavicembali arricchiscono di improvvisazioni laccompagnamento
senza che se ne colga immediatamente la ragione drammatica o
musicale; oppure quando insieme al cembalo suona un fagotto, con una
sottolineatura del basso che interferisce timbricamente con le voci e
pregiudica così lintelligibilità del testo poetico. Ma sono
dettagli che non pregiudicano la qualità generale della sua lettura
musicale.
Un momento dello spettacolo © Marco Brescia e Rudy Amisano
Ottimo
il cast. Due controtenori, Bejun
Metha
(Tamerlano) e Franco
Fagioli
(Andronico), nei ruoli che Händel creò per due castrati. Metha è
un veterano del ruolo, avendo cantato insieme a Domingo in più
occasioni. La sua prova è apparsa meno a fuoco di altre volte, dal
punto di vista vocale almeno. Forse la recita cui si è assistito è
capitata in una giornata non favorevole. La voce sembrava meno ricca
del solito, e le colorature di cui la parte abbonda, e che hanno un
ruolo fondamentale nel caratterizzare in senso aggressivo il
personaggio, erano in gran parte poco percepibili dalla sala. Molto
bene invece la sua resa del carattere. Fagioli
sfodera un bel colore, anche se uniforme (con i controtenori è
piuttosto frequente), e colorature sicure e sonore; ed è perfetto
dal punto di vista interpretativo nel ruolo dellintellettuale
idealista macerato.
Splendida
Maria
Grazia Schiavo
come Asteria. Splendida per le sfumature di timbro e colore nei
diversi affetti delle sue arie (qualche asperità ogni tanto negli
acuti è bilanciata da un registro medio ampio e pastoso), splendida
per la musicalità del fraseggio, delle agilità e per le capacità
attoriali (messe peraltro in evidenza dai bellissimi costumi ideati
per il suo personaggio da Mariana
Fracasso).
Molto bene Marianne
Crebassa
nella parte di Irene. Completa il cast nel ruolo comprimario di Leone
Christian
Senn.
Che
dire poi di Plácido
Domingo
(Bajazet), se non che siamo di fronte a un autentico miracolo? La sua
età è ancora sconosciuta, come una volta le sorgenti del Nilo, ma i
meglio informati dicono che siamo ben sopra i settanta. A sentirlo e
a vederlo in scena si notano solo fiati più corti del solito (e
qualche problema di memoria), ma il timbro e la fermezza della voce
sono i suoi di sempre. Come sue sono la capacità di adattarsi a un
contesto nuovo per la sua storia di interprete, e di farlo fino in
fondo, con tanto di appoggiature (e non è frequente nemmeno tra i
cosiddetti specialisti) e variazioni (idem). Tanti hanno storto il
naso a leggere il suo nome in locandina. Ma se oggi parliamo di
questo Tamerlano
lo dobbiamo soprattutto a lui e alla sua inarrestabile curiosità
artistica.
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