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Barocco alla Scala

di Vincenzo Borghetti
  Il trionfo del Tempo e del Disinganno
Data di pubblicazione su web 17/02/2016  

Negli ultimi anni alla Scala l’opera barocca è divenuta un appuntamento ricorrente. È una novità delle ultime dieci stagioni, da quando cioè sono state riportate in scena le tre opere superstiti di Monteverdi (L’Orfeo nel 2009, Il ritorno di Ulisse in patria nel 2011, L’incoronazione di Poppea nel 2015), e prima e insieme a queste hanno fatto capolino qui e lì anche alcune opere di Händel (Rinaldo nel 2005, Alcina nel 2009). A un anno di distanza dall’ultimo Monteverdi, torna adesso Händel con una versione scenica del Trionfo del Tempo e del Disinganno, l’oratorio che il compositore scrisse a Roma nel 1707.

Rispetto all’interesse sempre più ampio verso il teatro musicale sei-settecentesco che caratterizza i principali teatri europei (e non solo negli ultimi dieci anni), le scelte barocche della Scala possono sembrare piccola cosa: in effetti, basta scorrere le stagioni dei teatri di Monaco, Berlino, Parigi, Londra o Barcellona per trovare situazioni a volte molto diverse per quanto concerne la presenza di opera barocca (e, va detto, non solo di Monteverdi e Händel). Nel contesto italiano, però, la Scala è forse l’unico dei grandi teatri ad avere con una qualche regolarità queste opere nella sua programmazione. Se escludiamo La Fenice di Venezia e il San Carlo di Napoli, che per gli spettacoli “particolari” hanno a disposizione gli spazi rispettivamente del Teatro Malibran e del teatrino di corte di Palazzo Reale, nessuno degli altri grandi teatri ha ospitato con la stessa frequenza della Scala opera barocca. 


Un momento dello spettacoloİMarco Brescia & Rudy Amisano
Un momento dello spettacolo
İMarco Brescia & Rudy Amisano

La difficoltà è sempre quella di riempire sale come quella del Piermarini o del Costanzi e simili offrendo un repertorio (ancora?) poco frequentato dal grande pubblico della lirica; è quindi comprensibile che, specie di questi tempi, le necessità del botteghino facciano sentire la propria influenza sulle programmazioni. È però altrettanto comprensibile, e aggiungo lodevole, che si provi a porre le basi per creare un pubblico con una familiarità diversa con opere che da noi rimangono per i più un territorio ancora pochissimo esplorato. Del nuovo corso barocco della Scala si colgono alcuni indizi incoraggianti: per questo Trionfo del Tempo e del Disinganno debutta una “nuova” compagine orchestrale, quella che in locandina è indicata come l’ĞOrchestra del Teatro alla Scala su strumenti storiciğ, segno che si intende (per fortuna) perseverare sulla strada intrapresa.

L’Allestimento del Trionfo del Tempo e del Disinganno è stato prodotto dall’Opernhaus di Zurigo negli anni di Alexander Pereira (proposto la prima volta nella stagione 2002-2003, con Cecilia Bartoli nel ruolo del Piacere), e arriva alla Scala passando dalla Staatsoper Unter den Linden di Berlino, dove è stato presentato nel 2014 entrando poi subito nel repertorio del teatro (di cui Jürgen Flimm, uno dei due registi, è il sovrintendente). Lo spettacolo ha un’origine avventurosa che merita di essere raccontata: un’improvvisa indisposizione di Nikolaus Harnoncourt lascia Zurigo senza un direttore per la prevista Alcina (di Händel) con la Bartoli e la regia di Flimm; il nuovo direttore Marc Minkowski non accetta di dirigere l’opera, e propone al suo posto Il Trionfo del Tempo e del Disinganno (che la celebre mezzosoprano romana aveva già cantato, e lui già diretto). Si giunge così a questa scelta sorprendente per un teatro d’opera: i registi Jürgen Flimm e Gudrun Hartmann si trovano a dover allestire non un’Alcina, ma uno spettacolo di oltre due ore (tanto dura l’oratorio) con solo quattro personaggi, per giunta allegorici, e senza una vera e propria vicenda (la “storia” ruota intorno ai tentativi, alla fine vittoriosi, del Tempo e del Disinganno di convincere la Bellezza ad abbandonare le false lusinghe del Piacere, e a votarsi al bene durevole della verità celeste). La sfida riesce, e lo spettacolo è molto ben accolto nelle città in cui finora è stato messo in scena, Milano compresa. 


Un momento dello spettacoloİMarco Brescia & Rudy Amisano
Un momento dello spettacolo
İMarco Brescia & Rudy Amisano

Che cosa portano in scena Flimm e Hartmann? Come si legge nelle note di regia di Ronny Dietrich (drammaturgia), tutto lo spettacolo si svolge in un unico spazio: una citazione della Coupole, una famosa brasserie alla moda della Parigi degli anni Trenta (scene di Erich Wonder). La Bellezza è una giovane signora platinata del bel mondo, che per abbigliamento e acconciatura ricorda Jean Harlow (costumi di Florence von Gerkan); intorno a lei si muove un folto gruppo di comparse e ballerini, i frequentatori-tipo del locale negli anni d’oro. Tra questi si trovano anche il Piacere, il Disinganno e il Tempo che in vari modi si danno da fare intorno a Bellezza, per tentare di conquistarla, come immaginiamo gli avventori della Coupole avrebbero fatto con una Jean Harlow improvvidamente sola.

Si susseguono così le arie, e con esse le diverse manovre di seduzione, mentre sullo sfondo prosegue la serata parigina: nella brasserie fanno il loro ingresso persone eleganti, marinai in libera uscita, uomini intabarrati, ballerine scosciate da night club, etc., tutti affaccendati in varie attività intorno alla “vicenda” principale. Tra le innumerevoli entrées alcune citano l’epoca e il contesto della prima esecuzione dell’oratorio: nella prima parte arrivano in scena un violinista e un organista in costume settecentesco (citazione quest’ultimo di una famosa caricatura di Händel) a eseguire la Sonata offerta alla Bellezza dal Piacere; nella seconda compaiono un gruppo di monache e poi due chierichetti tutti in abiti di scena barocchi. All’inizio la sovrapposizione tra l’azione di sfondo e la vicenda cantata sembra casuale. Si capisce presto, però, che i registi costruiscono lo spettacolo sui contrasti e le convergenze tra piano visivo e musicale-narrativo che sembrano ancor più sorprendenti proprio perché all’apparenza fortuiti, generati come sono dal “caotico” andirivieni della varia umanità di un locale alla moda nella Parigi tra le due guerre.

Non tutto è sempre chiaro, non tutto immediatamente leggibile, non tutto sempre convincente, ma Flimm e Hartmann fanno in modo che la scena non sia solo un accessorio della musica. Nel suo svolgersi la “storia” vede i personaggi sempre più come protagonisti dell’azione, non solo in rapporto a qualcosa che accade alle loro spalle e/o loro malgrado: nella seconda parte, infatti, gli avventori lentamente si diradano, e la vittoria del Tempo e del Disinganno sul Piacere si svolge in un locale dove pochi camerieri fanno, significativamente, le pulizie di fine serata. Ed è proprio nella conclusione che la regia di Flimm e Hartmann gioca la sua carta vincente. La rinuncia della Bellezza al Piacere mondano è rappresentata come una cerimonia di monacazione: la Bellezza/Jean Harlow castiga il suo corpo sotto un abito da novizia e prega ormai sola e col volto a terra. Così, il lieto fine dell’oratorio diviene per i due registi lo spunto per svelare un aspetto inquietante e tristemente d’attualità di questa allegoria controriformistica: l’impossibilità di trovare una onesta mediazione alla radicalizzazione del conflitto tra un piacere sconsiderato e il più lugubre fanatismo religioso. Nella loro lettura Il Trionfo del Tempo e del Disinganno promette un futuro tutt’altro che rassicurante.


Un momento dello spettacoloİMarco Brescia & Rudy Amisano
Un momento dello spettacolo
İMarco Brescia & Rudy Amisano

Per quanto riguarda la parte musicale l’esecuzione è stata nel complesso di buon livello. Diego Fasolis è un esperto di questo repertorio e la sua direzione ha regalato momenti di grande intensità come nell’aria del Piacere Lascia la spina o, ancor di più, nella commovente scena conclusiva dell’oratorio, tutta condotta su dinamiche rarefatte e su un fraseggio ansimante. Tuttavia, la concertazione ha avuto non lievi difficoltà. Evidenti sono stati i problemi di intonazione dei violini del concertino nella Sonata d’apertura, così come nei passaggi virtuosistici di cui la partitura händeliana abbonda. Sarei stato tentato di attribuire questi difetti alla giovane orchestra barocca della Scala, l’unica accreditata nella locandina, se nel programma di sala non avessi letto che tra le prime parti c’erano anche membri dei Barocchisti (l’ensemble della Radiotelevisione svizzera fondato e diretto dallo stesso Fasolis) che, nei passaggi solistici loro affidati (specie nel solo d’organo della Sonata della prima parte), non hanno brillato per precisione. Anche in Italia i tempi delle orchestre barocche semi-amatoriali sono ormai passati da un pezzo; mi auguro che per le prossime produzioni sei-settecentesche si possa far di meglio, anche alla Scala.

Luci ed ombre anche per i quattro protagonisti. La prova migliore è stata senza dubbio quella di Sara Mingardo perfetta nel ruolo da contraltile del Piacere. La cantante sfoggia una voce sicura in tutti i registri, dal timbro caldo e omogeneo e, soprattutto, quella grande varietà di colori e fraseggi che l’hanno resa una delle interpreti oggi più ricercate nella musica barocca (e non solo). Martina Janková (Bellezza) non ha una voce altrettanto ricca, ma affronta con piglio sicuro la sua difficile parte, e la sua scena finale è poi notevole per il suo controllo dei pianissimi anche nel registro più acuto. Lucia Cirillo non è invece a suo pieno agio nella tessitura grave del Piacere: la cantante si impone in arie languide come Lascia la spina (e strappa qui un meritato applauso a scena aperta), ma non brilla in quelle che spingono la voce in registri poco grati, come nel caso dell’aria di bravura Come nembo che fugge col vento. Anche Leonardo Cortellazzi, altrove ottimo interprete del repertorio barocco (ricordo il suo magistrale Telemaco nel Ritorno di Ulisse in patria della Scala nel 2011, vedi recensione link), nel ruolo del Tempo accusa la tessitura grave e i numerosi passaggi d’agilità della parte.



Il trionfo del Tempo e del Disinganno



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