Il coraggio del dialogo è la rivoluzione Luomo nasce vecchio, poi pian piano diventa giovane, diceva Eduardo alla fine. Anche bambino potremmo aggiungere, nel senso evangelico (se non diventerete come bambini…), epperò nella parabola laica di Amore per Scimone-Sframeli e gli altri due attori bravissimi, e pienamente connaturati al gruppo. Bambini non nel senso di “rimbambiniti”, ma in quello di una conquistata libertà intima e sociale, di un ritorno a una (presunta) capacità dessere scevri dogni sovrastruttura. Su un palcoscenico spoglio dogni orpello, secondo lo stile magistrale dello scenografo Lino Fiorito, due tombe/letto con rispettive coppie di crocette/lampadine, e sul fondo profili di cipressi, a seconda della luce silhouettes o gonfiati o riempiti di linee. Due coppie di personaggi-attori, la prima in scena formata da vecchi coniugi sullorlo – alla lettera – della tomba (fig. 1), la seconda che invece irrompe, tra passato e presente, allinizio girando in tondo su un carrello di supermercato, dentro il quale apparentemente alla guida siede il Comandante dei pompieri, mentre laltro spinge di fatto il veicolo metamorfizzato anche da un faretto. Cosa hanno in comune le due coppie? Non lamore ma la conquista dellamore fra diversi, nellindole dei due coniugi; diversità intersoggettiva che accomuna la seconda coppia, aggiunta alla sua precipua, si scopre per gradi, omosessualità. Ma il sesso, che si manifesta nella difficoltà a “mettere la lingua in bocca” «come da giovani» da parte del marito alla già più liberata moglie (fin dal principio riesce a dire le parolacce, solo pensate in gioventù), e nella difficoltà del capo dei pompieri a riconoscersi e a riconoscere laltro nel terzo genere; questo sesso più alluso che praticato o detto, in scena, specialmente nella coppia gay (comè naturale trattandosi di personaggi vissuti in epoca che non è la nostra) diventa la spia e lo speculum di una difficoltà soprattutto a comunicare, tema chiave di tutto il teatro del Novecento e che prosegue nel secondo millennio anche in forme postdrammatiche. Che non sono tali in questo testo drammaturgico di Spiro Scimone, autore-attore del binomio messinese, dove lattore-autore dello spettacolo, il regista o il «distillatore» (come preferisce dirsi), è Francesco Sframeli. Infatti, la drammaturgia dellopera – che il primo non esita a definire come «scrittura» – ha un andamento per scene, o tappe, circolare o spiroidale, dal momento che ogni cerchio, descritto dal giro del carrello/carro dei pompieri attorno alle due tombe/letto centrali, costituisce un progresso verso la conquista dellamore e anche della morte. Una struttura «epica» piuttosto che postdrammatica, spartita con due «Buio»: il primo (cp p. 14) dopo che i «Vecchietti» si nascondono per cambiare, da soli, il pannolone, così come i due pompieri per compiere la «spalmatina»; il secondo (cp p. 26) segue «un lungo silenzio», e sancisce nel bacio riuscito – prima di coprirsi, entrambe le coppie, sotto le lenzuola – la fine dellopera. In relazione, ancora, alla struttura drammaturgica del testo e della sua messa in spazio, dopo la prima irruzione dei pompieri, le successive creano una sorta di collegamento fra le due coppie, attraverso la ripetizione e ripresa di parole, battute e concetti, fino a simulare una forma di dialogo a distanza – benché le due coppie finiscano per parlare luna con laltra – che fa evolvere entrambe le situazioni. Del resto questo Amore si distacca, anche rispetto ad altre opere teatrali di Scimone-Sframeli, dalla formula stessa dell“Assurdo” (per quanto letichetta possa significare) perché, al di là della concentrazione di spazio e di tempo, situazioni e dialoghi sono quotidiani, dun realismo sconcertante e provocatorio. Certo, cè la consueta tecnica della ripetizione di battute allinterno della coppia di “vecchi”, che provoca anche, comicamente, il riso, e al tempo stesso denuncia in quella reiterata dal marito – «Non me lo ricordo» – una carenza di comunicazione che affonda nel passato, dal momento che così risponde agli stimoli della moglie; la quale da parte sua intercala ossessivamente lappellativo «amore», e vorrebbe riprendere a vivere nel presente momenti di spensieratezza erotica della gioventù: rari forse, e fatalmente e traumaticamente (per lui) interrotti dallarrivo dei pompieri. Per smemoratezza di passione si è lasciato acceso il caminetto di un albergo, provocando un incendio, si è lasciato aperto il rubinetto del lavandino (durante il bacio rubato mentre ci si lava i denti), provocando linondazione della casa. Ma la paura dei pompieri – che puntualmente “spuntano” (la prima volta in scena) a interrompere il nuovo tentativo di bacio sollecitato dalla donna – è il sintomo o il “segno indizio” dellintroversione delluomo, resa da Scimone con una rigida compostezza di posture e di gesti, oltre che dallintonazione, cantilenante, messinese – valore aggiunto nello spettacolo rispetto al testo – con cui oppone la propria smemoratezza ai ricordi-stimoli di Giulia Weber. Per quanto riguarda la recitazione, eccellente di tutti sul piano paralinguistico (da ogni punto della sala grande se ne percepivano le parole), si tratta come il solito di mimica, gestica essenziali, coniugate con la rispettiva parte degli attori. Ho accennato alla staticità (apparente) di volto e di corpo, nelle varie posture, di Spiro Scimone, forse il più chiuso dei personaggi/emblemi, ma neppure Weber, la moglie, nella sua continua e pertinace provocazione a rompere il muro dellambiguous benign senile forgetfulness dellaltro, e soprattutto del silenzio, è dinamica: anziché abbandonarsi a una prevedibile aggressività, mentre stimola con le parole o sferruzza (allinizio seduta sulla parte antistante della tomba) o accudisce il marito con gesti misurati e teneri, certo mostra espressioni del volto più mobili, nel contesto di una mimica discreta. Del resto i movimenti della coppia sono limitati: i due vanno a nascondersi dietro la lapide della tomba, nello spettacolo, quando la donna aiuta il marito a cambiarsi il pannolone; poi si mettono sotto le lenzuola, tolte da un invisibile cassetto del letto/tomba e distese insieme su di esso. Laltra coppia, ovviamente, è più dinamica entrando e uscendo di scena, rigirata con e sul carrello/carro; inoltre i due si soffermano spesso a sinistra, davanti al pubblico, in una specie di prossemico primo piano (fig. 2). Anche loro, dopo essersi nascosti dietro la seconda lapide, per compiere la “vergognosa” «spalmagione» del sottoposto al suo capo, si distenderanno sul proprio letto/tomba, coprendosi con le lenzuola. Si tratta di una coreografia che, pur nelle varianti indicate, fa capo anchessa al meccanismo della ripetizione; che sarebbe comico (e in certi momenti lo è) se non assumesse via via il senso di un sottotesto che, dopo aver fatto aleggiare unatmosfera di tristezza, passa a suggerire una sua possibile, per quanto ultimativa, via duscita. Le due coppie, come accennato, hanno punti in comune: un disequilibrio interno per cui cè chi domina e chi è dominato. Nella coppia eterosessuale domina paradossalmente chi oppone ai tentativi di mutamento della donna (cecoviani giochi per riprodurre un passato non si sa quanto idealizzato) una resistenza passiva. Questultima si trasforma poi in accoglienza delle ragioni dellaltra. Nella seconda coppia (in ordine dentrata) domina il Comandante, anche lui però ancorato al rifiuto di prendere atto della propria omosessualità (parola, si badi, mai detta) che si è risolto nella ripetizione di atti di nascondimento imposti allaltro dietro lautobotte e nella rinuncia a vivere secondo il proprio stato e desiderio. Quindi, fino a quel dato momento – che costituisce l«avvenimento» del testo e della sua messa in scena con sonorità paralinguistiche – sono i personaggi statici a dominare su quelli potenzialmente dinamici. Dal punto di vista semantico, ma anche da quello drammaturgico e registico: i due coniugi “vecchietti” (tornerò su questa denominazione che appare solo nel testo) si muovono in una prima tappa sotto la spinta delle sollecitazioni della donna, ma il cardine è costituito dalla resistenza delluomo; la maggiormente dinamica coppia dei pompieri – la cui “irruzione” provocherà, come nelle strategie delle sintesi futuriste, “ribaltamenti” – è mossa dal sottoposto che guida il carrello, ma si tratta, come già accennato, duna guida apparente, perché è il capo dentro il carro a indirizzare, nella prima tappa, con la sua più metaforica resistenza il circolare percorso. Daltra parte, nella complessiva coreografia, il perno delle azioni iniziali è rappresentato proprio dalla coppia più statica, disturbata e poi circumnavigata da quella nel carrello mobile. Un perno asimmetrico rispetto al centro della scena, così come squilibrato è il rapporto allinterno di entrambe le coppie. Leffetto è quello duna sorprendente – a guardar bene – discordanza fra ruolo e azione, che si riscontra anche sul piano della recitazione: dalla mimica di Scimone, serio, lo sguardo quasi attonito (allinizio) a quella di Sframeli, viso più plastico, comunque nelle gradazioni di una mimica discreta (ancora allinizio). Nella prima tappa, dunque, il vecchio sposo e il vecchio capitano mostrano quella discordanza fra ruolo – in apparenza dominante – e azione – staticità del primo e simulato movimento del secondo – che non si conserverà nel corso di tutta la pièce; evadono così da ogni mimesi naturalistica qui e altrove, pur producendo conseguenze di non “assurda” quotidianità. Alla base il gioco: divertente (degli attori ma anche a tratti per il pubblico), da Lotman considerato, quello infantile, allorigine del teatro, da cui lo distingue la mancanza di finalità artistiche e la necessaria assenza dello spettatore. Qui chiaramente i due requisiti distintivi ci sono, anzi lo spettatore è indispensabile e coinvolto sebbene attraverso una specie siciliana di understatement (che chiarirò meglio) e benché, come anticipato, si riscontri nellintero spettacolo il trascinamento duna vena dingenuità propria dei bambini, che alla fine, in questa vecchiaia “non mimata”, diventa consapevole sincerità. Qual è il momento in cui savvia questo processo, l«avvenimento» che rivoluziona lintreccio? Quello in cui linterazione fra le due coppie – consistente dapprima nel moto di disturbo che ha traumatizzato il marito in passato e che si ripete nel presente – incomincia a trasformarsi in reciproca integrazione. Allapparire dei temuti pompieri siamo ancora nellambito duna carenza di vera comunicazione in entrambe le coppie, anche se il marito si è fatto convincere dalla moglie a tentare il bacio in bocca, anche se il Comandante ammette che non cè più bisogno di spegnere «tutte le fiamme». Non a caso nei passaggi dallazione della prima coppia in quella della seconda le tappe sono segnalate e scandite dalla replica minimamente variata della battuta finale dei vecchi sposi da parte dei vecchi pompieri. Daltra parte, la ripetizione si attua allinterno di ogni coppia denunciando piuttosto situazioni di stallo, alienanti. Addirittura lappellativo ripetuto come uninteriezione – “amore” appunto – nelle frasi della moglie rivolte al marito, costituendo anzi lincipit dellopera – «Amore. (pausa) Amore» –, assume un significato contrario. Ma la svolta o il suo “avvio” coincide con quella drammaturgica e scenica in cui – dopo la confessione del Comandante al Pompiere di aver sofferto anche lui «come un cane» per il nascondimento della loro relazione, ritmata dalla replica verbale «perché non me lhai mai detto?!» – le connessioni fra le due coppie non sono semplici ripetizioni vocali ma imprimono un andamento evolutivo al rapporto interno di entrambe. Dal momento in cui proprio il Comandante pronuncia consapevolmente la battuta secondo la quale gli altri due hanno bisogno e diritto allintimità, prefigurando anche il proprio diritto, abbandonato il carrello, i due pompieri amanti sdraiandosi sulla tomba/letto come gli altri due, diventano non solo speculari ma si corrispondono nella reciproca prossemica – il capitano guarda il marito etero – mentre si realizza finalmente il vero dialogo intersoggettivo ovvero lamore dentro le coppie, e forse fra le coppie, di cui gli exempla possono “rappresentare” un monito sociale non moralistico ma, perché no?, morale (fig. 3). In limine certo, come prefigura anche Montale, giacché la nostra epoca non può suggerire happy end; il teatro stesso, sotto forma epica o postdrammatica, può realizzare soltanto unipotesi di catarsi – in punto di morte – che, nella sua contemporanea ambiguità, attivi la coscienza dello spettatore. Prospettive da vicino e da lontano In proposito, il rapporto con lo spettatore – nel teatro di Scimone-Sframeli, e non solo in Amore – esige a mio avviso una prospettiva “da vicino”; pur sopportando anche quella “da lontano”, per certi aspetti che dirò. Da vicino, perché in genere si tratta di scenografie essenziali (non minimali) concrete ma dotate di oggetti metaforici – come quelli dello spettacolo finora preso in esame –, in parte enucleati e variati dalla luce: colore e intensità ne cangiano il disegno (qui i cipressi su un fondo che a tratti appare marmorizzato). Dunque tale genere di scenografia è più apprezzabile se vista a distanza ravvicinata; tanto più succede per la recitazione degli attori, pochi, per cui saffida assai alla mimica e alla prossemica, sia reciproca sia nei confronti del pubblico. In Amore, sè visto, le due tombe/letto, appunto oggetti metaforici, sono poste quasi in proscenio in modo che uno spettatore vicino possa coglierne i particolari: di quando in quando le crocette/lampadine sulle lapidi/testate paiono accese dagli attori-personaggi e scandiscono il ritmo con funzione anche sintattica; contemporaneamente il carrello di supermercato simula il carro dei pompieri con laggiunta del faretto intermittente. Per tornare alla recitazione: da vicino si apprezza la “quasi” immobilità del volto di Spiro Scimone (quel “quasi” è importante per le piccole mosse fisiognomiche nel quadro iniziale duna perfino ottusa impassibilità), la mimica discreta della Weber, il ritmo del suo sferruzzare. A maggior ragione lo spettatore non distante recepisce le espressioni contrastive di Sframeli/Comandante apparentemente più fermo nel viso rispetto a Casale/Pompiere, dal «viso mobile» eppure antinaturalistico. Si è visto del resto come questi tratti emergano specialmente, grazie alla regia, quando il carrello sosta davvero in proscenio, sulla destra, fino a fare raggiungere ai volti il primo piano. Ancora, meglio si apprezza la mimica quando, grazie a effetti illuminotecnici, cè la svolta nellintreccio che incide sullespressione degli attori, di quelli “in apparenza” immobili: più rilassato il volto di Scimone, che si concede anche un sorriso, alla lettera illuminato (per quanto non si usi banalmente il riflettore a uomo) quello di Sframeli, che riesce a comunicare con il minimo sforzo (apparente, perché ci vuole molto impegno) la meraviglia, conseguente a una specie di auto-rivelazione (figg. 4-7). Da lontano forse si apprezzano di più i giochi coreografici, dei quali ho già detto, importanti ma non basilari per comprendere il sottotesto dello spettacolo (che infatti qualcuno non ha recepito); il suo dinamismo è interiore, e trova riscontro anche nella scansione dei silenzi, che sono iscritti nel testo (mediante “pause” didascaliche) ma vanno recitati: «Come si fa a tenere una pausa durante la recitazione? Ecco il problema della scrittura della pausa, del silenzio: si deve creare una tensione fortissima, qualcosa che riempia questa pausa. Bisogna far crescere sempre più questa tensione, sennò crolla tutto. Devi creare una tensione con lo sguardo, perché nel pensiero la battuta deve continuare a esserci. È questa la capacità attoriale». Altrimenti – come diceva ancora Eduardo – dopo un po il pubblico pensa: «embè?!». Il silenzio, così, è parte integrante della stessa sintassi del discorso: lo struttura e lo esagera, dando corpo (non solo qui) allintero spettacolo. Da lontano si apprezza – da parte degli intenditori ma anche dei duri dorecchio – la già accennata capacità paralinguistica degli attori, le cui parole, che sono preziose come i silenzi, arrivano a tutti, vicini e lontani. La controprova di quanto osservato si ha ri-vedendo lo spettacolo in una videoregistrazione – cosa che ho fatto dopo la scrittura di questo saggio – come spesso capita in epoca postmediale. Ma appunto ho scelto di accostarmi al video soltanto in seguito al tentativo di analizzare Amore sulla base della mia memoria recente di una messinscena ormai collaudata e assodata, con lausilio di foto di scena che si sono dimostrate più attinenti allevento performativo della cosiddetta registrazione; la quale non è mai tale, sia che si tratti di un film dautore sia che provenga da una telecamera amatoriale o occasionale. Ebbene, se la ripresa può funzionare abbastanza, almeno come tracciato e strumento didattico, per uno spettacolo di ampie proporzioni e scenografia complessa, oppure per una performance dattore solista (come i video di Mistero buffo del Fo anni Settanta, dove però è compreso anche il pubblico), risulta del tutto inidonea a restituirci – come dire – lessenza, lo spirito, persino lapparenza duno spettacolo stilizzato e al tempo stesso appassionato di pochi attori che giocano come qui – e come nella prima trilogia della Dante – con il proprio corpo anche crudelmente. Nel caso dellaltra siciliana sottoponendolo a disarticolazioni espressivistiche, nel teatro di Scimone-Sframeli, e in questo particolare Amore, a tese immobilità o movimenti apparentemente semplici, che si focalizzano su gesti “espressivi” della faccia, segni indiziali e sottotestuali. Non si sente la mancanza degli effettivi primi piani, che anzi ci sono in video, ma di quella concordanza di viso, corpo, azione, in rapporto allo spazio-tempo, che lo spettatore in carne e ossa recepisce nell“attimalità” della messinscena, ricevendo da attori in carne e ossa segnali creativi di reciproco calore. Ciò quindi che, da lontano o in video (per motivi anche diversi), può apparire statico, dal vivo e da vicino regala uno speculare e speciale effetto di dinamismo intimo e collettivo. Testo, contesto e lingua teatrale Ma ritorniamo alle parole che nello spettacolo esaminato – ho detto prima – sono preziose come i silenzi; anche perché nel silenzio risuonano, là dove il secondo tipo di eloquenza scenica non è addetto a scandire lazione e a esprimerne il senso. Nel mondo dei diversi scimoniani – anche e proprio quando rappresentano, come la coppia eterosessuale di “vecchietti”, la banalità – non ci sono né musiche né rumori, se si esclude quello dei passi sul piancito ligneo del palco. La “musicalizzazione”, che insieme alla “simultaneità” distingue il nostro teatro postdrammatico per Lehmann, è implicita nel ritmo delle parole che sembrano estratte da abissi di silenzio. In questo Amore «alle continue ripetizioni interne ai dialoghi, a tratti cantilenati, si affiancano i lunghi silenzi. Sono proprio questi a dare corpo a tutto lo spettacolo. Ogni momento in cui la vecchietta cerca di fare tornare alla mente al marito le esperienze passate è seguito da un silenzio e da sguardi fissi che raccontano molto più di tante parole». Tutti i personaggi di Scimone-Sframeli sono per lo più parchi di parole, sembrano privi di eloquenza teatrale, al punto di ripetersi o ripetere le parole degli altri, qui e altrove; è il tratto che ha fatto assimilare la coppia di attori-autori messinesi al teatro di Beckett (ma su questo punto ritornerò per metterlo in discussione). Cè un altro aspetto del loro teatro che “apparentemente” lo distingue dal postdrammatico; sebbene la “musicalizzazione” mediante le parole non possa dirsi certo assenza di musica, si tratta duna scelta diversa. E per questa via si arriva al testo, quello scritto da Scimone, dal quale parte, differentemente dalla maggioranza dei teatranti contemporanei, anche quelli che appartengono al filone doro della nuova drammaturgia siciliana: Scaldati, la Dante, Enia… Tutti attori-autori per i quali il testo scritto in teatro rappresenta un punto di arrivo, semmai. Per Scimone no, egli anzi valorizza – in interviste rilasciate nel tempo – il ruolo dell“autore”, pur facente parte duna triade interconnessa: autore-attore-spettatore. Comè confermato dal suo gemello diverso, Francesco Sframeli. Né potrebbe essere altrimenti, visto che luno, lautore, scrive sul proprio corpo dinterprete di sé stesso (non solo in quanto attore) e su quello prioritariamente dellaltro, che dopo le “magistrali” regie di Cecchi si è messo a “distillare” i testi scritti dal suo compagno di ditta. La bellezza del teatro è proprio questa: la scrittura muta nel tempo in base a ciò che avviene in scena. Quello che scrivo non ha mai senso e non è mai compiuto, poi in scena diventa testo teatrale. Senza lattore non può esistere il testo teatrale. Scritta una storia, inseriti i personaggi, è facile modificare. Il testo teatrale ha bisogno invece dellattore e dello spettatore per apportare le giuste modifiche. Ma quei testi nel loro insieme diacronico sembrano distinguersi anche su un altro versante dal gruppo variegato della nuova drammaturgia siciliana. Dopo Nunzio e Bar, a partire da La festa (fig. 10), Scimone non scrive più in siciliano, come invece hanno fatto e continuato a fare, con mille distinguo, altri. Eppure tutti quanti, parlando del proprio linguaggio drammaturgico-scenico, lhanno chiamato «lingua teatrale»; formula che fa emergere felicemente la radice attorica, forse anche antropologica trattandosi appunto di siciliani (come i napoletani che rappresentano un altro filone doro della nostra teatralità),duna lingua che diventa scrittura scenica. Può essere il palermitano stretto e lirico di Scaldati, o il diverso palermitano mescolato allitaliano o ad altri dialetti del sud (anche il napoletano e il pugliese, con escursioni in francese) nella Dante, introiettando le parlate degli attori accolti nella Sud costa occidentale, si tratta di simulazioni artistiche, come nel messinese del primo Scimone. Dante e Scimone che hanno un punto di contatto, nonostante le apparentemente diverse (per ora) scelte linguistiche, nellexcursus biografico-artistico che vede anche il duo messinese uscire prima dallIsola (lAccademia a Milano, la dimora a Roma) e poi dai confini nazionali, per il successo conseguito allestero, specialmente in Francia, dove La festa è stata tradotta e rappresentata alla Comédie Française (2007). Daltra parte, Il cortile è stato prodotto, oltre che dalla compagnia Scimone-Sframeli, dal Kunstenfestivaldesarts di Bruxelles, dal Festival dAutomne de Paris, dal Théâtre Garonne de Toulouse. Dalle contraddittorie dinamiche della nuova drammaturgia italiana emergono le difficoltà di un «Sud vitale», specialmente siciliano, che è spesso costretto a evadere per trovare spazi e finanziamenti che consentano agli autori di spettacoli di mostrare le proprie produzioni, trovando opportunità creative. Di conseguenza, il cosiddetto italiano di Scimone non solo è una lingua teatrale, ma forse nasce dal puntiglio di rendere teatrale una lingua che tanto teatrale non è. Si potrebbero – agendo da linguisti – rintracciare costrutti siculi nelle parlate italiane dei suoi personaggi, ma mi interessa di più – da storica del teatro – osservare come la phoné diventi distintiva nel rapporto fra copione e spettacolo. Infatti, se i silenzi sono inscritti attraverso le didascalie («pausa»), nel testo-copione non ci sono indicazioni relative allinflessione linguistica delle battute dei personaggi di Amore. È il tratto che più divarica lo scritto dal recitato, per cui – anche per Scimone – lattore “fa” il proprio linguaggio, coniugandolo con il versante semantico che lintera azione deve variamente suggerire. Per esempio, linflessione messinese con cui Scimone ripete la battuta «Non me lo ricordo» conferisce alla resistenza passiva del personaggio il ritmo duna cantilena che sembra invariabile; in contrasto con la lingua scandita e netta della toscana Giulia Weber (priva dinflessioni), che trova riscontro nei lineamenti aguzzi e forti dellattrice. Meno calcata lorigine messinese nella paralinguistica di Francesco Sframeli (che si limita ad aprire certe vocali quando esprime stupore) e soprattutto di Gianluca Casale, che rispetto allaltro personaggio tende piuttosto a esprimere passione e devozione. Fuori dallassurdo Si giunge così allultimo punto del contendere, rispetto a una vox populi di studiosi e critici che nel teatro di Scimone-Sframeli vedono un epigono del mal detto «teatro dellAssurdo», e in Scimone autore, come perfino in Scaldati, un «Beckett siciliano», sebbene lo stesso Sframeli a proposito dei silenzi e i non-detti abbia affermato: «attenzione a Beckett. I siciliani sono beckettiani»; non tanto, a mio avviso, per instituire un rapporto quanto allo scopo di diminuire linfluenza del grande scrittore irlandese, stabilendo piuttosto una similarità tra i caratteri delle due popolazioni insulari. Indubbiamente la coppia ha suoi punti di riferimento culturali: Pinter centra poco secondo me, forse per la tematica di un «teatro della minaccia». Beckett e Ionesco di più. Penso ai corpi marchiati, sbilenchi che popolano il teatro dei due messinesi: Peppe infermo, con una gamba fasciata perché (afferma) un topo viene a rosicchiargli il piede (in Il cortile); X, Salvatore Arena nello spettacolo, sta carponi (La busta). Certe creature spuntano allimprovviso dallimmondizia, lontano riferimento alle pattumiere di Finale di partita: ancora X esce da una specie di scarpiera (ritagliata nel fondale del palcoscenico); Uno abita sotto terra, anzi sotto i rifiuti del cortile; finché, in Giù, il palcoscenico è occupato dallenorme tazza di gabinetto immaginata da Lino Fiorito, in cui sono incuneati il Figlio, Don Carlo il prete scomodo e il sagrestano. Eppure alcuni nomignoli dei personaggi echeggiano piuttosto lanonimato siculo-espressionistico sansecondiano, come la Bruciata e Senzamani in Pali. Un discorso analogo si potrebbe fare per le coordinate spazio-temporali, in un percorso che sallarga dalla squallida stanza di Nunzio e dal retrobottega “bidimensionale” di Bar allinterno parodicamente famigliare di La festa (dove la coppia si complica dun terzo attore, Ragnanese appunto, nella simulazione sempre meno realistica duna famiglia, dove la Madre è incarnata dallo stesso Scimone), fino alla discarica di Il cortile (dove gioca ancora una terna di attori, Peppe, Tano, e lanonimo Uno «che ha bisogno daiuto») o al luogo magico e al tempo sospeso di La busta in cui si muovono quattro personaggi-attori (Il Segretario, Il Cuoco, X e Un Signore, capro espiatorio, ancora Sframeli, a causa duna agnizione finale in cui X, Scimone, si rivela latteso e misterioso Presidente). Il tempo in questo teatro diventa ritmo pre-codificato, sia nellalternanza sincopata delle battute, sia in quella dei quadri, dove la tensione si stringe e sallenta, costringendo lo spettatore a una specie di coinvolgimento consapevole. Ciclicità anziché diacronia, tale da evocare, nella ricorrente costrizione degli ambienti, un passato misterioso (talvolta spaventoso) mentre si prevede un futuro più che precario, motivato da unattesa mai soddisfatta: il sogno sempre rinviato per Nunzio di «u viali alberatu, a unni cerunu i femmini chi minigonni», cioè il viale delle prostitute; diventare proprietario di un bar per Nino in Bar; trovare una risposta al mistero della busta mandata a Un signore in La busta; trovare soccorso per Uno in Il cortile. Spesso i titoli brevi delle pièces non sono che leco del nome (proprio o impersonale) di un personaggio, delloggetto di cui si sente (come nelle fiabe) la mancanza o si vuole scoprire il senso, della circoscrizione di un ambiente; anchessi costituiscono una ripetizione. Tuttavia alla registrazione apparentemente impassibile (comico-tragica) di uno straniamento esistenziale e perfino metafisico in Beckett, si aggiunge e talvolta si sostituisce, nel teatro di Scimone-Sframeli, il sentimento di una esclusione sociale. I personaggi di Scimone sono isolati nella loro degradata condizione e “disperatamente” inermi di fronte a un mondo esterno violento che cerca di ingannarli, derubarli: in Bar cè la figura di Gianni, che non si vede mai, probabile mafioso inteso a sottrarre denaro a Petru, con il gioco. In Giù, dalla tazza del gabinetto in cui è finito (eco ingrandita del water che rischiava di fare da sfondo alla foto di Nunzio) il Figlio non vuole risalire: “laggiù” non deve più preoccuparsi di trovare un lavoro, dinventarsi un futuro: «no papà, non voglio più tornare fuori! Adesso che sono finito nel cesso, papà, io non voglio più tornare fuori… Io, ormai, voglio stare qui!… Io, ormai, voglio vivere qui!». Dal punto di vista “alto-basso”, se alla fine di Pali i pali, sui quali si arrampicano il Nero e lAltro per raggiungere la Bruciata e Senzamani possono simulare una risalita dallimmondizia («Sembra il mare, da qui, la merda»), un movimento allinverse connota Giù: anche il Padre, alla fine, non solo si cala dentro la tazza del gabinetto ma tira lacqua. Nel penultimo dramma il rifugio funziona, paradossalmente, come prigione, anzi luogo dannientamento morboso conseguente a una fetida immersione. Eppure in Amore, lultima opera, la disposizione in orizzontale e in parallelo delle due coppie – dopo l«avvenimento» – evade dalla simulazione spaziale “alto-basso”, nel quotidiano dun mondo stereotipato ma al tempo stesso avvilente e costrittivo si può trovare, forse, una soluzione che simpernia sulla resilienza, seppure in limine. La banalità quotidiana raffigurata dal mondo di Beckett nasconde ma lascia trapelare a tratti una realtà retta dalla sottotestuale eppure ripristinata legge della giungla, per cui la minaccia è latente ma inderogabile. Spiro Scimone e Francesco Sframeli ripetono costantemente che il loro teatro nasce da un bisogno, dalla necessità di interrogarsi e di interrogare chi li vede e ascolta sullo stato di abbandono, dincomprensione reciproca, di quel mondo che schiaccia (sia in senso proprio che in senso figurato) i loro personaggi. Come dice Scimone, il comico amplifica il drammatico perché fa emergere una «vacuità apparente»; dentro e dietro il comico della situazione è in agguato un contesto ambientale – materiale o simbolico – squallido, e delle motivazioni che finiscono con paralizzare il riso. In Giù, limitazione del gattino da parte del sagrestano (nello spettacolo Salvatore Arena), adagiato in grembo al “padre” (Gianluca Cesale) provoca lilarità dello spettatore fino a quando non capisce che quellassetto posturale è stato – per molti anni – fonte dumiliazione per il chierichetto vittima dabuso da parte del prete. Ma nel complesso la drammaturgia di Scimone si distacca da quella beckettiana – e con ciò non voglio certo diminuire la grandezza dellirlandese – per il senso che attribuisce al dialogo frantumato dalle ripetizioni; la ripetizione non è diretta verso un esaurimento, non è (quasi mai) una parola che sincanta. È piuttosto una parola-eco, nel peggiore dei casi, anchessa utile a riempire esistenze senza speranza, creando legami vitali con qualsiasi cosa o persona. Perciò è necessario essere prudenti nellevidenziare linefficacia della parola come rapporto di forza in Scimone. Si risale forse per tutti, Beckett, Ionesco, Pinter, Eduardo De Filippo – a maggior ragione per i siciliani Scimone-Sframeli – a Pirandello, alla sua crisi del dialogo rappresentata attraverso una drammaturgia quasi “epica” specialmente nei Sei personaggi in cerca dautore, titolo immediatamente adottato e fagocitato dal teatro europeo e poi mondiale. Crisi intersoggettiva che si ripercuote sulla disarticolazione del dialogo stesso mediante monologhi essenziali innestati in apparenti scambi di battute. Peter Szondi fa riferimento a Beckett soltanto una volta nel suo libro e tratta En attendant Godot come uneccezione; una specie di dramma-conversazione, dove però il dialogo non arriva mai ad assumere la forma davvero conversazionale, producendo quindi un dramma della negatività della conversazione. In più i personaggi sono confinati in uno spazio ristretto, soluzione drammaturgica e scenica che riconduce a un altro «tentativo di salvataggio» del dramma moderno individuato da Szondi nei testi teatrali dellangustia e dellesistenzialismo: dove i personaggi «sono costretti ad abbandonare lisolamento e a ritrovare il rapporto interumano». Ma, anche in tale prospettiva, Beckett porta allestremo la situazione, negando così ai suoi personaggi qualsiasi possibilità di rapporto intersoggettivo, inscenando diverse solitudini. Quindi per lirlandese, a tutti gli effetti, si può parlare di incomunicabilità: lincomprensione reciproca è totale ed estesa a ogni personaggio, il quale sembra, oltretutto, quasi sempre ignaro della propria condizione. Invece, specialmente in questo Amore – ma il discorso vale anche per il resto della produzione – non solo le parole hanno un senso e possono essere usate come armi di difesa o di stimolo; dai punti di riferimento culturali europei questa drammaturgia si distacca per il senso che attribuisce al dialogo frantumato dalle ripetizioni, reso aleatorio dalle metafore (il bacio dentro la bocca per intendere il sesso), specialmente nelle frasi scambiate fra i due pompieri (spegnere il fuoco, la “spalmagione”) visto che si tratta duna coppia di omosessuali non dichiarati (anche se di nascosto praticanti). Anzi nei pompieri possiamo riconoscere una citazione evidente dal personaggio ossessionato dal mestiere eppure lunico destabilizzante di La cantatrice chauve ioneschiana; per quanto «la scelta di identificarli specificatamente come una coppia di pompieri» sia parsa qui «simbolica, dal momento che questi sono atti a spegnere incendi, esattamente come i due amanti (il Pompiere e il Comandante) sono stati costretti a reprimere la loro relazione amorosa, a nasconderla, a spegnerla per tutta la vita». Manca – rispetto a Beckett – la completa dissoluzione del dialogo attraverso, appunto, il nonsense delle parole e – rispetto a Ionesco – la relativizzazione dogni concetto o idea. Mancanze che si rivelano pieni e non vuoti, per quanto la morte sia in agguato attraverso il buio incombente, limmobilità dei due corpi e dei loro doppi sul letto/bara anche quando dovrebbero fare allamore. Altri cenni allo spettacolo: catarsi finale? Daltra parte, non cè mimesi naturalistica – tranne lo sferruzzare della donna, ma sullorlo della tomba – in alcun aspetto della rappresentazione; a partire da unaltra discordanza fra copione e messinscena. Nel testo scritto i personaggi sono indicati, anonimamente, come «Il Vecchietto» e «La Vecchietta», «Il Capitano» e «Il Pompiere»; tutti sono detti «vecchietti» nella didascalia iniziale. Eppure nessuno degli attori imita gesti o posture tipiche della vecchiaia; tutti sono ben lontani dagli stereotipi fisici della senilità. Anzi, specialmente Giulia Weber mostra unagilità particolare che fa capo, forse, ai suoi studi di danza contemporanea e ginnastica acrobatica. Non a caso quando una degli stagisti di Scritture sulla scena ha chiesto agli attori, nellincontro che ha preceduto lo spettacolo (avendo letto solo il copione), come hanno fatto a immedesimarsi nei personaggi “vecchi”, tutti hanno risposto – ma in primo luogo Sframeli – che la vecchiaia è stata affrontata dallinterno: situazione dellanima, simbolo, senza alcun riferimento a posture mimetiche. Lanonimato e le sue connotazioni, come già detto, sono anche il frutto duna tradizione che risale al teatro espressionista mitteleuropeo, discende attraverso i “personaggi” pirandelliani a Beckett e a Ionesco, assumendo connotazioni diverse a seconda dellepoca e della personalità degli autori. Qui viene a testimoniare, anche mediante la discordanza fra ruolo e attore, la portata unanimimistica – per non dire universale – dei personaggi in situazione. Nel finale si riscopre appunto, da parte di questi personaggi, il senso duna giovinezza limitata da paure e pudori, e la via per cambiare questo senso alla ricerca di una nuova libertà intima e sociale. È la parola comunicante lo strumento da suonare per intraprendere la nuova via (assolutamente in controtendenza rispetto a Beckett). Cè tuttavia da chiedersi se questa scoperta in limine possa assumere una portata catartica. Dato per scontato che la vera catarsi – quella del dramma antico – non sia più possibile in epoca moderna e contemporanea, al di là di Brecht, cè nella scena delle due coppie speculari, adagiate su un letto che è davvero bara, un sentore catartico dorigine siciliana (penso ancora al pur diversissimo teatro della Dante), là dove lisola diventa metafora del mondo e scopre le sue radici antropologiche e culturali. Alla paura e alla pietà saggiunge nellepilogo di questo Amore, attraversato dallumorismo sulfureo dei siciliani, una nota di tenerezza.
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