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Anna Barsotti

Anna Barsotti, Donna di scena, donna di libro. La lingua teatrale di Emma Dante (II parte)

Data di pubblicazione su web 09/02/2008
Emma Dante

Questo bambino è santo... Carnezzeria


Dalla famiglia allargata tipica del Sud, di mPalermu, con i suoi legami interni insondabili ma qui priva della figura paterna, si passa al nucleo ristretto, esclusivamente fraterno, di Carnezzeria. Il mare s’è attraversato ma per celebrare una festa funebre, un matrimonio per finta che culminerà in un suicidio alla rovescia.

Carnezzeria è il più traumatico dei drammi della trilogia, il più grottesco (nel senso di tragi-comico) a partire dalla figura della sposa-sorella, candida ma con la croce nera sulla pancia gonfia d’una vita destinata a non nascere. All’origine di questa figura che oscilla fra catatonia e frenesia c’è sicuramente – come è stato notato – la sposa meccanica di Kantor[42], ma se ne approfondiamo le radici drammaturgiche isolane c’è anche la Bella addormentata di Rosso di San Secondo, il suo espressionismo fantastico-regionale[43]. Manca qui, però, il brigantesco ma cavalleresco Nero della Zolfara; le tre figure maschili che circondano la pupa di carne sono appunto fraterne ma sadiche amanti: nessuna salvezza è possibile per Nina, ’a scimunita, il cui sbadiglio iniziale finirà soffocato.

Anche l’ultimo testo edito di Carnezzeria allunga molto la storia rispetto al primo, le battute si moltiplicano e si distribuiscono, le scene a soggetto descritte dalle didascalie si trasformano in azioni e parole. Dal punto di vista linguistico il rapporto italiano-dialetto appare rovesciato rispetto a mPalermu: se nella prima commedia – nello spettacolo anche per il ritmo concitato della recitazione – macchie di lingua, ed in momenti pieni di senso, sporcavano il palermitano, qui, al contrario, macchie dialettali sporcano una lingua molto parlata ma rielaborata scenicamente. A ben guardare, bisogna giungere all’episodio delle fotografie (depositarie di un passato che porterà appunto a traumatiche rivelazioni)[44] per trovare battute in dialetto, al tempo stesso espressione e copertura – di fronte agli invitati italofoni – d’una verità atroce. Ignazio: “Picchì ’unn’è ’a verità, Paride? ’Unn’a sapèmu tutti ’a verità?” (ed. 2007, p. 106): battuta che manca nella prima edizione a stampa, ma non nell’inedito[45], come molte altre.

Il testo si struttura in alcune stazioni senza titolo: entrata della processione (dalla sala) sul palco e suo allestimento; risveglio di Nina sulla sedia-trono, sua meravigliata scoperta degli spettatori-invitati ma, anche, sua impuntatura per tornarsene a casa; teatrino improvvisato dai fratelli per divertirla e distrarla; monologo di Nina in proscenio o allocuzione al pubblico per mostrare le fotografie; diverbio fra Toruccio ed Ignazio a proposito della foto incriminata, mentre Paride cerca di mettere pace imponendo la sua verità; gioco di tira e molla della fotografia tra i due fratelli minori, troncato dal maggiore dopo la frase-schiaffo di Ignazio “Toruccio facciamo cavalluccio!”; scena che svela il primo stupro famigliare, di Toruccio bambino da parte del padre; lite violenta fra Ignazio e Toruccio, finché Paride non si rivolge contro Nina, momentaneamente messa da parte ma colpevole d’essersi impadronita delle foto; scena di violenza sadica dei tre “sacerdoti” nei confronti del capro espiatorio; contorsioni di Nina, la cui pancia, colpita dal calcio di Paride, improvvisamente si muove come corpo a sé; danza delle pellicce per distrarre la donna dal parto intempestivo, che si muta in stimolo d’eccitazione erotica per i maschi; la sorella indossa una pelliccia e si trasforma in puttana; seconda e fondamentale rivelazione nel monologo di Nina, che racconta candidamente d’aver dormito con Paride, e a volte anche con Toruccio ed Ignazio; Nina inchiodata al palco dal velo nuziale, lasciata sola dall’uscita, uno per volta, dei fratelli, s’impicca all’incontrario.      

Confrontando – ancora – l’edizione 2003 con l’inedito del 2005 e con l’edizione del 2007 si nota subito come le due scene iniziali (allestimento del palco con candelotti elettrificati e festoni di lucette, risveglio di Nina) si amplino notevolmente nell’ultima stampa sia nei riferimenti scenografici delle didascalie sia nelle battute (il gioco delle coppole, la corsa della fantomatica motocicletta...); così come s’allunga il monologo di Nina (“Noi siamo di Roccapalumba”) mentre lei incomincia ad estrarre dalla fascia (che le protegge il pancione) le foto che illustrano il passato della famiglia, ma divaga sul viaggio compiuto in traghetto ed accenna per la prima volta ai gabbiani (di cui Paride fa il verso). Nello sfogliare le fotografie, insieme ai fratelli, emerge a partire dall’inedito qualche frase in dialetto: “Talè ccà!” (Paride, a proposito della festa di carnevale); “Vincivi ’a coppa. T’u ricordi Paride?” (Toruccio); “Se, ’u coppulone! [...] Vincisti ’u coppulone!!!” (ined. 2003, p. 5, ed. 2007, p. 89).

Quando la risata sfottente di Toruccio introduce la foto fatale – “Ignazio vestito da femmina!! Con il vestitino rosa e il fiocchetto!” (ed. 2003, p. 29, ined. 2005, p. 6 e ed. 2007, pp. 91-92) – si scatena una discussione fra i maschi: “È Graziella!” (Paride), “È Ignazio!” (Toruccio), finché non esplode, a specchio, la contro-risata di Ignazio: “È Toruccio!” che smorza violentemente ogni allegria, mettendo il dito nella piaga. Qui, mentre nella prima e nella seconda versione Paride reagisce parzialmente in dialetto (“Mezz’ora pi sparari sta minchiata”, p. 29; “E tu ci metti mezz’ora pi sparari ’sta minchiata”, p. 7), nell’ultima traduce “e dopo mezz’ora spari questa stratosferica minchiata” (ed. 2007, p. 93), colpendo in palermitano piuttosto la sorella (“’unn’u sai che tò soru è menza scimunita?”, ibid.)[46]. Intanto Toruccio si inalbera sempre di più; la tirata offesa del giovane è quasi tutta in dialetto nel primo testo edito:

Picchì su un sugnu addiventato surdu [...], haia a fari un ragiunamentu! Quindi, se ancora l’otite perforante un mi vinni, e un mi vinni picchì ci sentu buonu, e se u morbo i parkinson un mi fa tremari picchì sugnu fermu comu na fogghia in autunno, mi pare di avere sentito ca iddu mi rissi ca sugnu fermu comu na i fimmina, ca ci haiu u vestitino rosa, u fiocchetto, e quindi a logica vuole ca iddu mi dissi ca sugnu un finocchiu! (ed. 2003, p. 29);

mentre nell’inedito, oltre ad articolare diversamente il discorso, appare nuovamente tradotta, conservando in palermitano, in modo espressivo, l’ultima battuta rivolta direttamente a Ignazio (“chi mi dicisti?”), come del resto con leggere varianti nell’edizione del 2007: “mi dicisti chi ci haiu ’u vestitino rosa, ’u fiocchetto e chi sugno vistùtu ’i fimmina. Quindi a logica vuole ca mi dicisti ca sugnu un ’finocchiu’ ” (p. 96), dove scompare però l’allocuzione in forma fatica.

Segue il gioco della fotografia che Ignazio finge di porgere a Toruccio, sottraendogliela, governato da Paride che dapprima lo asseconda, per alleggerire la tensione, con una sola battuta, e una frase, in dialetto a partire dall’inedito: “Amunì, ’gnazianeddu, dacci sta fotografia, va si no si metti a chiànciri”,  “[...] Toruccio! Amunì, rilassati! ’Un ci pinzari” (ed. 2007, p. 98). Ma quando Ignazio (schioccando la lingua) colpisce il fratello con la battuta-filastrocca riecheggiata incoscientemente da Nina (“Toruccio facciamo cavalluccio!”) lo stesso Paride con un violento scappellotto [...] gli fa volare la coppola: “Pìgghiati ’a coppola” (ibid., p. 99). L’ordine in palermitano del maggiore che fa le veci del padre (anche fonicamente nella successiva scena onirica) accomuna le tre versioni, sebbene la scena appaia ampliata nell’inedita e nell’ultima, come spesso avviene, attraverso ripetizioni o integrazioni di battute fra i personaggi.

Dal momento di grande sospensione (sottolineato solo nell’inedito) emerge in un tessuto sonoro di voci e rumori la scena che svela il primo segreto della famiglia “Cuore” (ined. 2003, p. 10; ed. 2007, p. 100). Toruccio è in proscenio, da solo. Paride e Ignazio ballano insieme (sulla destra, nello spettacolo). Nina si siede (sulla sinistra) e secondo la didascalia (già presente nella versione inedita) dopo aver cacciato fuori una tetta allatta il figlio non ancora nato (ibid.). Nello spettacolo, in realtà, Nina sullo sfondo solleva sulle cosce la gonna da sposa ritmando un processo-rito mastubatorio.

È anche il primo avvenimento del testo, che converte l’azione in incubo memoriale, in flasch-back stilizzato ma, ciononostante, di forte impatto emotivo, trasformando il seguito della storia in una successione di violenze. Se la prima parte dello spettacolo ha un andamento ritmico a strappi, per i ripetuti tentativi d’abbandono dei tre uomini che ogni volta (con meccanismo comico da diavolo a molla) Nina richiama indietro o trattiene, lamentandosi come una bambina grottesca, il ritmo ed il gusto della performance plurale di quei tre, che compiono salti e buffonerie quasi circensi, cambia in seguito all’evento che viola il tabù d’una mascolinità sicula, infranta (nel corpo e nell’anima) da un torbido e violento incesto padre-figlio.  

E nella sequenza di brevi e rapidissime battute pronunciata alternativamente dai tre maschi e dalla sorella si intrecciano lingua con poco dialetto, come in una giaculatoria (comprensiva d’un atto di dolore recitato in italiano) che culmina nella delirante sintesi, eppure lirica, della vittima dello stupro. Qui si osserva un fenomeno misto rispetto a quello generalmente individuato: più breve nella prima versione, e perlopiù in lingua, il monologo plurivocale di Toruccio s’amplia nell’inedito e nell’ultima stampa (che si corrispondono) per l’inserimento di battute in italiano ma anche in dialetto: “U vidi appena ’un ti levi ’vizio ’i chiànciri?”; “Beddu beddu beddu si’!” (ed. 2007, p. 103), virgolettate perché echi della voce paterna. Nello spettacolo Sabino Civilleri simula con un movimento a scatti un atroce galoppo, perché contiene mostruosamente gioco infantile e suo sfruttamento da parte del padre-padrone.

L’incubo s’interrompe nelle tre versioni all’urlo di Toruccio (“Paride dopo tocca a te!”), ritornando di colpo l’azione alla scena precedente: con la ripetizione dello scappellotto e della battuta del maggiore (“Pigghiati ’a coppola!”). E s’accende sempre più la lite violenta fra i minori che, a partire dall’inedito, si amplia con nuove battute anche in dialetto, quelle particolarmente forti e oscene:

Ignazio: ’U capisti, ’infame chi [ca] ’un si’ avutru? Se ’un ti cuci ’a vucca, ti fazzu addiventare l’orifizio d’u culu quantu n’a casa [cascia] e ’u fiatu t’u fazzu nèsciri direttamente d’u stessu posto unni ti passa [nèsci] ’a merda... [...] Ti scripèntu!
Toruccio: ’U sai, ’gnazianeddu, chi m’a puoi sucare! Niente miscatu cu nuddu, sii [si’]! ’Un t’u dimenticare: «Suca! Suca! Suca!».
Ignazio: ’Un ti bastava faritìlla sucare da papà, eh? [...] Picchì ’unn’è ’a verità, Paride? ’Unn’a sanno [sapèmu] tutti ’a verità? (ined. 2005, p. 14; ed. 2007, pp. 105-106).

La lite sembra precipitare nelle ultime due battute scambiate dai fratelli minori, sostanzialmente in dialetto in tutte e tre le versioni (Ignazio: “Dissi ’ca si’ un finocchio!”; Toruccio: “Chi mi dicisti?”, ibid., p. 106)[47]; ma Paride distrae l’attenzione per rivolgerla a Nina e colpirla, dopo aver buttato a terra le foto dello scandalo. Anche questa scena, nella prima edizione affidata alla didascalia[48], s’amplia progressivamente dall’inedito all’ultima edizione, dove appare articolata per momenti successivi. Nel testo del 2005, inizialmente, è solo Paride a ritenere Nina responsabile dell’accaduto e minaccia di colpirla proprio perché se lei non avesse portato con sé le foto facendo riaffiorare gli inquietanti ricordi d’infanzia, tutto sarebbe andato liscio come l’olio, come recita la didascalia esplicita nella versione inedita (p. 15). Poi immobilizza i due fratelli acchiappandoli dalla nuca come fanno i gatti con i cuccioli e li costringe a cercare con lui quella “buttana di fotografia” per dimostrare la propria “ragione”; ma non la trovano e quindi dopo una breve pausa si accaniscono sulla sorella. Nell’ultima edizione di ogni momento si scrivono le battute, sia in italiano, sia in dialetto come quella rivolta da Paride a Nina:

Vidìsti chi cazzo combinasti? I tò frati si stanno scannando pi colpa tua... se ’un purtavi sti cazzo di fotografie, tutto andava liscio come l’olio... disgraziata! (ed. 2007, p. 107),

che manca nell’inedito, riassorbita dalla didascalia; o quelle che i fratelli si scambiano nella ricerca affannosa della foto incriminata:

Toruccio: ’Un s’attrova cchiù, fissa d’a Madonna!!!
Paride: [...] ’Unn’è? ’Unni finìu?
Ignazio: ’Ava a essere ccà!
Paride: [...] ’Ccà ’i fici vulari ’i fotografie, unni cazzo sunnu?
(ibid., p. 108)

Nell’inedito questo scambio, invece, c’è; praticamente uguale, se non per l’ultima battuta, che varia soltanto nell’imprecazione: “[...] buttana d’a buttana d’i so matri!” (ined. 2005, p. 15). Da notare, ad ogni modo, che le inserzioni in italiano alternano qui, nelle battute di Paride come in alcune precedenti di Toruccio, il parlato ad un linguaggio sussiegoso, che fonde boria e gravità (Paride: “Ci vogliamo ammazzare come cani per questa minchiata o vogliamo portare a termine il nostro nobilissimo piano?”, ibid., 107; Toruccio: “Grazie. Ignazio! Tu sei già al prologo e io manco ti ho fatto la premessa? Rilassati! Prima parlo io e poi quando finisco tu chiudi con un bel posludio, eh?”, ibid., p. 95).

D’altra parte nell’inedito e nell’edizione Fazi s’avvia da questo punto la scena persecutoria di Paride, spalleggiato dagli altri due, che ne condividono l’azione colpevolizzante (“È sua la colpa”) nei confronti dell’unica femmina, interrogandola prima allo scopo di inchiodarla: “Nina, chi è questa?”; Nina: “[...] Ignazio?”; Paride: “Come Ignazio! [...] Ci stavo scricchiando i ’tiesti a tutt’e e due e tu mi dici ca è Ignazio?” (ined. 2005, p. 31; ed. 2007, p. 109). Ottenuta la risposta che vuole (“Graziella!”), costringe Nina, carponi, a raccogliere le foto (che s’animano nelle persone: “Talè è caduta Graziella!”, in tutte e tre le versioni) buttate per terra ad una ad una, mentre i tre bastardi si eccitano nel tormentarla (ined. 2005, p. 17). Anche questa scena s’allunga e s’articola nel passaggio dalla prima edizione (dove si tratta, sostanzialmente, d’una tirata in lingua di Paride) all’inedito e poi all’ultima edizione, implicando maggiormente gli altri due fratelli, con battute macchiate di dialetto:

Ignazio: Accusì si stanca, Paride!
Toruccio: (Con ostentata preoccupazione) ’A stai facennu stancare, Paride!
Paride: E tu ci ’a stari ’o lato ’a tò soru!  [...][49]
(ed. 2007, p. 112).

D’altra parte l’ampliamento della scena, che prevede il trascinarsi per terra, a quattro zampe – come una cagna – di Nina, comprende molte altre battute in italiano, fintamente affettuose di Paride (che dirige) e degli altri (che gli danno corda o gli fanno eco) finché il leit-motiv incipitario del volo dei gabbiani si trasforma nello stormo delle foto gettate per aria. Di conseguenza l’azione culmina e precipita nel calcio in pancia del fratello giustiziere (“Allarga le braccia?”, ined. 2005, p. 20; “Apri le braccia?”, ed. 2007, p. 115) e nell’accettazione dolorosa della punizione inflitta da parte della vittima in-colpevole: “Paride, riportale a casa!” le foto.

Nella scena successiva, a partire dall’inedito si sviluppa in battute il tentativo d’allontanamento di Paride, fintamente mortificato (stavolta nella versione del 2005 come nella stampa del 2003) per essersi accorto della presenza degli invitati in sala: e l’edizione 2007 appare più benevola nei confronti del personaggio, che è pieno di vergogna per tutti quei panni sporchi sbandierati al vento (p. 116), mentre la didascalia introduce e indugia a descrivere lo scambio delle pellicce fra i fratelli, che manca invece nella prima edizione. Ma l’azione determinante è rappresentata dalle contorsioni di Nina, la cui pancia, d’improvviso, reagisce autonomamente come oggetto animato, palla calciata che assume una vita frenetica e misteriosa, come in una partita o un ballo da indemoniata.

È una scena, anche questa, che affidandosi essenzialmente al codice gestuale e prossemico dell’attrice protagonista, nella prima versione appare più sintetica nella successione delle battute, brevi, tronche ed esclamative (tutte in italiano), allungandosi nell’inedito e ancor più nell’ultima edizione per lo sviluppo dialogico d’una breve didascalia, danza delle pellicce compresa, che volano come gabbiani dando luogo ad una giostra festosa (ed. 2003, p. 32).

In un primo momento i tre maschi reagiscono con terrore alla minaccia rappresentata da quel ballo di San Vito, poi il maggiore cerca – come suo solito – di impugnare la situazione facendo togliere alla sorella la fascia che le stringe la pancia (breve pausa di stasi e di sollievo), e quando il “terremoto” si riscatena dentro di lei sembra quasi aiutarla nella respirazione, spingendo gli altri a fare altrettanto; ma lo scopo è impedire quel parto, la nascita intempestiva del “bastardo”.  La differenza fra l’inedito e l’ultima stampa consiste nell’aggiunta di alcune battute, perlopiù in lingua, che coinvolgono maggiormente i fratelli minori (Ignazio: “Paride, ma che minchia stai facendo?”; Paride: “Respira, Ignazio! Uno e due, uno e due...”; Paride: “Toruccio, dicci qualche cosa, falla distrarre!”, ed. 2007, p. 118)[50] o che intrecciano false dichiarazioni d’affetto alle minacce di Paride (“Nooo! Ho detto no! E quando Paride dice una cosa la dice per il tuo bene...”; Nina: “Mi sento morire!”, ibid, p. 119). Anche lo scambio dialogico fra il maschio maggiore e l’infelice partoriente s’amplia con interpolazioni all’interno delle battute di ciascuno dei due che, da un lato, accrescono il pathos della preghiera dell’una (“Nooo! Paride! Aspetta. Non te ne andare. Non ora, ti prego. Sto male. Un minuto ancora. Parideee! Aiutami, per l’amor di Dio!”[51]), dall’altro incrementano gli insulti del fratello:

1) Paride: Vedi di finirla, Nina! Ci stanno guardando tutti. Se non la smetti, Paride se ne va, hai capito?
[ined. 2005, p. 23].

2) Paride:  Infame che non sei altro! Smettila, buttana! Ci stanno guardando tutti. Se non la smetti, Paride se ne va, hai capito? Ti lascio morire come un cane!
[ed. 2007, p. 120].

Qualche minima variante lessicale segue un criterio di normalizzazione: la riduzione d’un numero iperbolico di feti nell’unica battuta in dialetto (Toruccio: “Ma quanti ci nn’avi dintra, Paride? Quaranta?”, ined. 2005, p. 22; “Ma quanti ci nn’avi dintra, Paride? Sedici?”, ed. 2007, p. 118), le “gambe” divenute più propriamente “cosce”, che devono restare “chiuse” nella battuta icastica di Paride, il “topo” che diventa “scimmia” nell’insulto alla sorella per coerenza con una trasformazione precedente; ma infine (più significativo) “’stu picciriddu” che si trasforma direttamente in “bastardo” (ibid., p. 120).

D’altra parte nell’inedito e nell’ultima stampa si sviluppa anche il gioco delle pellicce scambiate, come equivoco comico (già presente nello scambio dei pasticcini e dei posti di mPalermu) che allenta la tensione nel contrasto, stavolta in dialetto, tra i fratelli, capaci di sfruttare l’occasione perché il gioco delle pellicce “chi volano! [...] ci piace ’a picciridda, talè” (ed. 2007, pp. 121-123). In questa fase non si osservano varianti di rilievo tra la versione intermedia e l’ultima, tranne un raro caso di conversione d’una frase dal dialetto (“Io ci l’haio, Paride”) alla lingua (“Ce l’ho io, Paride”, ibid., p. 122).

Ma lo stesso gioco si muta in stimolo d’eccitazione erotica per i maschi preludendo a quella scena che nella didascalia della prima edizione è soltanto accennata (la scena di dolore si trasformerà in una giostra festosa, in cui dalla danza delle pellicce che volano come gabbiani, Nina, indossandone una, da sposa si trasformerà in puttana, ed. 2003, p. 32) e che nell’azione, ma anche nelle battute, dall’inedito all’ultima edizione diventa un’orgia: tra pellicce e piume d’uccello che usciranno dal pancione martoriato.

Ancora una volta nel passaggio dall’intermedio alla stampa si aggiungono battute (Paride: “Bedda bedda bedda si’!”, ed. 2007, p. 125), alcune delle quali riecheggiano la sequenza onirica dello stupro a Toruccio:

Ignazio: Vieni qua! Vieni qua!
Toruccio: Dammi le mani che te le riscaldo
Ignazio: Cammina ballerina!
Toruccio: Eh, puttanella!
(ibid., p. 124)

Nello spettacolo si assiste ad un crescendo turbinoso di movimenti e di metamorfosi: mentre l’attrice volta le spalle al pubblico esplodono piume da quel baricentro marchiato, che svolazzano invadendo tutto lo spazio scenico e pure la sala. Non solo, ma la colomba profanata racconta la propria profanazione all’origine di quel male oscuro che i “masculi” vogliono esorcizzare con l’abbandono. Gli abiti nel teatro di Emma Dante assumono sempre un carattere metamorfico – in principio c’è ancora Pirandello – e Nina indossa il cappotto peloso del fratello maggiore, si arrossa sbavando le labbra, in un ballo scomposto e pietoso. Il contrasto fra l’immagine della prostituta e l’ingenuità di fondo della ragazza rappresenta una visione potente, che sconvolge per la capacità dell’attrice di contaminare i due registri.

È interessante il fatto che la seconda, e fondamentale, rivelazione avvenga in italiano, in un clima onirico creato dal silenzio che segue al trambusto (e all’urlo di Nina), per cui la puttana ridiventa vergine e madre, oltre che amante dei fratelli, che tiene avvinghiati a sé i suoi tre cani (così nell’edizione del 2007, ma forse è più inquietante e pregno di senso scenico il dettato della didascalia inedita, per quanto ridondante dal punto di vista letterario: accucciati a sé i suoi tre cuccioli, p. 23).

L’incipit è lo stesso, stavolta, nella prima stampa e nell’inedito:

Questo bambino è santo! Una notte ho fatto un sogno. Ho sognato delle grandi ali dorate e quando Paride mi ha svegliato ero tutta bagnata. (Pausa) Io e Paride dormiamo nello stesso letto, nel letto matrimoniale, quello dei miei genitori. Ogni tanto pure Ignazio e Toruccio ci vengono a trovare. Dormiamo tutti insieme.
(ed. 2003, p. 32; ined. 2005, p. 25)[52].

Ma l’attacco di Nina, rivolto agli invitati in sala, è senza dubbio più efficace (corrispondendo allo spettacolo) che nell’ultima edizione, dov’è preceduto da un’altra strofa, esplicativa ma tutto sommato dispersiva nei confronti dell’effetto straniante e lirico, appunto, che la scena deve creare:

Questo bambino è buono! È già la terza volta che vuole uscire. Ma io lo trattengo e lui va a dormire. «Non è ora», gli dico! «Non è ora! Zio Paride dice che dobbiamo aspettare» (ed. 2007, p. 124).

Per il resto, nel passaggio dalla prima edizione all’inedito e poi all’ultima stampa, ancora una volta il monologo candido e crudo della protagonista (più crudo nella stampa iniziale, da cui è espunta la frase “so usare la bocca, faccio i cerchi con la lingua”, p. 32) si articola includendo i movimenti e gli atteggiamenti dei fratelli, finché la stanchezza non fa crollare Nina sulla sedia-trono e la sua salma non viene ricomposta con velo e fiori.

Il monologo s’allunga, per esempio, sviluppando in parole l’azione indicata soltanto dalla didascalia nella prima stampa, dove Nina prende le pellicce da terra e sprimacciandole le ridà ai fratelli aiutandoli a rivestirsi (p. 32); nel copione e nell’ultima stampa Nina dice: “Paride, rivestiti, che si è fatto tardi! Avanti, Ignazio, mettiti la coppola, se non ti si ghiaccia la testa. Toruccio, aggiustati la camicia [...] stamattina te l’ho stirata” (ined. 2005, p. 26; ed. 2007, p. 126), anche se le battute sono più brevi nello spettacolo. E nell’ultima edizione il monologo comprende interpolazioni anche rispetto all’inedito, ora nelle parti dirette ai fratelli ora in quelle rivolte al pubblico, secondo una scansione che solo questo testo prevede mediante appunto le aggiunte: quando parla della casa che avrà, senza chiavi alle finestre e con le porte sempre aperte (come quelle che avrebbero voluto spalancare i famigliari di mPalermu), Nina continua: “A Natale e a Pasqua, io, mio marito e il bambino vi veniamo a trovare. Mio marito la conosce la strada per tornare al paese, vero Paride?”, implicando la conferma del fratello (“La sa a memoria”); così come addiziona le battute che palesano il tema d’una preoccupazione e d’una premura quasi materne (“Come farete senza di me? Meschineddi! [...]”) delineando la psicologia di un personaggio ansiosamente proteso ad esaltare la necessità della propria presenza per la paura dell’abbandono. Di qui la virata nei confronti dei suoi invitati nella battuta, anch’essa, aggiunta: “Ma chi si misero in testa sti tre scansafatiche? Io grande sono. Se aspetto ancora, addivento zitella” (ed. 2007, pp. 126-127). Ne emerge il motivo principale – comune alle tre versioni – che incomincia con “Io so fare tutto [...]” e termina con “Faccio tutto a comando” (ibid., p. 127); con il posludio che accompagna il riallaccio della fascia – fatto fare da Toruccio – alle parole: “Questa fascia ce l’ha data il prete. Perché questo bambino è santo [...]”, in tal modo creando con l’attacco della prima versione e dell’intermedia un anello perfetto.

L’impressione è che l’attrice-autrice (anche se non interprete di persona) nel diventare donna di libro abbia ceduto alla tentazione di chiarire il personaggio, anche a livello, appunto, psicologico; laddove nella prima versione a stampa (paradossalmente più simile ad un canovaccio) e nel copione (l’inedito) la figura di Nina s’imprime piuttosto attraverso folgorazioni successive: la premura affettuosa per i suoi tre uomini nell’azione del loro rivestimento (con le poche parole che l’accompagnano); il sogno d’una casa tutta porte e finestre aperte e d’una quotidianità domestica priva di misteri inquietanti; la rivendicazione d’una propria utilità, magari banalmente femminile ma feconda, che (dopo la battuta sulla fascia) declina nell’in-coscienza dell’automa (“Faccio tutto a comando”). Il tutto – persino l’incesto con i fratelli (“Una notte ho fatto un sogno: ho sognato delle grandi ali dorate [...]”) – sacralizzato da una demenza che non può dirsi soltanto tale, perché è quella dei piccoli-grandi visionari che rovesciano le più meschine o atroci realtà.

Lo stesso processo d’ampliamento un po’ ridondante[53] si riscontra nell’ultima scena: come tornando all’immagine iniziale, ma restando fissata al velo con cui s’impiccherà da terra verso il cielo, la vergine incinta – senza sapere di quale spirito – è via via abbandonata, unica icona sulla scena. L’efficacia straordinaria di questo finale risiede anche nella sua rallentata brevità, nel silenzio cioè che scandisce ogni patetica voglia di Nina (fragole, panna, carezza) e, di conseguenza, ogni allontanamento, attraverso la sala, dei fratelli; l’aggiunta di battute nell’ultima edizione disturba questo silenzio − che contagia nello spettacolo il pubblico − persino nel delirio dell’abbandonata, dopo che Paride ha inchiodato il velo al palcoscenico:

1) Mio marito è bello, perché pure l’occhio vuole la sua parte, non si dice così? I miei fratelli me l’hanno combinato questo matrimonio, loro ci pensano a me, vero! Questo bambino è santo. Mio marito è santo. Glielo ha detto a Paride! I miei fratelli mi rispettano, per questo me li sono portati. Mii quanti gabbiani! Sono tutti morti... (Paride comincia ad avviarsi verso l’uscita) Sii tu Toruccio! È Graziella! Mii che era tinta! Ma dove le hai prese queste fotografie, Nina, erano secoli che non le vedevamo! Paride! Riportale a casa!
(ed. 2003, p. 33).

2) I miei fratelli me l’hanno combinato questo matrimonio. Loro ci pensano a me, vero!
Mio marito è bello, perché pure l’occhio vuole la sua parte, non si dice così, Ignazio?
Pausa
Paride la guarda, sorpreso.
Questo bambino è santo. Mio marito è santo. Glielo ha detto a Paride!
I miei fratelli mi rispettano, per questo me li sono portati.
Mii quanti gabbiani!
Sono tutti morti.
Paride comincia ad avviarsi verso l’uscita.
Sii tu Toruccio!
È Graziella! Mii che era tinta! Ma dove le hai prese queste fotografie, Nina, erano secoli che non le vedevamo! Paride, riportale a casa!
(ined. 2005, p. 28).

 3) (Agli invitati) I miei fratelli me l’hanno combinato questo matrimonio. Loro ci pensano a me, vero! Che farei io senza di loro, eh?
(A Paride) Mio marito è bello, perché pure l’occhio vuole la sua parte, non si dice così, Ignazio?
Pausa
Parla coi suoi fratelli come se li avesse ancora tutti accanto.
Questo bambino è santo. Mio marito è santo. Glielo ha detto a Paride!
Toruccio è bravo, è già la terza volta che vuole uscire.
I miei fratelli mi rispettano, per questo me li sono portati.
Mii... quanti gabbiani!
Sono tutti morti.
Paride, mani in tasca e sguardo basso, si avvia verso l’uscita.
Si’ tu Toruccio! He he he! Io lo trattengo e lui va a dormire.
È Graziella! Mii... che era tinta! Appena prendevi la fascia nera dalla credenza: Ppem! Ti faceva saltare la pancia... Si muove, papà! Si muove, papuzzo! Mio Dio mi pento e mi dolgo con tutto il cuore dei miei peccati, perché peccando...
Ma dove le hai prese queste fotografie, Nina, erano secoli che non le vedevamo!
(Urlando) Paride!
(Paride si ferma) Riportale a casa!
(ed. 2007, pp. 130-131).

Rimasta sola, spaesata, illuminata, la pupa senza risvegliarsi completamente – la stupefazione continua fino in fondo a connotare, nello spettacolo, il personaggio – sale sulla sedia e s’impicca, al solito senza imitare il gesto, ché è soltanto la testa (sulla cui sommità è stato rifissato con uno spillone il velo) ad inclinarsi dall’alto verso il basso. Ultima immagine sacrificale d’invertita potenza.

Nel complesso, dal punto di vista del linguaggio verbale scritto, il dialetto spunta fuori – a partire dall’introduzione in scena delle fotografie – negli scambi famigliari di battute, nei litigi tra i fratelli, nelle loro accuse e contro-accuse più oscene. Nel resto un italiano regionale, siciliano nei costrutti delle frasi ma trasparente nelle scene rivelatrici, forti e patetiche insieme. Il gioco nel duplice senso di divertimento e di azione sadica vuole il dialetto, il disvelamento della verità, in quest’opera traumatica (come detto all’inizio) vuole la lingua: una lingua sporcata di dialetto nell’incubo di Toruccio, a partire dall’inedito; parlata da una palermitana che la stilizza in strofe poeticamente brutali nel delirio di Nina.





Ma non finisce qui...

Bisogna dunque considerare la lingua teatrale della Dante nel contesto e nel processo del suo metodo compositivo. L’autrice mette in mano un’idea drammaturgica iniziale ai suoi attori e con essi la rielabora e la sviluppa, attraverso studi e laboratori, improvvisazioni individuali e collettive, finché non arriva alla scrittura scenica e alla trascrizione sulla carta del copione. Ma, come conferma Gaetano Bruno, molti dei copioni consegnati alla Siae non corrispondono mai, del tutto, agli spettacoli: si differenziano “non nella sostanza ma nei contenuti lessicali che possono anche variare da una rappresentazione all’altra”[54].

Attraverso le prove, quei copioni continuano a subire modifiche magari assorbendo cadenze, accenti, vocaboli e modi di dire degli attori, che nello stesso nucleo stabile hanno provenienze diverse, ma che possono essere anche reclutati per uno spettacolo particolare, arricchendo il patrimonio linguistico della compagnia[55]. Alcuni nodi drammaturgici si sciolgono proprio durante le prove o addirittura si individuano: l’“Haiu siti!” di Sabino Civilleri, più che del suo personaggio (Giammarco), alla fine della piccola abbuffata di cinque pasticcini che prelude al miracolo dell’acqua[56], o l’“Usciamo in italiano!” di Zia Lucia nell’ultima parte di mPalermu[57]. E nell’ultimo caso, sigillato dallo spettacolo, l’inserimento della battuta in lingua (e non solo di quella) a partire dall’inedito assume un valore di senso specifico e dirompente, che non corrisponde al fenomeno individuato dalla Stefanelli nell’analisi di Maggio 43, per cui “l’italiano regionale usato da Enia nel testo a stampa è più vicino al dialetto di quello recitato”[58]. Nell’esempio della Dante non si tratta di favorire la “circuitazione dello spettacolo” ma appunto uscire con lo spettacolo dall’impasse in cui sono bloccati i suoi personaggi-persone.                

L’ultimo passaggio dal copione alla stampa è quello, fino ad oggi, meno volentieri affrontato dalla Dante. La donna di scena ha esitato molto a diventare donna di libro: dopo aver pubblicato due testi in rivista nel 2003, un altro, Cani di bancata, ancora in rivista nel 2007[59], alla fine di quest’anno ha dato alle stampe solo la trilogia. Se l’edizione del 2003 (come si è visto) appare meno “consuntiva”[60] per ambedue i testi rispetto agli inediti del 2005, quella del 2007 è così a maggior ragione: non si tratta tanto di testi consuntivi quanto di un libro, appunto, da cui emerge una certa letterarietà, nella confezione, nella cornice. Ciò riguarda in particolare Carnezzeria, la sua estensione tramite battute interpolate sia in italiano, sia in dialetto come nelle scene di violenza dei fratelli sulla sorella, quasi per supplire con l’asprezza delle parole, delle ingiurie alla mancanza della visione – per il lettore – di quella violenza. Si aggiunga la cura delle didascalie, qui ampliate nella direzione del dettaglio psicologico ed interpretativo (da parte della drammaturga). Anche se spunta – come ho detto all’inizio – da queste didascalie in lingua qualche termine dialettale, a riconfermare – a mio avviso – il piglio attoriale dell’autrice. Ripensiamo a “’U vascio ’e donn’Amalia Jovine” in Napoli milionaria! di Eduardo De Filippo: come una battuta dell’attore-autore che scappa fuori dal testo scritto.


[I parte]


[42] “In Wielpole Wielpole, Helka, ‘la sposa vestita da sposa’, viene violentata dal soldato e derisoriamente gettata per aria [...]. Il manichino di Helka e l’oggetto-Nina sono inevitabilmente le due facce dello stesso segno scenico. La violenza della Storia segna un popolo, così una terra o un singolo individuo: la Piccola Storia balla sempre con la Grande Storia in una lotta feroce che è il teatro, come ricorda Eugenio Barba” (M. Gliozzi, Memorie in costruzione. Percorsi necessari nel teatro di Emma Dante cit., p. 120).
[43] Rimando al mio libro, A. Barsotti, Pier Maria Rosso di San Secondo, Firenze, La Nuova Italia, 1978; ed in particolare al mio saggio Epicità de “La bella addormentata” (di Rosso di San Secondo), «Rivista Italiana di Drammaturgia», II, 3/4, 1977, pp. 131-167.
[44] Anche in questo caso la Dante mescola, coscientemente o inconsciamente, suggestioni europee e radici drammaturgiche siciliane, di quegli autori però che, come Rosso e come Joppolo, pur in tempi diversi mescolano l’Isola con l’Europa. Se è vero, come afferma Melanie Gliozzi, che “le fotografie sono frammenti di vita morta, sottraggono la vita allo scorrere del tempo, cioè alla stessa cosa di cui conservano la memoria. Un ossimoro che secondo Kantor era l’unico strumento per reintrodurre il concetto di vita nel teatro, cioè attraverso l’assenza di vita, un segno registico che popola tutte le creature di Emma Dante” (M. Gliozzi, Memorie in costruzione. Percorsi necessari nel teatro di Emma Dante cit., p. 119), le fotografie dei morti costituiscono la climax di Una visita di Beniamino Joppolo, che l’autore di Patti scrive nel 1943, sebbene il testo rimanga inedito fino al 1965 (pubblicato in «Ridotto»). E bisogna arrivare al 1982 per la rappresentazione dell’atto unico, insieme a La Provvidenza, per la regia di Gianni Scuto, a Piscador di Catania, con la Cooperativa 37° Parallelo. Si è parlato a proposito dell’opera sia di “espressionismo caratteriale” sia di “espressionismo mediterraneo” (formula quest’ultima legata anche al teatro di Rosso di San Secondo); eppure, rispetto alle precedenti, qui emergono tratti di surrealismo grottesco, che diventeranno predominanti nel lavoro forse più famoso di Joppolo: I soldati conquistatori, primo titolo, nel ’45, di I carabinieri. Cfr. A. Barsotti, Da Patti a Parigi sulle tracce di un’avanguardia mediterranea, in Beniamino Joppolo dalla Sicilia alla Francia: viaggio nell’immaginario e nell’opera di un autore divergente, libretto edito a cura di La Città del Teatro di Cascina, con scritti di E. Moscato e G. Rizzo, per il progetto di produzione e ricerca Un grido d’allarme ideato e diretto da A. Alveario e A. Garzella, con la mia consulenza drammaturgica (stagione teatrale 2005-2006). 
[45] “[...] ’Unn’a sannu tutti ’a verità?” (ined. 2005, p. 14).
[46] Battuta che manca sia nella prima edizione che nell’inedito.
[47] “IGNAZIO: Dissi ca si un finocchio; TORUCCIO: Chi mi dicisti?” (ed. 2003, p. 31); “IGNAZIO: Ti dissi ’ca sii un finocchio” (ined. 2005, p. 15).
[48] “Paride va verso Nina e scaraventa a terra le foto. Nasce un violentissimo litigio fra i tre. Nina, nel frattempo, riprende le foto e si nasconde dietro la sedia. I tre si fermano per chiarire la questione della foto, ma non la trovano. Lo sguardo in cagnesco ricade su Nina. I tre si avvicinano a Nina” (ed. 2003, p. 31).
[49] Nell’inedito variano soltanto le didascalie: la battuta di Ignazio è contrassegnata da un “Preoccupato” e quella di Toruccio da un “Con finto sussiego”.   
[50] Anche quando Paride usa la pelliccia per coprire Nina dalla cintola in giù, e invita gli altri ad imitarlo, si aggiungono delle battute tutto sommato riempitive: “Toruccio: Sì, io la copro, cazzo, ma se nasce che minchia ce ne facciamo?; Paride: Non lo so, non lo so...; Ignazio: È troppo tardi! Prima ce ne dovevamo andare... tutta colpa di quella buttana di Graziella!; Paride: Nina, non lo fare! Non lo fare!” (ed. 2007, p. 121).
[51] Le aggiunte qui e sotto sono segnalate in neretto.
[52] L’unica differenza riguarda i segni d’interpunzione dell’ultima frase citata: “ci vengono a trovare e dormiamo tutti insieme” (ed. 2003, p. 32); “ci vengono a trovare. Dormiamo tutti insieme” (ined. 2005, p. 25).
[53] Emma Dante conferma: “Anche Carnezzeria, che è in italiano, ha comunque in sé il dialetto. Ora ho riscritto il testo di Carnezzeria, in vista della pubblicazione ed è leggermente cambiato [...]” (Dante, La strada scomoda del teatro cit., p. 67).
[54] G. Bruno, Forza e verità in scena. Intervista a Gaetano Bruno, in Palermo dentro cit., p. 167. “Al termine del lavoro di improvvisazione, quando abbiamo nelle mani una struttura chiara, [Emma] scrive il testo – anche per la registrazione alla Siae -, mentre noi continuiamo a lavorare su un canovaccio che deriva dalle nostre improvvisazioni e dai suoi suggerimenti”.
[55] Cfr. in proposito ancora S. Bottiroli, I felici pochi di Emma Dante. La grazia scomoda del teatro cit.
[56] «Nel primo studio di mPalermu» – racconta la Dante – «dopo la piccola abbuffata, Sabino recitava il testo di una bellissima canzone dei fratelli Mancuso [ma] tutto quello che accade durante la sua piccola abbuffata [...] è tremendo, spesso capita che vomita in scena dopo essersi ingozzato [...] ho capito il suo desiderio. Era l’acqua la sua poesia, la sete [...] Sabino dice con un filo di voce la battuta più significativa e più necessaria di tutto lo spettacolo; la sintesi di Palermo: “Ho sete”» (e. dante, Appunti sulla ricerca di un metodo cit., p. 21). 
[57] «Per esempio in ’mPalermu, alla fine dello spettacolo, la zi’ Lucia pronuncia il suo tormentone, “niscemu niscemu”, e non escono mai i personaggi. Ad un certo punto dice “usciamo” in italiano, quasi esasperata. Così ho pensato: “proviamo a dirlo in italiano, vediamo se ce la facciamo”. L’italiano diventa così un’alternativa, la lingua diversa che viene ascoltata perché strana alle orecchie dei personaggi» (E. Dante, Intervista cura di C. Bellofiore, in Il teatro siciliano sperimentale cit.).
[58] S. Stefanelli, I linguaggi del teatro di narrazione cit., p. 348.
[59] Cani di bancata, «Hystrio», XX, 1, 2007, pp. 102-107.
[60] Per la definizione di drammaturgia “consuntiva”  rimando naturalmente a S. Ferrone, Non cala il sipario. Lo stato del teatro, a cura di J. Jacobelli, Roma-Bari, Laterza 1992, pp. 97-102. Ho usato molto il termine nei confronti di Eduardo, perciò rinvio alla mia Introduzione al volume della Cantata dei giorni pari (I) e ai volumi della Cantata dei giorni dispari (I-II-III), dei quali ho curato la nuova edizione Einaudi, e che sono usciti rispettivamente nel 1998 e nel 1995.

[I parte]

 


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