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Jacques Copeau

A cura di Vincenzo Mazza

Arles, Actes Sud-Papiers, 2023, 144 pp., euro 15,00
ISBN 978-2-330-18147-5

Attingere alla memoria e porre all’attenzione testi fondativi dei maestri della scena del Novecento resta importante e doveroso. Il volume dedicato a Jacques Copeau (1879-1949) presenta una scelta di suoi Écrits (dal 1905 al 1945) distribuiti in cinque categorie, indicative della varietà degli interessi e degli argomenti che ne hanno animato il pensiero e la sua arte.

Nella Préface, Béatrice Picon-Vallin rileva le influenze di Copeau su alcune personalità venute dopo, da Strehler a Mnouchkine. Il direttore del Piccolo Teatro, prima guida dell’Odéon-Théâtre de l’Europe, ricordava di averne subito il carisma assistendo con emozione al Mistero di Santa Uliva, a Firenze nel 1933, e si dichiarava suo erede per gli ideali comuni e per l’esigenza di una Scuola. La fondatrice del Théâtre du Soleil gli rende omaggio nel preparare L’Âge d’or (1975), occasione in cui è indotta anche a confrontarsi con le idee di Mejerchol’d sull’attore. Presenze importanti sono segnalate in Charles Dullin, per gli scambi d’esperienze sull’improvvisazione, e in Suzanne Bing. Il rapporto con la collaboratrice (anche sentimentale) è rivalutato: «Le nom de Suzanne Bing doit être cité et mis en valeur, quand on parle de Copeau chercheur» (p. 11).

Il curatore traccia l’itinerario del maestro a partire dall’ambito letterario in cui si forma e dal modo con cui reagisce a una situazione avvertita moralmente ed esteticamente inaccettabile. Con le prime scelte sulla propria vocazione, sorgono parole d’ordine, motti e programmi d’una visione precisa e severa. Molti fra quei messaggi, qui ripercorsi organicamente, erano già stati diffusi in Italia dagli studi assidui e amorosi di Fabrizio Cruciani (1971) e di Maria Ines Aliverti (1988 e 1997). Il curatore del volume Vincenzo Mazza cita Camus nel condividere un discrimine fra le epoche teatrali, segnate da «un prima e un dopo Copeau» (p. 15). In snodi sintetici mostra come Copeau si sia affiatato con gli intellettuali parigini, fra i quali André Gide, Paul Claudel, Jean Schlumberger, Jules Romains, Roger Martin du Gard, frequentando dalla fondazione il sodalizio della Nouvelle Revue Française. 

Forte, inesausto e convinto, torna il bisogno di servir l’art, per nobilitare la missione, che sentiva avvilita, di servire innanzi tutto l’autore, il drammaturgo-poeta e per sollecitarlo ad alimentare con le sue opere un repertorio autorevole e di lunga durata. Una visione profetica, che abbracci un futuro abbastanza lontano per garantire continuità ed efficacia nello spronare le generazioni venture, si ripete più volte: è del 1921 la conferenza Faire signe aux hommes des ans 2000

Nel tracciato in tre fasi d’una vita feconda di progetti, di riuscite e qualche scacco, la prima fase risulta la più affollata e creativa, nei momenti rivelatori decisivi, quelli delle scelte del tréteau nu, della scena fissa e denudata e dell’école, seguiti dalla formazione dei Copiaus, gruppo sperimentale e itinerante in Borgogna. Quasi una biografia critica, che nella seconda e terza fase segue la scansione impostata nei Registres, pubblicati recentemente (si vedano le nostre recensioni qui e qui).

Gli Scritti nascono da un’acuta percezione dei problemi del presente e da fedeltà alla tradizione. Nella recensione di L’Art théâtral moderne (1910) di Jacques Rouché, a proposito della messa in scena, Copeau rivendica l’armonizzazione di tutte le componenti dell’opera drammatica nello spettacolo e ritiene limitato considerarla una «dépendance de l’art plastique» (p. 45) e quindi rifiuta la parzialità dello storico. Il nesso logico fra definizioni e obiettivi artistici è subito evidente nel “manifesto” fondatore del Vieux-Colombier: «Par mise en scène nous entendons: le dessin d’une action dramatique» (p. 46). 

In Comment jouer bien Molière? (1917) al pensiero si fonde la pratica, nei rilievi sullo stile del grande drammaturgo e nel rispetto dei suoi criteri normativi sulla “giusta” recitazione. Così nel programma per Dom Juan: «La scène classique est vide. Le personnage entre, attaque le silence, meuble de son action propre, de sa gymnastique» (p. 50). Coerenza di rapporti, sia nell’azione, sia nella recitazione, sono di continuo invocati. Verso gli anni Venti sorgono domande sul futuro, dall’intento di innovare, almeno, prima di sperare in un Rinascimento vero. Mestiere ed arte sempre corresponsabili, nella coppia di attore e regista conniventi. «Rien n’es plus terrifiant qu’un metteur en scène qui a des idées» (p. 56), confessa, nel timore che un riflusso di cabotinage investa stavolta il gestore della scena. Constatare la funzione crescente della regia è cruccio incessante per l’artista che pure assumeva in sé oltre l’attore, il drammaturgo e il regista. 

Nella sequenza proposta è facile distinguere le costanti e le variabili, in una continuità che rispetta il tempo e s’adegua creativamente al suo ritmo mutevole. Ancora in una voce d’Enciclopedia (1935), Copeau affronta la complementarità dell’autore-regista. Al ricordo del Mystère de Santa Uliva, allestito nel chiostro di Santa Croce a Firenze, aggiunge il racconto emotivo del creatore, impegnato a trarre profitto dal luogo che lo accoglieva ed esteticamente lo stimolava. La parte dedicata al tréteau nu testimonia la ricerca delle soluzioni, spaziali più che scenografiche, imposte dalle condizioni architettoniche del Vieux-Colombier. Così il dialogo fra il Patron e il suo régisseur Jouvet si esprime a un livello di sapienza artistica e di sensibilità nei rapporti personali, implicanti una perizia tecnica e un’abilità singolari. Si trattava allora del problema posto dalla scena concepita in moduli elementari, dai quali ottenere «solidité et assemblage» (p. 79) che garantissero la semplicità di costruzione e la funzionalità scenica. La novità attesa, esposta in una lettera corredata da disegni di Copeau al più giovane compagno, risiedeva in condizioni capaci di cambiare un dato fondamentale, in «un rapport nouveau […] entre le spectateur et l’acteur» (p. 88). 

La tensione all’essenziale, l’elisione del décor, lo spazio vuoto abitato solamente dall’attore costituiscono il ritornello del riformatore e pedagogo esigente, fino al “manifesto” per un Teatro Popolare (1941) nel quale la meta è «ramener le scène moderne à ce dénouement primitif» (p. 91). Le preoccupazioni per l’attore trovano tracce nel 1916 in una nota per Jouvet, allora in servizio militare. Appare prioritario l’osservare la spontaneità infantile nel gioco, così come dedurne le applicazioni nell’interpretazione. Poi si rifletterà sull’educazione fisica, evitando l’atletismo: «Pas d’athlétisme voulu. Nous cherchons une harmonie perdue» (p. 100). 

Alcuni miraggi risorgono, sogni di un’improvvisazione rianimatrice della Commedia dell’Arte, abbozzi di “scenari” e di “lazzi” (p. 105-116) con un’esortazione alla «écriture poétique» (p. 117). Ma sono tutti sintomi del declino delle forze e delle idee, nel ricordo delle opere magnificamente realizzate nel passato.


di Gianni Poli


La copertina

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