Prodotto
dalla Plan B Entertainment (casa di produzione fondata e diretta da Brad
Pitt) e distribuito da Netflix a partire dal 28 settembre 2022, Blonde di
Andrew Dominik (anche sceneggiatore del film) è stato il titolo più
divisivo della 79ª Mostra del Cinema di Venezia. Lultima fatica del regista
neozelandese è rimasta, tra laltro, allasciutto di premi in laguna,
soprattutto di quello che per molti critici sembrava già messo in cassaforte
sin dal primo minuto: la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile
ad Ana de Armas, vinta invece dalla più navigata Cate Blanchett per
Tár di Todd Field. A più di un mese dalla prima proiezione, la
pellicola continua imperterrita a far parlar di sé, destino comune ai progetti
cinematografici incentrati su personaggi così iconici come Marilyn Monroe,
numerose volte portata sullo schermo senza mai grandi risultati. Opera
fortemente concettuale, Blonde è ispirata allomonimo romanzo
(HarperCollins, New York, 2000) della prolifica scrittrice Joyce Carol Oates,
capace di restituire, con opportuni intrecci tra realtà e finzione, una serie
di rappresentazioni della diva più celebre di sempre: dallinfanzia traumatica
alladolescenza solitaria, passando per i primi atroci compromessi lavorativi,
i difficili rapporti con gli uomini e il mai sopito odio per il personaggio che
lha resa immortale, costruito ad hoc dallavida e per certi versi
meschina industria hollywoodiana.
Una scena del film
Nelle
quasi tre ore di proiezione scorre la vita di Norma Jeane Mortenson Baker,
con una particolare enfasi, nella prima parte, sulla sua infanzia, costellata
da angherie, privazioni (tra tutte lassenza “fisica” di un padre), umiliazioni
e violenza da parte di una madre con evidenti problemi psichici (interpretata
dalla stupefacente Julianne Nicholson). Dopo i primi successi come
modella per riviste, Norma Jeane inizia la sua “Via Crucis hollywoodiana” con
uno squallido abuso sessuale da parte di un produttore. Lamarezza e la
desolazione sembrano però trovare conforto in una relazione poliamorosa con i
due figli darte Edward G. Robinson Jr. (Evan Williams) e Charles
“Cass” Chaplin (Xavier Samuel), ménage à trois terminato bruscamente
in seguito a un aborto che porterà con sé numerosi strascichi nella sua psiche.
Nel corso del film Norma continua a essere in balia di svariati uomini che, a
turno, si servono di lei, soddisfacendo i propri istinti sessuali e alimentando
il proprio ego: si pensi al matrimonio con Joe DiMaggio (Bobby
Cannavale), a quello con Arthur Miller (Adrien Brody), fino
al rapporto, forse troppo esacerbato nella rappresentazione, con John F.
Kennedy (Caspar Phillipson).
Una scena del film
Blonde
non
si presenta – ed è chiaro fin da subito – come un comune biopic teso a
ripercorrere lintera esistenza di una celebrità come Marilyn: sono infatti
numerosi gli eventi e gli avvenimenti neanche accennati nel film, dalle varie
adozioni familiari in tenera età al presunto periodo di prostituzione durante
ladolescenza, dal precoce matrimonio di convenienza con James Dougherty
al contratto con la 20th Century Fox, fino allinternamento in una clinica
psichiatrica. La figura della diva, vittima delezione di un sistema in
marcescenza, ne esce dunque mal ridotta, causando una forte empatia nello
spettatore per tutta la durata. Le varie scelte autoriali privano il pubblico di
un altro punto di vista, a suo modo più realistico: il fatto che Norma potesse
avere un atteggiamento più pragmatico verso le diverse relazioni vissute,
alcune delle quali capaci di addurre non pochi vantaggi alla sua carriera (fra
tutte quelle col Presidente degli Stati Uniti).
Seguendo
la logica del romanzo di partenza, la diva di Los Angeles viene progressivamente
trasformata in mero oggetto, trofeo, valvola di sfogo, «carne da asporto», come
si autodefinisce quando viene scortata di forza da Kennedy. Man mano che il suo
destino vira verso il tragico e il raccapricciante, si fa più incisiva la
sovrapposizione tra piani reali e di finzione, tra cronaca mondana e ricordi, passato
e presente, confondendo lo spettatore che perde ogni certezza, nauseato ma allo
stesso tempo attratto dalle meravigliose scelte operate dai due montatori Adam
Robinson e la ormai affermata Jennifer Lame (assidua collaboratrice
di Noah Baumbach e di Christopher Nolan). La sfuggente regia di
Dominik punta sul movimento, sullinafferrabilità, giocando (forse un po
troppo) su trovate virtuosistiche (come alcune soluzioni adottate con la
steadycam, effetti stroboscopici o alcuni raccordi sul simbolo che rischiano di
apparire alla lunga un po stucchevoli e affettati). Tuttavia, va dato il
merito al regista classe 1967 di aver trasmesso quel senso di inquietudine, di
paura e di incertezza che vive la protagonista, sola contro tutti e soprattutto
contro sé stessa. Tale risultato è garantito dalla presenza di frammentazioni
tra piani temporali, dalle variazioni dellaspect ratio, dalle
deformazioni cromatiche, dallutilizzo di luci e anche dal minuzioso e
inappuntabile lavoro sulle musiche e sul suono (opera di Nick Cave e Warren
Ellis), purtroppo fortemente compromesso dallimpossibilità di visionare
lopera in sala. Ultimo, non per importanza, un commento sullinterpretazione
di Ana de Armas: una prova inappuntabile, sancita da unabnegazione totale e indispensabile
per entrare nel ruolo, dalle numerose ore di trucco allevidente studio del
tono della voce, dei vezzi, dei movimenti, calandosi perfettamente nella parte
oscura di Marilyn.
Una scena del film
Concludendo,
Blonde non è un film adatto a chi vuole accontentarsi di una semplice
biografia, del gossip, della verità storica e oggettiva. La componente
artistica e autoriale è infatti sovrabbondante e prevarica la semplice
ricostruzione dellesistenza della protagonista. A un occhio più analitico non
interessa se i fatti siano davvero andati così come appaiono sullo schermo, in
quanto in questo caso si discorre di un biopic fortemente personale, sulla
falsariga di film come Last Days (2005) di Gus Van Sant, Im
Not There (2007) di Todd Haynes o del più recente Spencer
(2021) di Pablo Larraín. Negli ultimi anni la proliferazione di biopic
ha dimostrato lurgenza di un cambio di rotta, di unevoluzione, possibile se
affiora la volontà ferrea di assumere una dimensione autoriale e artistica
nella ricostruzione. A prova di ciò è possibile affermare che, più che
unindagine sul suo passato, quella di Dominik è unesplorazione del potenziale
immenso proprio di unicona come Marilyn, capace di fondersi con il contesto in
cui si muove e aprendo la strada a numerose riflessioni sul medium, sulla
società del tempo ma soprattutto su quella in cui ci troviamo. Cambiano le
vesti, i colori e le forme ma, in qualche modo, tutto si ripete.
|
|