drammaturgia.it
Home | Cinema | Teatro | Opera e concerti | Danza | Mostre | Varia | Televisioni | Libri | Riviste
Punto sul vivo | Segnal@zioni | Saggi | Profili-interviste | Link | Contatti
cerca in vai

Cupio dissolvi

di Marco Luceri
  Last days
Data di pubblicazione su web 26/05/2005  

Premiato nel 2003 con la Palma d’Oro per il discusso Elephant, il regista americano Gus Van Sant torna sulla Croisette con l’ultimo film della sua (ipotetica) trilogia sulla generazione giovanile di oggi inadatta a vivere, cominciata con Gerry (2002), proseguita con Elephant e terminata appunto con l’ultimo Last days, ispirato agli ultimi giorni di vita della celebre rockstar Kurt Cobain, leader dei Nirvana, morto suicida (ma le vicende non sono state ancora chiarite del tutto) l’8 aprile del 1994.

Il cantante rock Blake (Michael Pitt) non potrebbe chiedere di più dalla vita. Ha soldi e successo, ma ciò non basta a placare i suoi turbamenti interiori, aggravati anche dal fatto che tutte le persone che lo circondano vogliono qualcosa da lui, che siano soldi o aiuti di vario genere. Il film si apre con Blake che in assoluta solitudine vaga per un fitto bosco, fino a che non giunge in una grandissima villa fatiscente dove vivono (dormono, per lo più) gli altri due componenti della sua band, con le loro rispettive ragazze. Blake vaga per le stanze della casa come un fantasma, nell’indifferenza dei suoi amici, ossessionato dalle sue visioni: cade spesso per terra, fuma, mangia quello che trova, si sposta tra gli interni e gli esterni della villa con in mano un fucile, a volte si chiude in una piccola sala prove per comporre delle nuove canzoni. Mentre i discografici e un investigatore privato lo cercano freneticamente, Blake decide di fuggire per sempre dalla vita, lasciandosi morire in una piccola legnaia immersa nel verde del giardino.

Il film è tutto qui. Girato con un ridottissimo budget in quattro settimane nel maggio 2004 a Garrison e a Cold Sring, contea di Putnam, stato di New York, Last days conserva lo stile rigoroso, estremo e ostico tipico del suo autore. Come infatti accade nel precedente Elephant, in cui non c’è spazio per la compartecipazione emotiva, nel nuovo film i fantasmi e le ossessioni interiori di Blake diventano il cuore della narrazione. Gli eventi sono ridotti al minimo, come anche i personaggi, uno sparuto gruppo di ectoplasmi (tra cui ritroviamo anche Asia Argento) più intenti all’autoimbruttimento che a garantire presenza scenica. Il film vorrebbe dunque, spogliandosi di tutti i cliché possibili intorno alla vita sregolata da rockstar, condurci nell’universo creativo e maledetto del giovane artista Blake e nel suo irrimediabile cupio dissolvi. Di fronte all’impossibilità di reggere la fama e le responsabilità che essa inevitabilmente produce, Van Sant costruisce un film su un personaggio in realtà inesistente, perché ciò che lo caratterizza non sono le sue azioni, ma i suoi deliri interiori, le sue frasi non-sense, la sua inadeguatezza esistenziale, i suoi silenzi.

Se l’onestà dell’approccio va riconosciuta al regista americano, non si può dire però lo stesso riguardo all’esito del film. E’ come se Van Sant facesse entrare dalla finestra ciò che fa uscire dalla porta. Mi riferisco proprio ai cliché che, attraverso la forma, ha cercato di evitare, evidentemente non riuscendoci.

La costruzione del film è realizzata attraverso delle ellissi incongruenti, delle sfasature spazio-temporali derivanti dalla varietà e dalla variabilità dei punti di vista. Sembrerebbe ben saldarsi alla volontà di procedere in un film anti-narrativo, tuttavia gli elementi cerebrali non riescono a reggere l'intera durata del film (se si esclude la lunga scena iniziale nel bosco) perché Blake è sì a tutti gli effetti un personaggio senza storia, ma gran parte di ciò che lo circonda, soprattutto il maledettismo costantemente esibito, è reale.

La rischiosa operazione di Van Sant, cioè voler trasformare la forma in narrazione, viene puntualmente smentita dai (troppi) riferimenti alla figura reale di Cobain. La ricercata somiglianza fisica di Pitt con il leader dei Nirvana, ottenuta soprattutto grazie all’acconciatura e ai costumi, il percorso di alienazione esistenziale che lo porta alla morte, per non parlare poi dell’ambigua didascalia che chiude il film, sono elementi dissonanti.



E’ vero che non una sola canzone dei Nirvana viene fatta ascoltare nel film, eppure l’uso della musica (si va da brani originali composti e cantati dallo stesso Pitt al barocco con un tema del XVI° secolo di Janequin Clement, La guerra, cantato da King Singers, al contemporaneo con Hildegard Westerkamp passando per il rock di Venus in furs dei Velvet Underground) si rileva più artificioso che mai, proprio perché riporta nell’ambito della diegesi narrativa quei cliché che la forma tenta costantemente di rifuggire. Un dissidio irrisolto, questo, che trova la sua più acuta degenerazione nel finale, quando l’ "anima" di Blake lascia il suo corpo senza vita, in una scena da puro kitsch melodrammatico.

Meglio sarebbe stato per Van Sant continuare sulla strada della rarefazione poetica di Elephant, in cui l’anonima folla dei personaggi riusciva a distogliere l’attenzione dagli artifici formali del film. Misurandosi con una figura (più o meno ricercata) di grande rockstar come Cobain, il regista americano scivola nell’inconcludenza e stavolta, a smentire proprio il finale di Last days, non c’è nessuna stairway to heaven a cui aggrapparsi.










Last days
cast cast & credits
 



 


 

Gus Van Sant
Gus Van Sant

 


 






 

 
Firenze University Press
tel. (+39) 055 2757700 - fax (+39) 055 2757712
Via Cittadella 7 - 50144 Firenze

web:  http://www.fupress.com
email:info@fupress.com
© Firenze University Press 2013