Sono
quasi ventanni che Fabrizio Gifuni lavora su Pier Paolo Pasolini,
dal tempo del suo memorabile ritorno al teatro nel 2004 con Na specie de
cadavere lunghissimo, spettacolo
complesso sia dal punto di vista drammaturgico sia dal punto di vista
performativo, nonché calibratissima regia di Giuseppe Bertolucci. Anni
dopo arriverà lo studio di Ragazzi di vita con un allestimento specifico e oggi con
questo rinnovato lavoro, che non è una semplice combinazione dei due citati
spettacoli.
Tuttavia,
nel caso specifico e nella (per ora) unica serata nella quale questa nuova “idea”
è andata in scena, in un Teatro Argentina riempito in tutti i settori, è anche
la confluenza di più testi di Pasolini a innervare, quale più quale meno, i due
precedenti spettacoli: Ragazzi di vita, che è come il leitmotiv, Poesia in forma di rosa,
Lettere luterane e Seconda forma de La meglio gioventù. Questultima
costituì, nel 1975 e in edizione Einaudi, la seconda di tre sezioni in una
raccolta complessivamente intitolata La nuova gioventù, ultima selezione
delle poesie friulane ancora una volta dedicata a Gianfranco Contini,
uno dei due grandi filologi – laltro era Leo Spitzer – che Pasolini
amava, essendone peraltro ricambiato.
La
rinnovata sapienza nel costruire unacutissima drammaturgia, dove i testi si
alternano, combinano ma soprattutto dialogano fra loro, è certamente unaltra
magistrale prova della speciale configurazione che questo meraviglioso attore ha
oggi (e non solo in Italia). Il male dei ricci è un voluto richiamo a un
passo di una splendida poesia che, citandola dal friulano, in italiano dice: «Posso
soltanto dire che, “dal male dei ricci” (che non ho mai avuto) al mondo non si
può guarire». Forse accostabile al male di vivere di una poesia di Eugenio Montale
(Spesso il male di vivere ho incontrato…) senzaltro e del resto
ovviamente riferita ai “riccetti” ragazzi di vita e in particolare a
Lui, il Riccetto. Fabrizio Gifuni © Filippo Manzini
Il
romanzo e la sua evoluzione narrativa, si diceva, costituiscono come un leitmotiv e Gifuni vi entra e vi esce per
tutto lo spettacolo, perché lo pone in dialogo con le altre opere. Questa
soluzione drammaturgica era già in parte presente nella interpretazione scenica
del romanzo, ma stavolta si arricchisce ulteriormente della presenza o
confluenza, rispetto al romanzo, di ancora più testi, tutti poetici eccetto le Lettere
luterane. Laddove gli Scritti corsari, pure presenti fra i testi
citati in scena, possono costituire anche un richiamo infra-artistico,
ossia al primo Pasolini di Gifuni-Bertolucci, come se si volesse creare anche
una memoria storica attoriale, dentro un agone, un corpo a corpo tra lattore e
uno dei suoi autori di riferimento. Ascoltando di nuovo, fra gli altri passi,
il richiamo che Pasolini fa allItalietta fascista, per prendere le distanze da
chi lo tacciava di essere nostalgico di una certa Italia, non ho potuto non
pensare – quindici giorni prima delle elezioni – che Gifuni abbia voluto rimarcare
certi testi, da pregiato intellettuale a proprio modo militante qual è. E del
resto anche il richiamo, che lattore fa allinizio, a mo di prologo, a Aldo Moro e
laccostamento a Pasolini come due fantasmi, ossia due “corpi” mai
metaforicamente sepolti, con i quali continuare un possibile dialogo, sembra
andare in direzione anche militante.
Ma
lo fa – se lo fa – senza essere didascalico e tanto meno ideologico, tra
laltro confermando la scelta di non aggiungere niente di suo ai testi che
porta in scena. Anche stavolta compie qualcosa di straordinario: nel mettere in
dialogo opere di uno stesso autore ne ricostruisce anche il pensiero e fa
emergere – come fosse un analista di testi – quanto Pasolini abbia
costantemente a propria volta dialogato con i propri testi, molteplici e così
differenziati anche per generi, nellarco di più di trentanni. Lo stesso
motore dei riccetti è notoriamente una costante – pur tra varianti, come
direbbe Contini – dal primo Pasolini friulano ai romanzi, i film, le successive
raccolte poetiche e, da ultimo, il Gennariello delle Lettere luterane.
E quando Gifuni entra ed esce da un testo, poi lo
riprende e orchestra le interrelazioni con altri testi, è anche Pasolini,
soprattutto mettendosi in ascolto egli stesso (a parte noi spettatori) e dunque
creando un concertato dialogo dellautore con sé stesso e con lattore che lo
incarna. Infine: ancora una volta emerge non solo il plurilinguismo di un poeta
e scrittore, lo stile, la forma, la struttura dei testi, ma anche la magistrale
capacità di Gifuni di farne voce, corpo, strumento. Un tripudio di applausi ha
suggellato una serata speciale.
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