Nella
sfera delle cinematografie mondiali, a detta di Martin Scorsese,
soltanto due di esse sono state in grado di esportare nel mondo la propria cultura,
i traumi e i costumi attraverso il cinema: quella italiana e quella giapponese.
In concorso ufficiale alla 79ª Mostra del Cinema di Venezia, Love Life di
Kôji Fukada – vincitore del premio della giuria a Cannes nella sezione
Un Certain Regard con Harmonium (2016) – si inserisce di diritto in
questa riflessione del regista americano. A prova di ciò le varie
rappresentazioni del rapporto dei personaggi con la morte, con la natura, con
la povertà, con i pregiudizi e con le tradizioni. La casa di distribuzione Teodora
Film ha distribuito la pellicola nelle sale italiane a partire dal 9 settembre
2022, sfruttando così la scia della presentazione al Lido. Una scena del film
La
giovane Taeko (Fumino Kimura), membro attivo in unassociazione di
beneficienza, conduce una vita tranquilla in compagnia del marito Jirō (Kento
Nagayama) e del figlio di sei anni Keita (Tetsuta Shimada), avuto
dal precedente matrimonio. La presenza del bambino è mal digerita dai suoceri
della donna, che vorrebbero un nipote biologicamente loro. In particolar modo per
il suocero, secondo cui Taeko rappresenta uno “scarto”, in quanto il Jirō lha
sposata nonostante fosse sul punto di convolare a nozze con unaltra (sua
attuale collega). Durante la celebrazione di una prestigiosa vittoria di Keita
al gioco Othello, una tragedia indicibile irrompe nel loro appartamento: il
figlio, in seguito a una caduta nella vasca colma dacqua, perde coscienza e
annega. Il giorno del funerale fa la sua comparsa Park (Atom Sunada), il
padre sordomuto del bambino, di cui da anni non si avevano notizie. Decisa a
superare limmane sofferenza e i roventi sensi di colpa, la protagonista accetta
di supportare (e sopportare) lex marito, incapace di gestire i rapporti con la
società a causa della sua inabilità. Tale decisione incrinerà ancor di più i
rapporti già precari con Jirō, fino a un finale agrodolce sulle note del brano
omonimo Love Life (1991) della musicista di Tokyo Akiko Yano.
Una scena del film
«Quando
faccio un film, cerco di capire quanto possa essere universale. Largomento
principale di Love Life non è la tristezza di una coppia che ha perso
un figlio, ma la solitudine che prova per lincapacità di condividere il
dolore: la tristezza, infatti, è unica e personale, la solitudine invece è
tipica della condizione umana», così Fukada a proposito del film, che lo vede
anche nelle vesti di unico sceneggiatore. Dunque, il regista pone laccento sul
senso di isolamento, sullincapacità di comunicare, di guardarsi negli occhi e
di poter sfogare liberamente la propria rabbia o la propria desolazione. Si prende
come riferimento la figura di Park, personaggio tuttaltro che positivo:
coreano di nascita (svariati i pregiudizi qui presenti nei confronti dellaltro
paese asiatico), abbandona ben due donne e altrettanti figli; vive per strada
grazie alla carità delle associazioni o ai sussidi statali. Il suo isolamento è
esacerbato, oltre che dal proprio carattere, dal sordomutismo, in una società
troppo spesso insensibile a tale condizione. La figura dellinetto incapace di
gestire relazioni col circostante, a causa di un differente approccio alla
comunicazione, è stata numerose volte ritratta dalla settima arte: da La
camera verde (La chambre verte, 1978) di François Truffaut a Figli
di un dio minore (Children of a lesser god, 1986) di Randa Haines,
da Il silenzio sul mare (Ano natsu, ichiban shizukana umi, 1991)
del giapponese Takeshi Kitano a Sulle mie labbra (Sur mes
lèvres, 2001) di Jacques Audiard, da Mr. Vendetta (Boksuneun
naui geot, 2002) di Park Chan-wook a La famiglia Bélier (La
Famille Bélier, 2014) di Éric Lartigau, giungendo ai più
recenti Sound of Metal (2019) di Darius Marder e al
meraviglioso successo nipponico Drive My Car (Doraibu mai kā, 2021) di Ryūsuke Hamaguchi.
Una scena del film
Ben
fatte e a loro modo indimenticabili una serie di sequenze come quelle della
tragedia in bagno e del terremoto; tuttavia, le circa due ore del film,
nonostante i presupposti, si rivelano eccessive rispetto alla materia trattata,
con un estenuante e sterile dilungarsi fine a sé stesso. Considerando luniverso
del Sol Levante come una dimensione costellata da tradizioni, mentalità e
costumi spesso ardui da comprendere per il mondo occidentale, questo titolo mette
a dura prova la pazienza e la sospensione dellincredulità dello spettatore per
via degli abbondanti punti di svolta, dei cacofonici cambi di registro e di
alcune trovate sconclusionate e di difficile giustificazione, come ad esempio le
reazioni dei personaggi di fronte al lutto o a certi altarini scoperti.
Certamente si riscontra unattenzione maniacale, con risultati eccellenti,
nellapparato scenografico, nonché un certo garbo e una certa misura
nellalternare scene drammatiche a situazioni più distese, sebbene si resti
piuttosto lontani dagli esiti “universali”, e quindi più adatti al pubblico
internazionale, di Hirokazu Koreeda per quanto riguarda il cinema, o di
quelli letterari di Haruki Murakami e Banana Yoshimoto. Lautocompiacimento
di Fukada, in un film di tutto rispetto, ci impedisce di tesserne ulteriori
lodi, in una Mostra che ha registrato, ahinoi, un livello complessivo
tuttaltro che memorabile.
|
 |