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Soli e divisi

di Giuseppe Mattia
  Love Life
Data di pubblicazione su web 14/09/2022  

Nella sfera delle cinematografie mondiali, a detta di Martin Scorsese, soltanto due di esse sono state in grado di esportare nel mondo la propria cultura, i traumi e i costumi attraverso il cinema: quella italiana e quella giapponese. In concorso ufficiale alla 79ª Mostra del Cinema di Venezia, Love Life di Kôji Fukada – vincitore del premio della giuria a Cannes nella sezione Un Certain Regard con Harmonium (2016) – si inserisce di diritto in questa riflessione del regista americano. A prova di ciò le varie rappresentazioni del rapporto dei personaggi con la morte, con la natura, con la povertà, con i pregiudizi e con le tradizioni. La casa di distribuzione Teodora Film ha distribuito la pellicola nelle sale italiane a partire dal 9 settembre 2022, sfruttando così la scia della presentazione al Lido.


Una scena del film

La giovane Taeko (Fumino Kimura), membro attivo in un’associazione di beneficienza, conduce una vita tranquilla in compagnia del marito Jirō (Kento Nagayama) e del figlio di sei anni Keita (Tetsuta Shimada), avuto dal precedente matrimonio. La presenza del bambino è mal digerita dai suoceri della donna, che vorrebbero un nipote biologicamente loro. In particolar modo per il suocero, secondo cui Taeko rappresenta uno “scarto”, in quanto il Jirō l’ha sposata nonostante fosse sul punto di convolare a nozze con un’altra (sua attuale collega). Durante la celebrazione di una prestigiosa vittoria di Keita al gioco Othello, una tragedia indicibile irrompe nel loro appartamento: il figlio, in seguito a una caduta nella vasca colma d’acqua, perde coscienza e annega. Il giorno del funerale fa la sua comparsa Park (Atom Sunada), il padre sordomuto del bambino, di cui da anni non si avevano notizie. Decisa a superare l’immane sofferenza e i roventi sensi di colpa, la protagonista accetta di supportare (e sopportare) l’ex marito, incapace di gestire i rapporti con la società a causa della sua inabilità. Tale decisione incrinerà ancor di più i rapporti già precari con Jirō, fino a un finale agrodolce sulle note del brano omonimo Love Life (1991) della musicista di Tokyo Akiko Yano.


Una scena del film

«Quando faccio un film, cerco di capire quanto possa essere universale. L’argomento principale di Love Life non è la tristezza di una coppia che ha perso un figlio, ma la solitudine che prova per l’incapacità di condividere il dolore: la tristezza, infatti, è unica e personale, la solitudine invece è tipica della condizione umana», così Fukada a proposito del film, che lo vede anche nelle vesti di unico sceneggiatore. Dunque, il regista pone l’accento sul senso di isolamento, sull’incapacità di comunicare, di guardarsi negli occhi e di poter sfogare liberamente la propria rabbia o la propria desolazione. Si prende come riferimento la figura di Park, personaggio tutt’altro che positivo: coreano di nascita (svariati i pregiudizi qui presenti nei confronti dell’altro paese asiatico), abbandona ben due donne e altrettanti figli; vive per strada grazie alla carità delle associazioni o ai sussidi statali. Il suo isolamento è esacerbato, oltre che dal proprio carattere, dal sordomutismo, in una società troppo spesso insensibile a tale condizione. La figura dell’inetto incapace di gestire relazioni col circostante, a causa di un differente approccio alla comunicazione, è stata numerose volte ritratta dalla settima arte: da La camera verde (La chambre verte, 1978) di François Truffaut a Figli di un dio minore (Children of a lesser god, 1986) di Randa Haines, da Il silenzio sul mare (Ano natsu, ichiban shizukana umi, 1991) del giapponese Takeshi Kitano a Sulle mie labbra (Sur mes lèvres, 2001) di Jacques Audiard, da Mr. Vendetta (Boksuneun naui geot, 2002) di Park Chan-wook a La famiglia Bélier (La Famille Bélier, 2014) di Éric Lartigau, giungendo ai più recenti Sound of Metal (2019) di Darius Marder e al meraviglioso successo nipponico Drive My Car (Doraibu mai kā, 2021) di Ryūsuke Hamaguchi.


Una scena del film

Ben fatte e a loro modo indimenticabili una serie di sequenze come quelle della tragedia in bagno e del terremoto; tuttavia, le circa due ore del film, nonostante i presupposti, si rivelano eccessive rispetto alla materia trattata, con un estenuante e sterile dilungarsi fine a sé stesso. Considerando l’universo del Sol Levante come una dimensione costellata da tradizioni, mentalità e costumi spesso ardui da comprendere per il mondo occidentale, questo titolo mette a dura prova la pazienza e la sospensione dell’incredulità dello spettatore per via degli abbondanti punti di svolta, dei cacofonici cambi di registro e di alcune trovate sconclusionate e di difficile giustificazione, come ad esempio le reazioni dei personaggi di fronte al lutto o a certi altarini scoperti. Certamente si riscontra un’attenzione maniacale, con risultati eccellenti, nell’apparato scenografico, nonché un certo garbo e una certa misura nell’alternare scene drammatiche a situazioni più distese, sebbene si resti piuttosto lontani dagli esiti “universali”, e quindi più adatti al pubblico internazionale, di Hirokazu Kore’eda per quanto riguarda il cinema, o di quelli letterari di Haruki Murakami e Banana Yoshimoto. L’autocompiacimento di Fukada, in un film di tutto rispetto, ci impedisce di tesserne ulteriori lodi, in una Mostra che ha registrato, ahinoi, un livello complessivo tutt’altro che memorabile.




Love Life
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La locandina


 
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