Dopo
diversi anni di assenza a Cannes, il cinema giapponese (così come quello
sudcoreano) sembra essersi risollevato a pieno, attirando su di sé lattenzione
della critica internazionale. Nellultima edizione del festival francese, il
talentuoso regista giapponese Ryūsuke Hamaguchi – reduce dal successo
alla Berlinale con Il gioco del destino e della fantasia (2021) – si è
aggiudicato lambìto Premio per la miglior sceneggiatura, a tre anni di
distanza dalla Palma doro del connazionale Hirokazu Koreeda per Un
affare di famiglia (2018). Tratto dellomonimo racconto dellormai celebre Haruki
Murakami che apre la raccolta Uomini senza donne (Einaudi, 2015), Drive
My Car è unopera incentrata sulle solitudini e sulle fragilità, che
conquista e avvince nonostante le tre ore di durata, un fattore che oggigiorno rappresenta
unardua prova per lattenzione degli spettatori nonché un ostacolo per la
circuitazione nelle sale.
Una scena del film
Una
coppia di mezza età, reduce dalla prematura scomparsa della figlia, si ritrova
a fare i conti con un equilibrio sentimentale quanto mai precario, basato sui lieti
momenti passati: Yusuke (Hidetoshi Nishijima) è un attore e regista
teatrale; la moglie Oto (Reika Kirishima) è una fedifraga seriale che
lavora come sceneggiatrice in una compagnia televisiva nazionale. I due vivono
sul filo del rasoio una relazione basata su tenerezze effimere e rapporti
sessuali freddi, lucidi, finalizzati allispirazione artistica: solo sulla
soglia dellamplesso la donna trova le soluzioni narrative legate ai propri
personaggi. Questa liaison “assurda” – seguita non a caso da una scena in
cui il protagonista interpreta Vladimir in Aspettando Godot di Beckett – è destinata a implodere per limprovvisa dipartita della donna. Dopo una
quarantina di minuti il prologo giunge così al termine, anticipando i titoli di
testa. Due anni dopo, luomo si ritrova a Hiroshima per allestire una
rappresentazione di Zio Vanja: il connubio tra questopera e la settima
arte non può non rimandare allultima fatica di Louis Malle, Vanya on
42nd Street (1994). Per circa due mesi Yusuke vive a stretto contatto con
un gruppo di persone che riusciranno, insieme al testo di Čechov, a
illuminare il suo abisso interiore, costellato di sensi di colpa e rimpianti.
Sebbene
la trama non sia da subito così avvincente, a sostenere i centottanta minuti è
sicuramente una sceneggiatura pregevole, fondata sulle interrelazioni e sullevoluzione/involuzione
dei personaggi, avvinghiati ognuno a proprio modo al mondo delle parole, tesi comprovata
dalla babele linguistica nella quale vive lintero cast: dal mandarino
al filippino, dal giapponese alla lingua dei segni. I dialoghi sovrastano
qualsiasi altro elemento tecnico-stilistico, risultando tuttavia leggeri e allo
stesso tempo incisivi, funzionali alla comprensione (piuttosto lenta) delle problematiche
del protagonista e della giovane autista Misaki: i due intrecciano e svelano
vicendevolmente il loro passato a bordo delliconica Saab 900 rossa di Yusuke,
spazio uterino, confortevole, sicuro. Il regista teatrale, da condottiero diventa
condotto, rovesciamento che si fa riflesso di unamara e sofferta presa di
coscienza di una serie di sbagli impossibili da sostenere.
Il
regista classe 1978 realizza un film destinato a un pubblico ristretto,
paziente, in grado di attendere il momento giusto per comprendere, per
decifrare gli interminabili scambi ma anche i rari, assordanti silenzi. La
tradizione cinematografica nipponica, fondata sulla dilatazione temporale e sui
piccoli gesti compiuti e non, è qui riportata in auge, influenzata particolarmente
dal contributo di Murakami, scrittore capace come pochi di evidenziare le
sfumature e le pieghe nascoste dellesistenza e dei turbamenti, come ad esempio
nei romanzi Norwegian Wood (1987) o Lincolore Tazaki Tsukuru e i
suoi anni di pellegrinaggio (2013). Nel film le parole, quelle della pièce
ma anche quelle dei protagonisti, svelano tradimenti, rimorsi, colpe, storie, assumendo
una funzione offensiva ma anche taumaturgica, indispensabile per la catarsi dei
personaggi, in una pellicola che entra dentro solo a chi glielo consente,
restando in febbrile attesa del suo prossimo lavoro.
|
|