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Horror vacui

di Giuseppe Mattia
  Sound of Metal
Data di pubblicazione su web 16/04/2021  

Nelle grandi fiabe, o nelle grandi epopee, gli eroi che lasciano il segno e che entrano di diritto nell’immaginario comune spesso hanno origini umili e ancor più spesso sono dati per sconfitti già in partenza. Sound of Metal (2019) dello statunitense Darius Marder – al suo esordio nel lungometraggio di finzione – si è presentato come la Cenerentola degli Oscar 2021. Nato da un’esperienza autobiografica del cosceneggiatore Derek Cianfrance – regista di The Place Beyond the Pines (2012) e di The Light Between Oceans (2016) – il film è stato presentato nel 2019 al Toronto International Film Festival e ha ottenuto ben sei candidature per la statuetta d’oro che ogni cineasta sogna ardentemente di sollevare, conquistando quelle di miglior montaggio e di miglior sonoro.


Una scena del film

Sin dalle prime inquadrature lo spettatore si ritrova sul palco di un club durante un concerto di musica metal, frastornato e incantato da una roboante batteria che riporta alla mente Whiplash (2014) di Damien Chazelle. Il percussionista in azione è l’ex eroinomane Ruben Stone, interpretato da Riz Ahmed, l’eccezionale protagonista della miniserie televisiva The Night Of (2016). Il giovane conduce una vita su un camper – fra tour e incisioni di album – in compagnia della cantante Louise (Olivia Cooke), quando da un momento all’altro si ritrova a dover fare i conti prima con l’acufene e poi con la progressiva perdita dell’udito. La sua esistenza di vetro va in frantumi, facendolo sprofondare in un angoscioso baratro. L’unica luce possibile per lui è rappresentata dall’ingresso in una comunità di non udenti, “figli di un dio minore”, guidata dal reduce Joe (Paul Raci), rimasto sordo in Vietnam in seguito allo scoppio di una granata. Il protagonista inizia così il suo percorso di rinascita e di riaffermazione, come chi impara per la prima volta a camminare, a comunicare, a respirare.



Una scena del film

Il titolo del film è di una disarmante genialità: è sia fuorviante – in quanto la musica metal è presente solo in una manciata di minuti – sia evocativo, per l’alternativa traduzione di “suono metallico”, lo stesso che affligge Ruben in seguito all’operazione chirurgica a cui si sottopone verso il finale. Lo spettatore non si limita a sentire ma arriva a vivere tutti i suoni e tutti i rumori presenti nella testa del batterista, in una vera e propria soggettiva (non visiva ma acustica). La struttura narrativa risulta essere abbastanza lineare e prevedibile, senza infamia e senza lode nel percorrere le classiche fasi di equilibrio iniziale, rottura e creazione di una nuova stabilità, con una storia d’amore che funge da humus. Tralasciando alcuni scambi di battute un po’ troppo didascalici (solitamente presenti nelle opere prime), i punti di forza di Sound of Metal sono retti dalla dialettica tra dramma e rinascita ma soprattutto dall’immersione emotiva e sensoriale dello spettatore: perché descrivere una mancanza quando si può farla vivere? Altro punto di forza è la discrezione complessiva degli autori nel prevenire eccessi melodrammatici assumendo, al contrario, toni sommessi, una dignità e un equilibrio che rendono il tutto più godibile e meno esposto a forzature tipicamente hollywoodiane.



Una scena del film

La perdita di un qualcosa di così importante, come appunto una facoltà sensoriale, rappresenta in genere un vero e proprio lutto. Ruben percorrerà le cinque fasi di elaborazione teorizzate dalla psichiatra Elisabeth Kübler Ross: negazione, rabbia, contrattazione, depressione, accettazione. Nella pellicola questo iter è sorretto da un lavoro sul sonoro di eccelsa caratura e da una regia non particolarmente originale ma capace di valorizzare la recitazione di Ahmed nell’ira repressa e nelle sfuriate, nella vergogna sommessa di frequentare lezioni con dei bambini e nella pazienza nel sottostare agli ordini di Joe, pena la cacciata da quello che diventerà per il protagonista un locus amoenus. La comunità tenterà in tutti i modi di far comprendere a Ruben che la sordità, innata o successiva che sia, non deve essere vissuta come un handicap, come una deformità o come un qualcosa a cui porre rimedio. Il mantra del gruppo è che la soluzione a tutto è solo nella propria testa. Ma l’ennesima (e forse) irreversibile incrinatura avrà luogo quando il protagonista tenterà a tutti i costi di compensare la privazione subita. Alla fine di tutto questo percorso Ruben raggiungerà finalmente, in uno scioglimento memorabile, una sorta di quiete bergmaniana: l’agognato silenzio di Dio.




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