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Prendi i sogni e scappa

di Giuseppe Mattia
  Rifkin’s Festival
Data di pubblicazione su web 14/05/2021  

Quando Woody Allen ordisce le proprie trame nella Grande Mela il più delle volte la componente pragmatica prevale su quella idealistica; quando invece decide di girare in Europa i suoi protagonisti si ritrovano spesso a vagare per le strade, scivolando in una realtà “altra” fatta di ricordi, di sogni, di rimpianti. A circa un anno di distanza da A Rainy Day in New York, l’indefesso autore classe 1935 approda nelle sale dopo le difficoltà incontrate a causa dell’emergenza pandemica a cui si aggiunge la vicenda giudiziaria (riaccesa dalla ex moglie Mia Farrow) che ha sancito una forse insanabile frattura con Hollywood (con Netflix sicuramente): anche se da lontano, Allen non le manda a dire alle grandi case di produzioni e ai grandi attori che gli hanno voltato le spalle.


Una scena del film

Rifkin’s Festival trova il suo spazio d’azione in Spagna – come già Vicky Cristina Barcelona (2008) –, precisamente nella città di San Sebastián, durante lo svolgimento del noto festival cinematografico. Proprio la kermesse svolge la funzione di catalizzatore per il progressivo deterioramento della coppia formata da Mort Rifkin (Wallace Shawn), professore in pensione di storia del cinema, e dalla moglie Sue (Gina Gershon), addetta all’ufficio stampa. Entrambi entrano in contatto con persone più giovani di loro, rispettivamente con la dottoressa Jo Rojas (Elena Anaya) e con il regista Philippe (Louis Garrel). Il protagonista incarna (come al solito) l’alter ego di Allen, condividendo le stesse fobie, frustrazioni e nevrosi tipicamente borghesi tutte novecentesche. Intrecciando le vicende sentimentali delle quattro figure primarie, il film offre l’ennesimo, riuscito omaggio al cinema d’autore europeo: diversi, infatti, i segmenti in cui Mort si ritrova suo malgrado all’interno delle pellicole dei grandi autori del passato, rivivendo celebri scene tratte dai vari Fellini (, 1963), Bergman (Il posto delle fragole, 1957; Il settimo sigillo, 1957; Persona, 1966), Truffaut (Jules e Jim, 1962), Godard (Fino all’ultimo respiro, 1960) e Buñuel (L’angelo sterminatore, 1962).



Una scena del film

Quello del protagonista («A middle-class jew from the Bronx») è un percorso finalizzato a riscoprire sé stesso attraverso i propri sbagli, le occasioni perse, gli amori non corrisposti, il coraggio assente. Come i precedenti e omologhi “doppi” di Allen, il professor Rifkin approda a quel coraggio nel farsi sopraffare dai sentimenti, di essere libero ma anche di rendere liberi (in questo caso la moglie) come un Prospero shakespeariano che sente di aver compiuto la sua opera. Il binario della sua vita vede da un lato le isterie e l’insoddisfazione personale e dall’altro quel bisogno spasmodico nel rifugiarsi nei sogni e nella fantasia, un po’ come per i protagonisti di The Purple Rose of Cairo (1985) e di Midnight in Paris (2011).

Le citazioni cinefile non possono non entusiasmare gli amanti della settima arte e distrarli da una trama forse troppo gracile, fragile anche dal punto di vista dei dialoghi (considerando la sempre molto alta aspettativa per le sue sceneggiature). Il principale salvagente dell’intera opera risiede sicuramente nella forza delle immagini, rese ammalianti come un dipinto secentesco dall’inesauribile Vittorio Storaro, capace di rendere tangibili le sfumature dei pomeriggi assolati iberici nonché di intrecciare i luoghi ai personaggi rendendoli un tutt’uno, come in Wonder Wheel (2017). Menzione doverosa per la prova di Shawn, attore che ha esordito proprio con Allen nell’indimenticabile Manhattan (1980): quando a un certo punto Mort cita Čechov sovviene all’istante la sua interpretazione di Zio Vanja in Vanya on 42nd Street (1994), ultimo lavoro di Louis Malle.



Una scena del film

Si rimprovera spesso a Woody Allen di confezionare (o riciclare) da decenni gli stessi topoi, la stessa struttura, lo stesso ritmo (addirittura le stesse scelte musicali). Le medesime critiche vengono rivolte anche a un autore come Terrence Malick (si veda il caso A Hidden Life, 2019). A loro favore gioca la coerenza stilistica che attraversa le rispettive pellicole. Ogni ammiratore dell’uno o dell’altro regista si reca in sala per “vivere” quello stile, quel ritmo, quella data impalcatura narrativa (si va in un museo ad ammirare anche cinquanta girasoli di Van Gogh). Poco importa poi se un film non regge il paragone con il precedente. È vero che il regista originario del Bronx campa un po’ di rendita, osa poco e quasi ostenta una certa pigrizia in questa prova volutamente disimpegnata senza grosse aspettative. Tuttavia, va segnalata la sua coraggiosa presa di posizione contro un cinema di mero intrattenimento, contro il sistema pretenzioso fatto di giovani registi narcisisti e di tutte quelle ipocrisie e menzogne che logorano il mondo della settima arte facendo così rimpiangere le pellicole d’un tempo. Il finale aperto e muto (ulteriore omaggio felliniano) fa presupporre che il capitolo conclusivo della sua sterminata filmografia sia ancora di là da venire…




Rifkin’s Festival
cast cast & credits
 


La locandina del film



 
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