Quando Woody Allen ordisce le proprie trame nella Grande Mela il più delle volte la componente pragmatica prevale su quella idealistica; quando invece decide di girare in Europa i suoi protagonisti si ritrovano spesso a vagare per le strade, scivolando in una realtà “altra” fatta di ricordi, di sogni, di rimpianti. A circa un anno di distanza da A Rainy Day in New York, lindefesso autore classe 1935 approda nelle sale dopo le difficoltà incontrate a causa dellemergenza pandemica a cui si aggiunge la vicenda giudiziaria (riaccesa dalla ex moglie Mia Farrow) che ha sancito una forse insanabile frattura con Hollywood (con Netflix sicuramente): anche se da lontano, Allen non le manda a dire alle grandi case di produzioni e ai grandi attori che gli hanno voltato le spalle. Rifkins
Festival trova
il suo spazio dazione in Spagna – come già Vicky Cristina Barcelona
(2008) –, precisamente nella città di San Sebastián, durante lo svolgimento del
noto festival cinematografico. Proprio la kermesse svolge la funzione di
catalizzatore per il progressivo deterioramento della coppia formata da Mort
Rifkin (Wallace Shawn), professore in pensione di storia del cinema, e
dalla moglie Sue (Gina Gershon), addetta allufficio stampa. Entrambi
entrano in contatto con persone più giovani di loro, rispettivamente con la dottoressa
Jo Rojas (Elena Anaya) e con il regista Philippe (Louis Garrel). Il
protagonista incarna (come al solito) lalter ego di Allen, condividendo
le stesse fobie, frustrazioni e nevrosi tipicamente borghesi tutte
novecentesche. Intrecciando le vicende sentimentali delle quattro figure primarie,
il film offre lennesimo, riuscito omaggio al cinema dautore europeo: diversi,
infatti, i segmenti in cui Mort si ritrova suo malgrado allinterno delle
pellicole dei grandi autori del passato, rivivendo celebri scene tratte dai
vari Fellini (8½, 1963), Bergman (Il posto delle
fragole, 1957; Il settimo sigillo, 1957; Persona, 1966), Truffaut
(Jules e Jim, 1962), Godard (Fino allultimo respiro,
1960) e Buñuel (Langelo sterminatore, 1962).
Una scena del film
Quello
del protagonista («A middle-class jew from the Bronx») è un percorso
finalizzato a riscoprire sé stesso attraverso i propri sbagli, le occasioni
perse, gli amori non corrisposti, il coraggio assente. Come i precedenti e
omologhi “doppi” di Allen, il professor Rifkin approda a quel coraggio nel
farsi sopraffare dai sentimenti, di essere libero ma anche di rendere liberi
(in questo caso la moglie) come un Prospero shakespeariano che sente di aver
compiuto la sua opera. Il binario della sua vita vede da un lato le isterie e
linsoddisfazione personale e dallaltro quel bisogno spasmodico nel rifugiarsi
nei sogni e nella fantasia, un po come per i protagonisti di The Purple
Rose of Cairo (1985) e di Midnight in Paris (2011).
Le citazioni
cinefile non possono non entusiasmare gli amanti della settima arte e distrarli
da una trama forse troppo gracile, fragile anche dal punto di vista dei
dialoghi (considerando la sempre molto alta aspettativa per le sue sceneggiature).
Il principale salvagente dellintera opera risiede sicuramente nella forza
delle immagini, rese ammalianti come un dipinto secentesco dallinesauribile Vittorio
Storaro, capace di rendere tangibili le sfumature dei pomeriggi assolati iberici
nonché di intrecciare i luoghi ai personaggi rendendoli un tuttuno, come in Wonder
Wheel (2017). Menzione doverosa per la prova di Shawn, attore che ha
esordito proprio con Allen nellindimenticabile Manhattan (1980): quando
a un certo punto Mort cita Čechov sovviene allistante la sua
interpretazione di Zio Vanja in Vanya on 42nd Street (1994), ultimo
lavoro di Louis Malle.
Una scena del film Si rimprovera spesso a Woody Allen di confezionare (o riciclare) da decenni gli stessi topoi, la stessa struttura, lo stesso ritmo (addirittura le stesse scelte musicali). Le medesime critiche vengono rivolte anche a un autore come Terrence Malick (si veda il caso A Hidden Life, 2019). A loro favore gioca la coerenza stilistica che attraversa le rispettive pellicole. Ogni ammiratore delluno o dellaltro regista si reca in sala per “vivere” quello stile, quel ritmo, quella data impalcatura narrativa (si va in un museo ad ammirare anche cinquanta girasoli di Van Gogh). Poco importa poi se un film non regge il paragone con il precedente. È vero che il regista originario del Bronx campa un po di rendita, osa poco e quasi ostenta una certa pigrizia in questa prova volutamente disimpegnata senza grosse aspettative. Tuttavia, va segnalata la sua coraggiosa presa di posizione contro un cinema di mero intrattenimento, contro il sistema pretenzioso fatto di giovani registi narcisisti e di tutte quelle ipocrisie e menzogne che logorano il mondo della settima arte facendo così rimpiangere le pellicole dun tempo. Il finale aperto e muto (ulteriore omaggio felliniano) fa presupporre che il capitolo conclusivo della sua sterminata filmografia sia ancora di là da venire…
|
|