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Scrivere con la luce. Su Vittorio Storaro

di Marco Pistoia
  Vittorio Storaro
Data di pubblicazione su web 19/01/2021  

In occasione del centenario dalla propria fondazione l’American Society of Cinematographers (ASC) ha dedicato la copertina di «American Cinematographer» – e una lunga intervista – a Vittorio Storaro, che nel 2020 ha compiuto ottant’anni. A margine di questo “speciale”, curato da Terry McCarthy (pp. 24-37), in appositi box alcuni fra i maggiori colleghi contemporanei del maestro ne tessono le lodi, sia artistiche sia umane: da Roger Deakins a Robert Richardson, da Ed Lachman a Janusz Kaminski, tutti ne sottolineano le speciali qualità nel creare complesse relazioni e composizioni visive tra luci e ombre, l’attitudine a lavorare in stretto, virtuoso rapporto con i registi e la determinante influenza che, a propria volta, ha avuto su di loro.

Storaro e i suoi registi significa raccontare il lavoro del maestro romano lungo oltre cinquant’anni: in particolare con Bernardo Bertolucci, Francis Ford Coppola e Warren Beatty. Con il primo, Storaro iniziò a lavorare per Prima della rivoluzione (1964) quale assistente di Aldo Scavarda, mentre come responsabile della fotografia ha realizzato otto film (da Strategia del ragno, 1970, a Piccolo Buddha, 1993, toccando il vertice con Il conformista, 1970, e con Novecento, 1976, ma vincendo l’Oscar con L’ultimo imperatore, 1987, nell’insieme meno felice degli altri ma assai ricco di immagini, luci e colori di splendida fattura). Attualmente sta lavorando a nuovi restauri dei dieci film che complessivamente ha realizzato con Bertolucci. Per la conservazione dei film si avvale di un sistema denominato DOTS (Digital Optical Technology System): un nastro in lega di metallo non magnetico immune dai campi elettromagnetici, equivalente digitale delle separazioni del bianco e nero, prodotto dagli studi Eastman Kodak e concepito per durare qualcosa come duemila anni. Ultimamente Storaro ha ultimato il restauro de Il conformista e sta per completare quello de L’ultimo imperatore (almeno a far data al periodo dell’intervista rilasciata ad «American Cinematographer»).

Con Coppola sono quattro i film realizzati e con Beatty tre: se i due Oscar sono stati ovviamente assegnati rispettivamente per Apocalypse Now (1979) e per Reds (1981), notevole è anche il lavoro per One from the Heart (Coppola, 1982) e per Dick Tracy (Beatty, 1990).

Di ciascuno dei tre registi citati nell’intervista, Storaro offre dapprima un sintetico quanto preciso profilo artistico e di personalità: Bertolucci, figlio di poeta e poeta egli stesso, scrive attraverso la macchina da presa la storia poetica di un film; Coppola, figlio di immigrati, punta stilisticamente sul colore e sulle emozioni; Beatty, in primo luogo attore, è interessato a mettere in rilievo il personaggio principale e così in Reds si identifica con John Reed convertendo in film la scrittura del giornalista americano (il suo celebre Dieci giorni che sconvolsero il mondo).

Capace di rifiutare E.T. (Spielberg, 1982), salvo poi sentirsi dire dai suoi figli: «perché non hai fatto tu un film come questo?», Storaro ha sempre tenuto fede a una massima di Jean Cocteau (citata nel dossier di «American Cinematographer») secondo la quale il cinema è un sogno che si sogna insieme. Così ha continuato a ritenere che non tutti i cinematographers possano lavorare con tutti i registi (e viceversa) ed è necessario entrare in un regime di relazioni speciali tra le parti. Proprio ciò che, come si è detto, gli riconoscono i colleghi fra le molte sue virtù.

Nell’intervista a McCarthy Storaro offre notizie e osservazioni di grande interesse su alcuni dei suoi più importanti film: dall’idea di utilizzare delle tende alla veneziana per schermare l’illuminazione di una delle scene del Il conformista, dove l’abito a righe bianche e nere della Sandrelli intensifica gli effetti della luce (e delle ombre), alla soluzione, introdotta nello stesso film, di lasciare in una profonda zona di ombra la figura del professor Quadri (Enzo Tarascio) mentre parla con Marcello Clerici (Jean-Louis Trintignant, inquadrato con maggiore illuminazione), come a evocare il platonico mito della caverna.

Il primo incontro con Bertolucci fu fulminante, racconta Storaro: avevano entrambi poco più di vent’anni e il cinematographer rimase folgorato nel vedere il maestro parmense che studiava un’inquadratura e preparava il set attraverso il tipico mirino (il viewfinder) del fotografo («Oh mio Dio, non avevo mai visto fare una cosa simile a un regista»). Già a partire da quel primo set del 1964 Storaro modificò o cominciò a modificare il proprio modo di essere un, all’epoca, operatore alla macchina. D’altra parte – ricorda – Bertolucci era già così meticoloso da indirizzare e influenzare subito il futuro lavoro del grande autore di fotografia. Al tempo della lavorazione de Il conformista, i due cineasti concordarono con la scelta di ricorrere a una definizione monocromatica per le scene ambientate nell’Italia fascista e a un’immersione nei colori – a esempio il blu del cielo – per le scene ambientate nella Parigi libera e pre-bellica, con Storaro che si ispirò in particolare a De Chirico per le scene romane. Bertolucci gli suggerì di andare a vedere La caduta degli dei (Visconti, 1969) perché riteneva di voler andare in quella direzione visuale, ma Storaro preferì non farlo perché aveva un’idea molto forte su come realizzare il “proprio” film e non voleva cambiare direzione. Bertolucci cedette: bisognava avere un’idea davvero forte per trovare il coraggio di dire una cosa tale a un regista del genere.

Uno dei maggiori aspetti fra quelli che hanno connotato il rapporto con Bertolucci risiede, dice ancora Storaro, nell’aver condiviso un atteggiamento non sempre necessariamente conscio o razionalmente consapevole nell’organizzare la messa in film; come se entrambi si trovassero in una dimensione fortemente onirica. A propria volta Bertolucci ha affermato che Storaro è stato come la sua coscienza e che con il suo stile di illuminazione delle scene ha costruito i colori, le ombre e la luce delle inquadrature dei suoi film.

A proprio modo anche la collaborazione con Coppola ebbe avvio attraverso il tramite del sogno, insito nello scopo, da parte del regista, di realizzare un film impegnativo e grandioso quale Apocalypse Now. Tra l’altro Storaro dovette all’inizio superare l’imbarazzo di essere stato scelto in luogo dell’abituale, altrettanto geniale cinematographer di Coppola, Gordon Willis, il quale peraltro agevolò molto il suo rapporto con Coppola e l’avvio della lavorazione del film. Come noto da quel momento la loro collaborazione è proseguita per diversi anni (e diversi film). Uno degli aspetti che Storaro sottolinea di più è la capacità del regista statunitense di aprirgli continuamente la mente e la fantasia, con grande libertà.

Infine l’attenzione si concentra su Warren Beatty. Questi, essendo in prima istanza attore, recitò di fronte a Storaro, per almeno due ore, quel che sarebbe diventato Reds, anziché raccontargli la sceneggiatura. Dopodiché Beatty iniziò la vera e propria lavorazione del film, convocando tutti i giorni insieme anche lo scenografo, il costumista e il montatore e discutendo con loro ogni singola scena, assumendo un punto di vista privilegiato – quello del personaggio – attraverso il quale guardare alla storia del film. Sul set di Reds Storaro conobbe l’inventore della steadycam, Garrett Brown, divenendone amico.

Poi vennero gli anni dei film con Carlos Saura e in seguito quelli con Woody Allen, sodalizio che prosegue ancora oggi. Rimanendo fedele all’idea che, pur essendo un film opera di più menti, c’è solo un “direttore” ed è il regista. «Io (Storaro) sono un cinematographer! (e, dunque, non un “direttore”…)». 




 

Sull’Intervista a 
Storaro in
Storaro e i suoi registi
«American Cinematographer», 
Vol. 101, No. 7, July 2020, 
pp. 24-37


 
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