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La strategia del riccio e la moltiplicazione degli schermi: il cinema pandemico

di Pietro Ammaturo
  Locked Down
Data di pubblicazione su web 06/05/2021  

Londra, 2020. In lockdown causa Covid lei, donna in carriera organizzatrice di eventi, lui autista di camion dal passato burrascoso, si ritrovano segregati a condividere una profonda crisi di coppia. Inaspettatamente il destino li metterà di fronte a una scelta (non solo di vita) che potrebbe cambiare per sempre le loro esistenze.

Già diverse riviste specializzate (quali «Bianco e nero» e «Segnocinema») si sono occupate dell’impatto che ha avuto il Covid sul cinema: al di là della questione sale-streaming-ricavi-mancate uscite, la riflessione si è concentrata, e si dovrà ancora concentrare, non solo su come i registi si sono “adattati al virus” tecnicamente, ma anche narrativamente: l’oggettività del quotidiano, l’esposizione sempre più massiccia agli schermi (monitor, tablet, smartphone) per trovare una rinnovata “vicinanza”, la centralità dell’immagine della casa come “rifugio”. Su queste prospettive si era già mosso Malcolm & Marie (primo film a essere realizzato in piena pandemia). Sulla stessa linea d’onda si sviluppa questa nuova pellicola di Doug Liman.


                                   Una scena del film

Già il titolo è emblematico: da un lato indica la chiusura forzata che tutti conosciamo, dall’altro il concetto stesso di “blocco”, questa volta quanto mai chiaramente emotivo più che fisico. Girato in una Londra completamente vuota causa lockdown, il regista sfrutta la serrata sceneggiatura di Steven Knight (noto per La promessa dell’assassino, 2007) spingendosi verso quella che poi diventa una profonda indagine sociale di tipo sperimentale. Tornano utili le parole di Krzysztof Kieślowski in un’intervista del 1989: «Ogni uomo, quando è osservato, presenta sempre un lato chiaro e uno oscuro: il primo è quello sociale, il secondo è il complesso delle sue sensazioni, dei suoi stati d’animo, dei suoi pensieri. Nel film di fiction, posso tentare di narrare direttamente il lato oscuro, quel mistero che ogni uomo porta dentro di sé e che deriva dal suo rapporto unico nei confronti della vita». Non a caso le prime inquadrature ritraggono un piccolo riccio che cerca di arrampicarsi su dei gradini: metafora chiarissima dei protagonisti che, appena messi di fronte a delle scelte (positive e non) o dei pericoli, tirano fuori gli aculei, pronti ad attaccare ma soprattutto a proteggersi (forse non solo sé stessi).


                                   Una scena del film

Tralasciando la spettacolarità, il regista esce dai suoi canoni action-fantascientifici (ha diretto l’interessante Edge of Tomorrow - Senza domani, nel 2014, e il primo film dedicato alla serie del misterioso Jason Bourne, The Bourne Identity, nel 2002) e si chiude in casa con i protagonisti, teatralizza i loro movimenti, li tallona (con precisi movimenti di macchina a spalla), dando la possibilità ai due attori protagonisti di esprimersi al meglio e poggiare sulle loro interpretazioni tutto il film. Chiwetel Ejiofor e Anne Hathaway non sono che un pretesto per rappresentare la dualità dell’essere umano di fronte all’emergenza pandemica, sociale e privata (e si noti ancora la vicinanza con il già citato Malcolm & Marie: coppia rinchiusa in una casa, crisi profonda, soluzione finale ambigua). Il primo dona una recitazione nervosa e schizofrenica, controcorrente rispetto al passato e impaurito dal presente (usa una sorta di bandana da bandito come mascherina); la seconda è cinica, spietata, ambigua, fumatrice incallita e quasi alcolizzata, ma rinchiusa in casa terrorizzata dal virus, la prima a indossare la mascherina. Liman, per aumentare il senso di distacco, non solo sociale, ma intimo tra i protagonisti (metafora di un discorso molto più ampio), li moltiplica attraverso schermi di tablet, portatili, programmi di videocall, per catapultarci nella problematicità del rapporto morboso tra contemporaneo e nuovissimi media.


                                   Una scena del film

Discorso a parte merita la componente sonora: il silenzio regna nel film e l’unica musica extradiegetica è nei minuti finali, a enfatizzare il passaggio della decisione dei protagonisti e a trasformare, purtroppo, quello che era partito come un film stimolante (e quasi documentaristico) in un heist movie, più nelle corde del regista. Più Kieślowski e meno action: forse il film avrebbe vinto in drammaturgia, originalità, spinta metaforica.



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