La
battuta iniziale, in pieno (straordinario) carrello-piano sequenza, urlata dal
protagonista (regista di colore alle prese con la “prima” del suo film, in
balia dei critici “bianchi”), diventa snodo (forse già) centrale per Malcolm & Marie, film scritto e
diretto da Sam Levinson. Nonostante
la ridotta filmografia (tre lungometraggi, una serie tv e due sceneggiature) si
può già indicare una sorta di fil rouge
che lega tutto il suo lavoro: il disagio. Figlio darte, a partire dallesordio
con Another Happy Day (2011), Levinson
ha tracciato una precisa linea danalisi del concetto di famiglia americana
contemporanea. Questo senso di forte disagio si concentra soprattutto sui
giovani nel successivo Assassination
Nation (2018) e nella serie televisiva Euphoria
(dal 2019), in cui emerge la figura di una giovane tossicodipendente interpretata
dalla ventiquattrenne Zendaya, che
torna in questo film (con una interpretazione straordinaria) in un ruolo
identico e traslato (forse non solo nel tempo).
Una scena del film Salito
agli onori della cronaca come il primo film a essere realizzato in epoca
Covid-19, risente sicuramente dellaspetto pandemico, non solo nella
produzione, ma anche nei contenuti: i due giovani protagonisti (anche
produttori, insieme al regista), Zendaya e John
David Washington (figlio del noto Denzel) non sono altro che una “famiglia”
alle prese con una esperienza che li ha “congelati”, bloccati in sé stessi,
senza nessuno con cui parlare o interagire. Il mondo fuori esiste solo
attraverso schermi, silenzi, passwords,
monitor. Presto da una banale
lite emergeranno mostri interiori di portata catastrofica.
Immerso
nella (forse troppo televisiva) fotografia in bianco e nero di Marcell Rév, il film cerca, fin dai
titoli di testa, di richiamare qualcosa di nostalgico, uno stile lontano ma
allo stesso tempo ancora affascinante, cucendo addosso ai protagonisti e ai
luoghi che abitano uno strano alone di misticismo, enfatizzato dalle riprese in
35 mm. La scelta della pellicola, così come il bianco e nero, e la ricerca
esasperata dellinquadratura hanno spaccato la critica su due fronti: da un
lato i cinefili puri, che applaudono alla mano del regista, alla sceneggiatura
che omaggia il melodramma classico di Douglas Sirk, degli attori
pulsanti; dallaltra i detrattori di un certo cinema per pochi, troppo
egocentrico, spinto fino alleccesso sui dialoghi e le inquadrature fisse, che
porta il tutto verso un “nulla” definitivo e (banalmente) classicissimo.
Una scena del film
E
se fosse così? Se il vero punctum, per
dirla con Barthes, fosse tutto in
quel lungo piano sequenza iniziale? È certo che Levinson lavora su diverse
percezioni spettatoriali, moltiplicando le interpretazioni proprio per lenorme
duttilità della sua opera. Se in superficie si legge la critica (sempliciotta) al
razzismo e alla possibilità di essere accettati dallestablishment dello
spettacolo contemporaneo, cè in profondità un discorso meta-cinematografico
ben più complesso. Non solo nelle citazioni continue: Malle e Wyler nella
sceneggiatura, le calze della Loren
di Ieri, oggi e domani (1963), il montaggio
godardiano di Fino allultimo respiro
(1960); ma nello stesso rapporto burrascoso che si genera tra gli attori, che
sono essi stessi metafora della costruzione “travagliata” di unopera
cinematografica. A rafforzare quel senso di amalgama tensiva tra melodramma e
crisi cè anche la colonna sonora, con brani inediti di Labrinth ed editi che spaziano dal jazz al soul
(calma vs potenza).
Il
senso di profondo smarrimento (ci sono echi del Wim Wenders di Ritorno alla vita, 2015) è forte, soprattutto per
alcune scelte registiche eccessive (il gioco di specchi nel finale,
semplicemente realizzato quasi a dire “guardate quanto sono bravo”) che
potrebbero far pensare a Levinson come portatore sano di cultura
cinematografica verso un genere che potremmo etichettare noir
melodrammatico. Genialità o furbizia?
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