Presentato al Sundance Film Festival 2020 vincendo il Gran premio della giuria e il Premio del Pubblico, Minari (2020), scritto e diretto da Lee Isaac Chung, ha cominciato a fare incetta di riconoscimenti e apprezzamenti in tutto il mondo: dal Golden Globe per il miglior film in lingua straniera (sebbene la produzione sia statunitense) alle sei candidature della notte degli Oscar, in cui si è aggiudicato la statuetta per la miglior attrice non protagonista ( Yoon Yeo-jeong). Dopo lesperienza di Okja (2017) di Bong Joon-ho – che lanno scorso ha sbaragliato tutti a Los Angeles con Parasite (2019) – il produttore esecutivo del film, un “certo” Brad Pitt, ritorna a collaborare con un autore sudcoreano, fiutando il valore della storia messa in scena. Ispirato allinfanzia dellautore a stelle e strisce classe 1978, figlio di emigrati coreani, il film ripercorre una vicenda familiare apparentemente semplice, raccontata in maniera fluida senza grandi velleità spettacolari, affrontando la tematica del “sogno americano” e dei sacrifici per raggiungerlo. Ambientato
durante la cosiddetta “Reagan Revolution” degli anni Ottanta, i quattro
componenti della famiglia sono intenti a traslocare dalla California verso i
territori rurali dellArkansas. La nuova dimora degli Yi è una precaria casa
con delle ruote, un tema casualmente presente agli Oscar sia in Nomadland (2020)
sia in Sound of Metal (2019). Il pater familias Jacob (Steven
Yeun) insegue la chimera del benessere economico attraverso la coltivazione
di frutta e verdura coreana, puntando sulla nostalgia del cibo “di casa”
vissuta da decine di migliaia di suoi connazionali che ogni anno approdano nel
Nuovo Mondo. Per sbarcare il lunario lavora con la moglie Monica (Han Ye-ri)
in un centro di pollicoltura, effettuando la pratica del sessaggio e
condannando al rogo migliaia di pulcini di sesso maschile, reputati inutili
dalle aziende. In mezzo a numerose difficoltà di coppia, economiche e di salute
(come il problema cardiaco del figlio più giovane), la donna manifesta
quotidianamente il proprio malcontento e le proprie preoccupazioni dettate,
inoltre, dalleccessiva lontananza rispetto allospedale più vicino. A stravolgere
il già precario equilibrio degli Yi cè larrivo dalla Corea di Soon-ja (Yoon
Yeo-jeong), eccentrica e imprevedibile madre della donna.
Una scena del film
La
delicata, penetrante colonna sonora di Emile Mosseri accompagna
questi cinque individui nelle loro effimere gioie e nei loro tangibili turbamenti:
di notevole intensità la scena nella quale i due genitori litigano con veemenza
e i due figli tentano di placarli lanciando loro aeroplani di carta con sopra
scritto «Non litigate». La potenza di determinate sequenze è avvalorata dallalternanza
tra la lingua inglese – usata nelle conversazioni “civili” – e quella “madre”
coreana, applicata nei momenti di paura e rabbia. Lictus che colpisce la nonna
(situazione simile a quella eduardiana in Natale in casa Cupiello) costringe
i restanti membri a ridimensionare le proprie abitudini: lanziana, nel bene e
nel male, ha la funzione di collante, avvalendosi della propria leggerezza emotiva
e del proprio spirito di adattamento incarnato dal minari, pianta acquatica con
la capacità di crescere ovunque (ideale metafora di multiculturalismo) in
maniera indipendente, nonché di elargire frutti, a detta della donna, senza fare
distinzioni tra poveri e benestanti. Il punto di rottura viene a un certo punto
decretato dalle differenti scelte di Jacob e Monica, moderni Malavoglia di
fronte a una sciagura “ardente”.
Una scena del film Rimanendo sullonda delle solide e per certi versi indimenticabili produzioni sudcoreane degli ultimi anni (si pensi ai lavori del citato Bong Joon-ho, di Lee Chang-dong, Park Chan-wook e del recentemente scomparso Kim Ki-duk), Minari porta avanti una poetica incentrata sulle complicate relazioni consanguinee e sullintegrazione, troppo spesso ostacolata da pregiudizi di natura etnica e razziale. Lultima fatica di Chung è senzaltro un lavoro pesato, misurato in ognuna delle proprie pieghe. La sensazione che arriva allo spettatore è quella di un regista con i piedi per terra, consapevole dei rischi “autobiografici”, attento a evitare forzature: ciò si rispecchia nella sceneggiatura controllata e realistica – capace di raffigurare un contesto socioculturale verosimile e autentico, seppur non abbastanza indagato – e nella regia che guida discreta i dialoghi e gli attori nelle loro vicissitudini, forse con troppa prudenza ma restituendo un ritratto onesto e godibile fino allultima idilliaca inquadratura.
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