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Eva Marinai

Gli antieroi. Dario Fo

Data di pubblicazione su web 28/11/2016
Gli antieroi. Dario Fo

Facendo seguito alla riflessione aperta su «Drammaturgia» il 19 ottobre 2016, in ricordo di uno dei nostri più grandi attori-autori, Intorno a Dario Fo di Teresa Megale e Siro Ferrone, e per rispondere in modo meno polemico e più approfondito al dibattito con cui i principali quotidiani nazionali hanno accompagnato – poco elegantemente – i funerali dell’artista, in merito soprattutto alla presunta “partecipazione volontaria” alla Repubblica di Salò, propongo un contributo inedito per ripensare da una prospettiva nuova il legame tra spettacolo – “comico-popolare” in particolare –, cultura e storia politica (Resistenza, fascismo, poi “American Way of Life”) negli anni dell’immediato dopoguerra.

Eravamo tutti per un cambiamento generale,
in arte come in politica, e non davamo retta 
al partito, che ci diceva di fare gli artisti e di 
rimanere al nostro posto. Oggi è impensabile 
cosa fosse Milano allora e come un pittore, 
quale io volevo essere, si sentiva coinvolto 
da tutte le forme di espressione, dai racconti 
sul Politecnico ai film neorealisti: non pensavo 
al teatro, ma il teatro ci riguardava un po’ tutti.
(Dario Fo, Itineraire artistique
in Mistero buffo, Bertani 1973, p. 196)

Ogni epoca dovrebbe far nascere dalla propria 
realtà un Teatro completamente nuovo. Ad ogni 
epoca il compito di scoprire i motivi che rendono 
attuale e necessario l’incontro palcoscenico-platea, 
di riproporre come consuetudine l’andare a Teatro 
[…]. Una ventata d’aria nuova può entrare solo se 
apriamo la porta del palcoscenico a nuove mentalità,
a nuove concezioni 
Franco Parenti, in «Sipario», settembre 1955

Sappiamo quanto sia complesso affrontare l’intreccio delle esperienze, eterogenee e in taluni casi divergenti, che vanno sotto il nome di Neorealismo e, ancor di più, capire se e quali relazioni possono esserci state fra tale fenomeno e il teatro comico degli anni Quaranta-Cinquanta del Novecento.[1]

Nel suo recente volume Neorealismo. Il nuovo cinema del dopoguerra (2014), composto da circa trecentocinquanta pagine, Stefania Parigi ne dedica meno di venti alla declinazione comica, intitolando questa parte Il riso neorealista, all’interno della sezione dedicata a Forme e generi. Per giunta, in apertura di paragrafo, premette prudentemente come «il Neorealismo viene percepito dalla critica del dopoguerra come una sorta di personaggio tragico, legato alla guerra, al lutto, alla miseria e alla disperazione. Tutto ciò che fuoriesce da questo spettro di toni e di condizioni tende a essere collocato al di là dei suoi confini».[2]

A questo punto la studiosa cita la commedia, affermando come alcuni elementi riconducibili a tale genere, «presenti naturalmente anche nei film drammatici, vengono spesso considerati come residui della tradizione o come infrazioni alla purezza dei nuovi principi etici ed estetici».[3] Al confronto – fa notare l’autrice – in tali film rappresentativi per la storia del Neorealismo, molti aspetti, primo fra tutti il carattere popolaresco della recitazione degli attori come Anna Magnani o Aldo Fabrizi, introducono nel nucleo tematico una «vis comica da palcoscenico dialettale».[4]

Il caso emblematico è rappresentato da Erminio Macario e dalla comicità da avanspettacolo adattata ad un contesto cinematografico. È noto come, a partire dagli anni Trenta del Novecento, la crisi profonda attraversata dal cinema nel passaggio dal muto al sonoro spinga i produttori come Stefano Pittaluga degli stabilimenti Cines a reclutare nuovi attori più adatti ad una interpretazione “di parola” e non più mimica – tanto è vero che egli «dà mandato ai suoi agenti di disertare i palcoscenici del teatro drammatico e di frequentare il “parco attori” del teatro leggero, del teatro dialettale e, soprattutto, del varietà».[5] Sarà proprio «da questi “contenitori” che potranno emergere (ed emergeranno) le nuove attrici e i nuovi attori del cinema sonoro italiano»,[6] tra cui anche uno dei padri del Neorealismo, Vittorio De Sica, proveniente dalla compagnia teatrale Za-Bum, diretta da Mario Mattioli (che già nel 1932 trasmetteva con successo da Torino, con la parodia, offerta da De Sica, dell’attore americano John Gilbert e del suo rovinoso declino in seguito all’avvento del sonoro).[7] Ma con De Sica, anche molti altri attori, provenienti dalla commedia brillante e dal varietà, di seconda generazione:[8] Elsa Merlini (della compagnia Merlini-Cialente, con la quale debutterà Franco Parenti), attrice e cantante con Vittorio De Sica, il figlio d’arte Armando Falconi, e poi Aldo Fabrizi e via dicendo. Varietà e cinema, dunque, vivono un rapporto stretto e confidenziale, proprio sul piano attoriale, soprattutto quando i produttori affrontano la difficoltà di reperire attori in grado di uscire dai canoni mimico-espressivi del “muto”, ovvero dalle pose declamatorie – diciamo così – morrocchesiane, fatte salve alcune eccezioni, come è il caso di Maria Jacobini (la quale, a differenza di altre colleghe incapaci di adattarsi al nuovo cinema parlato, ha modo di continuare a lavorare, passando però a ruoli secondari, da caratterista). Tale rapporto si fa ancora più stretto con il cinema neorealista (dove gli attori professionisti affiancheranno i non professionisti) ed è storia nota, ma c’è da dire che il mero passaggio degli interpreti da un “contenitore” all’altro è solo il versante più evidente – la punta dell’icerberg – di un fenomeno più complesso riguardante la dialettica tra dimensione comico-popolare e istanze neorealiste.

Infatti, anche se non si può parlare di una “corrente neorealista” nello spettacolo dal vivo, gli argomenti a favore di uno studio sulle relazioni, persino controverse e contraddittorie, tra esperienze teatrali e esperienze neorealiste (letterarie e cinematografiche) sono in ogni caso molti, nel clima complessivo della cultura italiana dell’epoca.

Ovviamente, in prima battuta si pone un problema di datazione, sul quale rimando al recente saggio di Romano Luperini dal titolo Il neorealismo: riflettendo sulle date. Concordo innanzitutto con lo studioso sul fatto che sarebbe opportuno parlare di «neorealismi», in quanto non esiste una scuola organica ma un fenomeno variegato e composito, che tuttavia presenta alcuni tratti comuni.[9] Attingendo alla classificazione da lui stabilita – diversa da quella delineata da Maria Corti alla fine degli anni Settanta –[10] l’arco di tempo in cui gli attori-autori Franco Parenti e Dario Fo iniziano a lavorare (seppur non ancora congiuntamente) sul recupero di una tradizione orale locale, tesa alla rappresentazione della realtà sociale e alla riscoperta dei piccoli mondi regionali, è esattamente quello definito da Luperini «realismo simbolico», corrispondente agli anni 1940-1948.[11]

Per comprendere il percorso che sto cercando di tratteggiare, è utile prima di tutto chiarire quale rapporto hanno avuto i due attori-autori lombardi con la Resistenza e con il fascismo.

Franco Parenti, terminati gli studi all’Accademia dei Filodrammatici a Milano, debutta nella già citata compagnia di prosa Merlini-Cialente, che propone testi diversi rispetto alla «media del teatro italiano condizionato dal fascismo»,[12] ma con la guerra il repertorio è «bloccato e limitato».[13] Egli, però, nel 1941, all’età di vent’anni, è già stato chiamato alle armi e nel 1943 internato in un campo militare in Germania. È proprio al rientro dalla prigionia tedesca, nel 1945, in una Milano disfatta come il resto d’Italia, che Parenti inizia ad alternare alla prosa la rivista, il varietà e l’avanspettacolo. Nel frattempo (1940), Dario Fo ha quattordici anni, sei meno di Franco, vive in campagna ma studia arte al liceo di Brera a Milano. La vita domestica di campagna risente in ritardo dell’entrata in guerra dell’Italia e la situazione muta solo con lo sbarco alleato in Sicilia, nel luglio del ’43, e la conseguente caduta di Mussolini.[14]

Come molti altri giovani, anche Fo, in tale frangente, si trova coinvolto in una situazione moralmente e politicamente confusa: Dario e la sua famiglia sono convinti antifascisti, il padre Felice è uno dei membri di spicco del CNL locale, la sezione del Comitato di Liberazione Nazionale con sede a Sartirana Lomellina in provincia di Pavia, ma il loro paese e l’intero interland in cui si trovano a gravitare è governato dalla Repubblica di Salò (RSI). A Porto Valtravaglia sul lago Maggiore, comune di nascita di Dario, accade persino che le fabbriche locali siano convertite in caserme per il Settimo Reggimento di fanteria e, per un breve periodo, la stessa casa dei Fo è requisita e usata come avamposto. Le memorie della famiglia ricordano come la camera della sorella Bianca divenga il quartier generale di un colonnello della RSI, mentre tutti i Fo, in segreto, sostenevano i gruppi locali dei partigiani, alcuni dei quali risiedevano a casa del nonno ottuagenario, detto Bristin, vicino ai boschi lungo il Po.

L’8 settembre del 1943, quando ha ormai diciassette anni, Dario riceve la chiamata dalla Repubblica di Salò e, in conformità agli ordini ricevuti, si arruola nell’esercito a Varese. Nell’archivio Fo/Rame esiste un documento (cartella 21)[15] che rende testimonianza dei diversi resoconti sulla delicata vicenda. Il giovane Fo non è in grado di decidere né per la fuga in Svizzera né per l’arruolamento con le forze partigiane, contravvenendo all’ordine ricevuto: egli vuole «portare a casa la pelle».[16]

Quando mi trovai richiamato – racconta Fo – avevo davanti poche possibilità. Andare con i partigiani non era facile perché in quel momento le bande della zona erano smantellate per i continui rastrellamenti tedeschi. Scappare in Svizzera era diventato molto complicato: se ti trovavano ti riaccompagnavano alla frontiera. Preferii scegliere una posizione di attesa e cercare di liberarmi della leva con un trucco.[17]

Inoltre, egli giustifica gli indugi e la non scelta con l’intenzione di evitare che una diserzione potesse comportare un’ispezione da parte delle milizie della RSI a casa della famiglia, mettendo così in pericolo il fronte di Liberazione Nazionale coordinato dal padre. Per tutto ciò e anche per altre motivazioni che non siamo in grado di conoscere, egli adotta una «tecnica di dilazione», arruolandosi con l’artiglieria antiaerea a Varese, convinto di poter tornare presto a casa, visto che la divisione in questione non ha in realtà attrezzatura militare per rendersi operativa. Le previsioni di Fo, però, non si avverano. Egli viene trasferito in area tedesca per rimpiazzare i serventi alla contraerea decimati dai bombardamenti. A questo punto diserta e va a nascondersi tra le montagne.[18]

È qui, nel confronto con le realtà rurali e con i protagonisti della Resistenza, che comincia a capire il valore del recupero delle storie tradizionali dei cosiddetti “fabulatori del lago”,[19] mitici contastorie della sua infanzia, ma anche del nonno Bristin, inventore di fiabe e leggende, e delle canzoni popolari che accompagnavano il lavoro nei campi, sulle montagne e nelle isole lacustri: un intero materiale orale che confluirà poi nello spettacolo Ci ragiono e canto del 1966, assieme alle canzoni della Resistenza (originali e d’invenzione).[20] Narrazioni genuine e crudeli che colpiranno la fantasia di Franco Parenti, quando Fo, tempo dopo, nel 1950, si presenterà di fronte all’attore milanese, già affermato, per proporgli di accompagnarlo sul palcoscenico durante uno spettacolo a Intra.

Mi venne a trovare a casa quel ragazzone un po’ timido, imbranato, a chiedermi farfugliando se poteva partecipare a una specie di show che io dovevo fare a Intra.[21] Mi disse che lui era di quella zona, che era bravo a raccontare delle storielle come Rascel, come Walter Chiari, i comici che allora andavano per la maggiore. Me lo portai dietro convinto che fosse il solito dilettante, ma quando lo vidi in palcoscenico non credevo ai miei occhi. Cominciò con una specie di parodia del jazz, accompagnandosi con il corpo, con i gesti, con una mimica efficacissima. E poi, subito dopo, si mise a raccontare storielle violente, paradossali, assolutamente originali, che non avevano niente a che vedere con quel che si sentiva dai comici della rivista. Alla fine gli dissi che mi era piaciuto moltissimo e passammo il resto della notte sul lungolago con Dario che mi improvvisava tutte le altre cose del suo repertorio.[22]

Occorre precisare che, malgrado Fo non si sia mai unito ai partigiani, la Resistenza diverrà, anche per lui, a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta e per tutti gli anni Sessanta, il grande mito della Liberazione, presenza costante nelle sue opere, riletto alla luce di nuove scoperte intellettuali e ideologiche, come gli scritti di Gramsci, Marx, e poi Brecht, Majakovskij, Lorca. La rappresentazione della Storia recente sarà sentita da Fo come operazione urgente per sottrarla alla falsificazione che, secondo l’autore, si stava operando a partire dalla Svolta di Salerno.

Durante il processo per diffamazione del 1978, in seguito alla querela che Fo presenta contro chi lo ha definito pubblicamente «repubblichino e rastrellatore di partigiani», egli afferma più volte di non essersi mai sentito repubblicano e di aver condiviso, al contrario, l’entusiasmo dei partigiani e quella «vitalità estrema» dei giovani del nord, nel momento della Liberazione, così come la descrive Primo Levi di ritorno a Torino da Auschwitz: una vitalità che quest’ultimo, per ovvie ragioni, si rammaricava di non poter condividere.

Conclusa la guerra, Dario riprende gli studi a Brera, trasferendosi a Milano.

Intanto, la cultura americana si sta diffondendo anche in Italia, come testimoniano le trasmissioni radiofoniche del tempo, che ci raccontano un paese desideroso di riscatto e di nuove occasioni di coesione nazionale, per lasciarsi alle spalle le sofferenze, i lutti e le rovine, e per vivere in pace, come recita il titolo di un noto film di Luigi Zampa (1947). I mezzi di informazione e di intrattenimento, soprattutto la già citata radio, alimentano l’immaginario di una nazione che vuole guardare a The American Way of Life come ad un modello di progresso e di infinite possibilità di affermazione di sé. Anche se i due attori-autori sembrano indulgere ad un’accoglienza massiccia – peraltro mai acritica – dell’american style, è indubbio come la predilezione sia rivolta a quegli aspetti della cultura transoceanica che possono rappresentare strumenti di denuncia, ricalcando per esempio nelle proprie songs musicalità jazz (genere considerato dal fascismo “moralmente dannoso”) o be-bop, musica che esercita una duplice attrattiva: stilistica, per l’onomatopea, in un periodo in cui Fo sta facendo le prime prove di grammelot, e ideologica, in quanto nata a Manhattan, nel cuore dell’America nera, emblema della ribellione al dominio dei “bianchi”.

Subito dopo l’avvio del Piano Marshall (giugno 1948), durante il periodo della ricostruzione e la prima fase del miracolo economico, Franco Parenti e Dario Fo divengono i protagonisti delle stagioni radiofoniche nazionali: dall’inverno del 1949 in avanti. Il primo diviene celebre in RAI con il personaggio di Anacleto il gasista, una voce satirica che esprime un giudizio critico dai toni graffianti sull’Italia del dopoguerra; il secondo, l’anno successivo e per tutto il 1952 – e cioè sino a quando la trasmissione è sospesa dalla censura – dà vita alle controstorie del Poer nano,[23] narrazioni surreali che mischiano una tradizione apocrifa medioevale o cinquecentesca con un’inventio autoriale e attoriale. In un primo tempo inserite all’interno della trasmissione Chicchirichì, realizzata con Giustino Durano, dove spicca il personaggio, interpretato da Fo, dell’Impiegato Bertoluzzi, poi Gorgoliati (o Gorgoluzzi) –[24] vera e propria satira di costume dell’Italietta anni Cinquanta – vivranno ben presto in autonomia, accanto alla presenza vocale di Parenti/Anacleto. Le macchiette dell’Impiegato di Fo e del Gasista di Parenti, dal punto di vista dell’immaginario scenico che descrivono, rappresentano già una declinazione successiva rispetto al Poer nano, in quanto rispecchiano il mondo della città (in particolare Milano)[25] e non più quello rurale, contadino e mitologico, dove la violenza – seppur c’era – abitava in un alone poetico ben diverso dalla prosaicità della giungla metropolitana, entro cui l’attore tenta di riportare alcuni elementi onirici alla Jacques Tati, non riuscendovi.

Nelle macchiette dei due antieroi, infatti, “uomini ordinari” calati in un paesaggio neoindustriale, reinterpretato in chiave comico-surreale (la stessa che nel 1955 caratterizzerà anche l’unico film di Fo: Lo svitato di Lizzani),[26] si descrive un universo impiegatizio (e solo in parte operaio), dove si muovono dipendenti fantozzianamente zelanti e imbranati, commendatori dal piglio grottescamente marziale, puntigliose segreterie e dattilografe in cerca di riscatto sociale (che Franca Valeri incarnerà di lì a poco in modo magistrale, già a partire dai primi esperimenti di Carnet de notes, 1951-1952,[27] con Vittorio Caprioli e Alberto Bonucci).

Il luogo pubblico irrompe nella drammaturgia teatrale sostituendosi al privato. L’ambientazione diviene, quindi, un altro elemento sensibile per un confronto tra cinema e teatro dell’epoca, ossia tra la realtà della Storia che entra nel cinema e quella che entra nel – o resta fuori dal – teatro. A differenza della scrittura per il cinema, infatti, la scrittura scenica deve attendere molto, prima che il mondo esterno faccia ingresso nella rappresentazione teatrale, arenata su una geografia di interni, e su una cesura netta tra spazio pubblico e privato.[28]

Ciò nondimeno, sin dai primi anni del Novecento «numerose riflessioni teoriche, soprattutto in area tedesca, avevano individuato nel Teatro di Varietà l’espressione più conforme allo stato psicologico del cittadino moderno, flâneur e nottivago»,[29] molto simile al più tardo «uomo in frack», aristocratico decaduto e trasfigurato in intellettuale dandy, cantato da Domenico Modugno alla metà degli anni Cinquanta, il quale – sia detto per inciso – nella stagione teatrale 1955-1956 reciterà al Piccolo di Milano in Italia, sabato sera di Contarello e ne Il diluvio di Betti, per la regia di Parenti e di Jacques Lecoq, proprio all’interno di quel teatro-cronaca-cabaret di cui parlerò tra poco.

Il dibattito dell’epoca in merito ad un confronto scena teatrale/paesaggio cinematografico è povero, ma qua e là è possibile rintracciare testimonianze interessanti, come ad esempio sulla rivista «Scenario», dove sul numero 4 (1940) Guido Ballo[30] cita, tra gli altri, gli esperimenti della Scuola di scenografia di Brera – dove peraltro Fo studia e si forma – come prove di una scena interpretativa sintetica che, pur ricercando l’adesione al dramma, evita il carattere neorealista. Malgrado ciò, l’idea di un’ambientazione en plein air, ovvero di una scena urbana, sulla scia certamente delle opere brechtiane, prende piede anche nel teatro nostrano.

Negli esperimenti radiofonici di Fo e Parenti è la scenografia verbale in primis a costruire mondi e panorami urbani che attuano un rovesciamento dei canoni drammatici tradizionali, i cui codici performativi trovano nelle forme e nei linguaggi alternativi del cabaret luoghi e mezzi attraverso cui sperimentare tali novità stilistiche. Un mutamento scenico che corrisponde ad un mutamento di orizzonti culturali.

Peraltro, se è vero che il cinema neorealista nasce, in linea teorica, dalla possibilità di situare storie umane nei paesaggi[31] e, sul versante tecnico, dall’uscita della troupe dai teatri di posa per immergersi (e disperdersi) nella realtà geografica e sociale, in un panorama vivo e brulicante di natura e umanità,[32] è altrettanto rilevante come certo teatro comico – di cui Fo è il rappresentante più illustre – nasca dall’incontro tra una tradizione orale, un’invenzione artistica e l’idea di un paesaggio suburbano, reale (i paesini del lungo lago, la periferia) e ideale (il luogo dell’infanzia perduta) che rivive nei paradossi degli antieroi protagonisti delle vicende narrate, fuori dall’asfissia di ibseniani o pirandelliani salotti borghesi.

In un periodo contraddistinto dal declino dell’autore e dall’ascesa del regista-demiurgo, Fo con Poer nano percorre la strada contraria dell’attore e del canovaccio, privo di dimensione letteraria,[33] con uno schema chiuso ma a montaggio aperto, dove si sviluppano monologhi plurivocali paradossali e iperbolici, tematicamente incentrati sul rovesciamento provocatorio, sulla demistificazione dei valori, sulla smentita dei luoghi comuni e stilisticamente costruiti sull’uso di intercalari, di espressioni del dialetto lombardo, per «dar voce ad una tradizione che non era mai stata scritta, e per cui era necessario reinventare una scrittura»,[34] un genere linguistico, tra rivista, sceneggiatura cinematografica e farsa teatrale.[35]

Poer nano, “povero cocco”, ossia povero cristo, è «un intercalare affettuoso»,[36] un epiteto che accompagna tutti gli antieroi di queste fantasmagoriche favole per adulti, la cui morale è la ribellione alla morale convenzionale. Così nella storia di Caino ed Abele, che apre il libro, il personaggio di Caino non rappresenta più il simbolo per eccellenza del cattivo. È piuttosto un povero cristo nato brutto, un po’ locco e coi piedi piatti, continuamente messo a confronto dalla gente del paese con «L’Abele», bello, bravo e buono: «ma come fa un fratello così bello con gli occhi azzurri e i riccioli d’oro averci un fratello in sci stupid e cunt i pie’ piatt come el Caino? E lui sentiva e ci veniva il magone».[37]

Il linguaggio infantile, fiabesco contribuisce a connotare una visione “dal basso”. Come afferma Calvino in riferimento a Pin, parafrasando: la visione del bambino è per forza una visione “dal basso”, un trasfigurare la realtà secondo le regole della fantasia e del gioco; oppure, in riferimento all’uso di una lingua mista tra dialettale e italiana, afferma: il bisogno stilistico è quello di tenersi più in basso dei fatti.[38] Un esperimento che, come è stato detto, Fo tenterà anche col personaggio cinematografico dello “svitato”, un fool, un moderno Zanni che si muove con una pantomima stralunata in un paesaggio urbano in cui fellinianamente «gli elementi più comuni della vita moderna, industriale e meccanizzata, come le gru, i gasometri, i bagliori notturni delle fonderie, muovono la sua immaginazione, lo incantano come fossero giostre o lune».[39]

Durante la tournée in giro per l’Italia con l’amico Parenti, Fo entra in contatto con attori comici emergenti quali Fabrizi, Ugo Tognazzi, Walter Chiari, ma anche il grande Totò e con il mondo della rivista di costume, dalla quale Fo e Parenti cercano di discostarsi, contravvenendo alle raccomandazioni di Giulio Andreotti, sottosegretario di De Gasperi, che «aveva invitato senza mezzi termini gli uomini di spettacolo ad usare gambe di belle ragazze piuttosto che pensionati poveri come l’Umberto D. di De Sica».[40]

Già a partire dai primi anni Quaranta, quando ancora le ambizioni attoriali sembrano di là da venire, Fo a Milano si confronta con artisti e intellettuali tra cui anche Vittorio De Sica, Carlo Lizzani, Federico Fellini, Elio Vittorini: il Neorealismo è un territorio che Fo e Parenti naturalmente conoscono e sul quale discutono.

Tutti ci si trovava al Brera, eravamo tutti per un cambiamento generale, in arte come in politica, e non davamo retta al partito, che ci diceva di fare gli artisti e di rimanere al nostro posto. Oggi è impensabile cosa fosse Milano allora e come un pittore, quale io volevo essere, si sentiva coinvolto da tutte le forme di espressione, dai racconti sul Politecnico ai film neorealisti: non pensavo al teatro, ma il teatro ci riguardava un po’ tutti.[41]

Nell’anno in cui Fo gira il già citato fallimentare film Lo svitato con Lizzani, 1955, assieme a Franca Rame e allo stesso Parenti, quest’ultimo compie in teatro un tentativo avanguardistico, purtroppo destinato anch’esso a fallire: il Teatro Cronaca.[42]

Scrive Morandini sul primo spettacolo del Teatro Cronaca di Parenti, Italia, sabato sera, per la regia di Parenti-Lecoq

Al Piccolo Teatro c’è adesso la compagnia di prosa del Teatro-cronaca di Franco Parenti. […] Che cosa è il teatro se non cronaca della nostra vita, racconto che ripete la nostra realtà palese, scoperta di quel che succede dentro di noi, indagine su quel che succede intorno a noi? […] Italia, sabato sera: non commedia, ma caffè-concerto drammatico.[43]

La sua sperimentazione condivide con il Neorealismo – se è lecito un parallelismo, con le debite proporzioni e le attenzioni del caso – alcuni obiettivi e principi di base. In quella sorta di “manifesto”, pubblicato su «Sipario»[44] Parenti parla di: interesse per la ricerca anche fine a sé stessa, svincolata dal prodotto e dal processo produttivo; volontà di far vivere storie e personaggi suggeriti dall’attualità, con un intreccio di cronaca e finzione; dunque, ampliamento della partecipazione del pubblico attraverso un repertorio “moderno”, con argomenti vicini alla vita quotidiana (la politica, il denaro, i rapporti di classe, la giustizia);[45] inversione dei ruoli attoriali rispetto alla consuetudine; ricercato antidivismo. Proprio sull’aspetto dell’inversione dei ruoli, interessante è l’esempio di uno sketch di Parenti-Fo dal titolo parodico Arnaldo, orso bruno spavaldo (1952), contenuto all’interno di Chicchirichì, dove è inscenato con intento metateatrale uno spettacolo di rivista dove l’unico elemento mancante è l’attore comico. A rivestire tale ruolo viene proposto Memo Benassi, accolto con delle perplessità: «Ma se è un tragico, un attore drammatico», a cui la voce di Fo controbatte: «Appunto. Questo è quello che vuole il pubblico. Infatti i maggiori successi dei nostri comici attualmente, quali sono stati? Il cappotto, Guardie e ladri, L’ora della verità. Tutte cose che facevano piangere. Dunque: Memo Benassi…», «Ci farà ridere!».[46]

A tutto ciò si aggiunge la fiducia in una dimensione simbolica, che non è affatto in contraddizione con l’interesse per la realtà sociale e per la cronaca.[47] C’è infatti una precisa volontà di inventare nuove modalità narrative e performative, di seguire sentieri sino ad allora inesplorati, che vadano a rintracciare realtà e tradizioni dimenticate, trasfigurate poi in forme allegoriche secondo un rapporto di interferenza feconda fra testimonianza e affabulazione, cronaca e mito. Un procedimento creativo, questo, caro non solo a Franco Parenti, ma anche e soprattutto a Dario Fo, il quale, già a partire dalla seconda metà degli anni Quaranta – come è stato detto – pur non praticando una dimensione scrittoria di carattere letterario, ma dedicandosi ad una scrittura scenica “mobile” –[48] può essere collocato ai margini di quel gruppo di opere della narrativa italiana, tra le quali Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino (assieme a Cronache di poveri amanti di Pratolini, Cristo si è fermato ad Eboli di Levi, Uomini e no e Il Sempione strizza l’occhio al Frejus di Vittorini, La casa in collina di Pavese, Dentro mi è nato l’uomo di Del Boca),[49] che, connessi alla testimonianza e alla memorialistica della Resistenza e della lotta antifascista (nonché dei drammi della guerra mondiale e della questione meridionale), «pongono in primo piano il mondo contadino e il popolo dei quartieri (disoccupati, artigiani e piccola borghesia), non la realtà operaia delle fabbriche».[50] Fo, infatti, con il Poer nano attinge alla realtà rurale e ai modi con cui tale materialità trasforma le storie della tradizione culturale secondo una visione rabelesiana, dove le spinte ad un rinnovato realismo – soggettivo piuttosto che oggettivo – e il gusto per la rappresentazione concreta dei personaggi si coniugano con istanze fiabesche e mitico-simboliche. Tali istanze rivelano – come già la narrativa neorealista – «interessi etnologici e antropologici talora mediati dall’influenza di Jung».[51] In tali “fiabe”, narrate con una lingua per metà dialettale ed entro una struttura semantico-stilistica naïf, dove il rovesciamento comico non indulge mai ad un comico-sentimentale, il dolore del mondo è tuttavia contemplato e racchiuso.

Il leggendario luogo delle origini, incarnato dalle langhe di Pavese, dalla Lucania di Levi o dalla Liguria di Calvino, non è diverso da quello simboleggiato, per Fo, dai paesini che si affacciano sul lago Maggiore, pur tuttavia senza indulgere all’autocelebrazione o ad una mera oleografia mitizzante.

D’altro canto, esiste una forte continuità tra questi luoghi simbolici dove è possibile immaginare che viva un “novello Adamo” – ma anche un Caino intoccabile, per dirla con l’attore-autore di Sangiano – e i territori leggendari dell’America anni Trenta, di un far west rappresentato con toni lirico-allegorici.

Dunque, anche quando il discorso mitico affronta il tema della Resistenza, esso diviene riferimento realistico inserito, però, all’interno di una struttura fiabesca e allegorica (si pensi a Grande pantomima con pupazzi bianchi e neri del 1968), così come l’esperienza dei partigiani è usata come riferimento metaforico o simbolico nel confronto tra l’esperienza italiana e quella di altre nazioni, ad esempio la Palestina, in Feydain (Dario Fo, 1972).

La guerra, la Resistenza, la realtà sociale postbellica, i partigiani, la questione meridionale e contadina rappresentano senz’ombra di dubbio eredità tematiche e intellettuali con le quali chi fa letteratura, teatro, arte in quegli anni deve necessariamente confrontarsi. Anche in teatro, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, comincia ad acquisire rilevanza il valore paradigmatico dell’esperienza personale – di autore e di spettatore – in una dimensione di condivisione delle esperienze di via e non solo d’arte.[52]

Un discorso che negli anni Sessanta troverà nuova linfa vitale con esiti di maggior potenza rivoluzionaria. Il rinnovamento, che però sin da allora è auspicato, s’indirizza non soltanto alle tematiche, quanto alle strutture, al linguaggio, all’intertestualità e alla pluridimensionalità comunicativa. L’istanza etica e civile determina i modi del racconto e del raccontare; un racconto che letto a distanza critica rivela una tensione dinamica che è peraltro una via di conciliazione tra i due estremi del dibattito che scaturisce in seno al Neorealismo negli anni Cinquanta, in un quadro storico e culturale tutt’altro che omogeneo: da un lato la cronaca pura, dall’altro la narrativa – o, direi meglio, la narrazione.[53]

Un incontro fortunato tra questi due poli, nel teatro comico contemporaneo, d’impegno civile, è rappresentato proprio dalle “riviste di cervello” dei Dritti – Franco Parenti, Dario Fo e Giustino Durano –: Il dito nell’occhio e I sani da legare, rispettivamente nelle stagioni 1951-1952 e 1953-1954, che costituiscono esperienze di grande rilievo sul fronte del rinnovamento teatrale, non solo di una scena satirica e comico-politica, ma dello spettacolo tout court, pur nella non completa consapevolezza che ne ebbero all’epoca i protagonisti: come quando, spinti da entusiasmo giovanile e da un’elementare ansia di rinnovamento e di riscatto, non si è però del tutto coscienti dei motivi per cui ci si è gettati nella mischia.

Del resto – per giungere alfine al parallelismo calviniano suggerito dal titolo – la confusione e l’incertezza del Dritto, il capo partigiano di Pin, caratterizza anche i Dritti Pa-Du-Fo, per i quali l’antirivista, la controinformazione, lo spettacolo-inchiesta, l’“arte povera”, la ricerca dell’improvvisazione e della spontaneità attraverso l’artificio[54] non incarnano alcun concetto precostituito né un fenomeno o una stagione particolare, realista, neorealista o «neoespressionista», come è stata definita provocatoriamente da Calvino nella già citata Prefazione del 1964 a Il sentiero dei nidi di ragno.

L’insegnamento, semplice e profondo, che gli antidivi Parenti e Fo ci hanno lasciato del loro impegno artistico ed umano, in questi anni difficili e al contempo promettenti, è che non si possa praticare il mestiere di autore e di attore senza ancorarlo ad un sistema forte e saldo di valori morali, senza considerare il teatro una presenza attiva nella Storia.



[1] Questo contributo è stato letto al Convegno internazionale dell’Università di Torino Intorno al Neorealismo: voci, contesti, linguaggi e culture dell’Italia del dopoguerra, a cura di G. CARLUCCIO et al., Torino, 1-3 dicembre 2015, all’interno della sezione “Drammaturgie e scena teatrale”, curata da F. MAZZOCCHI.

[2] S. PARIGI, Neorealismo. Il nuovo cinema del dopoguerra, Venezia, Marsilio, 2014, p. 225.

[3] Ivi, p. 226.

[4] Ibid.

[5] P.M. DE SANTI, 1930-1935. Il cinema e gli attori del teatro italiano, in Teatro e media, a cura di A. BARSOTTI e C. TITOMANLIO, Pisa, Felici, 2012, p. 60.

[6] Ibid.

[7] Cfr. P. VALENTINI, La scena rubata: il cinema italiano e lo spettacolo popolare 1924-1954, Milano, Vita & Pensiero, 2002, p. 65.

[8] Una prima generazione è costituita da Nicola Maldacea, Angelo Musco, Ettore Petrolini, Totò, Odoardo Spadaro, Virgilio Riento.

[9] R. LUPERINI, Il neorealismo: riflettendo sulle date, in ID., L’autocoscienza del moderno, Napoli, Liguori, 2006, p. 53.

[10] Cfr. M. CORTI, Neorealismo, in ID., Il viaggio testuale, Torino, Einaudi, 1978.

[11] LUPERINI, Il neorealismo, cit., p. 61: «Distinguere il “realismo politico” degli anni 1933-36, così riccamente sperimentale, da quello, assai più tradizionale, degli anni 1949-55, e recuperare nella sua originalità il realismo simbolico del periodo 1940-48 può contribuire a fornire un’immagine più ricca e articolata di un fenomeno che è stato troppo facilmente seppellito dalla doppia liquidazione fattane negli anni Sessanta».

[12] M. PROCINO, Parenti, Franco Parenti, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto della enciclopedia italiana, 2014, vol. 81, p. 113, anche on line.

[13] Ibid.

[14] Cfr. J. FARRELL, Dario e Franca. La biografia della coppia Fo/Rame attraverso la storia italiana, Milano, Ledizioni, 2014, pp. 28-29.

[15] http://www.archivio.francarame.it/html/ArchivioIntro.html (ultimo accesso: 15 novembre 2016). Alcune parti sono riprodotte in C. MELDOLESI, Su un comico in rivolta. Dario Fo, il bufalo, il bambino, Roma, Bulzoni, 1978, pp. 18-20.

[16] FO in «Corriere della Sera», 6 novembre 2000, p. 17; cfr. anche R. VIVARELLI, La fine di una stagione, Bologna, il Mulino, 2000.

[17] FO in C. VALENTINI, La storia di Dario Fo, Milano, Feltrinelli, 1977, p. 24.

[18] In una testimonianza del 2002 (http://www.archivio.francarame.it/bioDario.aspx), ripetuta in più occasioni, Fo confessa: «Quando penso a quel periodo, fra il 1944 e il 1945 , mi sembra incredibile di aver vissuto tante storie, tutte ammucchiate in così breve tempo. Situazioni grottesche, tragiche, spesso vissute come dentro un incubo. Ancora oggi nel sonno mi capita di ritrovarmi a ripetere a tormentone lo sconquasso dei bombardamenti. Mi riappaiono le tradotte con i carri-merce dentro i quali mi sono richiuso, le fughe, le diserzioni, la polizia che mi viene a ricercare al paese… e ogni volta vivo l’angoscia di venir catturato e sbattuto in galera».

[19] Al di là della reale esistenza o meno di questi attori inconsapevoli, è interessante il rapporto che Fo instaura con la sua terra mischiando invenzione e tradizione, italiano e dialetto. Fo rammenta in particolare il nonno Bristin della Lomellina, ortolano e contastorie. Sulla storia dell’infanzia e dell’adolescenza di Dario Fo si veda il romanzo autobiografico a cura di Franca Rame: D. FO, Il paese dei Mezaràt. I miei primi sette anni (e qualcuno in più), Milano, Feltrinelli, 2002.

[20] Cfr. E. MARINAI, IL CANTO POPOLARE COME RIFONDAZIONE DEL MITO. Dai “Canzonieri” a “Medea”: ricerca e “inventio” in Pasolini e Fo, in Le tradizioni popolari nelle opere di Pier Paolo Pasolini e Dario Fo. Atti del convegno internazionale di studi (Grenoble, Université Stendhal “Grenoble III”, 1-2 dicembre 2011), a cura di L. EL GHAOUI e F. TUMILLO, Roma-Pisa, Serra, 2014, pp. 57-66.

[21] Intra è un paese situato sulla costa del lago Maggiore, vicino a Porto Valtravaglia, dove Fo ha trascorso l’infanzia insieme alla famiglia, che si spostava continuamente per seguire il padre Felice nel mestiere di ferroviere.

[22] PARENTI in VALENTINI, La storia di Dario Fo, cit., pp. 30-31.

[23] I monologhi radiofonici del Poer nano saranno, in un secondo momento, riproposti in versione teatrale all’Odeon di Milano, e più tardi, nel 1976, dal testo sarà tratto un libro a fumetti redatto con l’ausilio del figlio Jacopo Fo: D. FO-J. FO, Poer nano, Milano, Ottaviano, 1976.

[24] Sulla questione e sui dettagli nella costruzione della macchietta mi permetto di rimandare al mio volume dedicato al teatro dei Dritti (Franco Parenti, Dario Fo, Giustino Durano) e dei Gobbi (Franca Valeri, Alberto Bonucci, Vittorio Caprioli) degli anni in questione: E. MARINAI, Gobbi, Dritti e la satira molesta. Copioni di voci, immagini di scena (1951-1967), Pisa, ETS, 2007, in partic. alle pp. 60-120.

[25] Cfr. A. BARSOTTI, La Milano di Dario Fo e la Napoli di Eduardo, in Ombre metropolitane. Città e spettacolo nel Novecento, a cura di G. ALONGE e F. MAZZOCCHI, Torino, Ed. del Dams Studio Lexis, 2002, pp. 239-257.

[26] Cfr. Si lascia incantare dai gasometri, lo svitato Dario Fo, in «Mondo cinema», “Provincia di Varese”, 13 ottobre 1955.

[27] Salutàti come una novità importate, guarda caso, da Vittorio De Sica insieme ad Anton Giulio Bragaglia e Silvio d’Amico.

[28] Cfr. C. TITOMANLIO, Come nei film. Il cinema nelle pagine degli autori teatrali italiani di inizio Novecento, in Teatro e media, cit., pp. 29-48.

[29] Ivi, pp. 33-34.

[30] G. BALLO, Orientamenti della scenografia moderna, in «Scenario», IX, 1940, 4, pp. 208-209.

[31] Cfr. I. CALVINO, Prefazione a ll sentiero dei nidi di ragno, Torino, Einaudi, 1964, pp. 7-24.

[32] Sino all’estremo della performance di corpi che si stagliano nel paesaggio naturale, come per Francesco giullare di Dio di Rossellini (1950).

[33] Come afferma FO in E. MAGRI, Intervista a Fo, «Europeo», 1973, in VALENTINI, La storia di Dario Fo, cit., p. 36.

[34] Ibid.

[35] Cfr. P. PUPPA, Il teatro di Dario Fo. Dalla scena alla piazza, Venezia, Marsilio, 1978, p. 31.

[36] D. FO, Presentazione alla serie del Poer nano, versione manoscritta con correzioni, dattiloscritta in data 20 gennaio 2001, Archivio Franca Rame: ID documento 26782.

[37] http://www.archivio.francarame.it/scheda.aspx?IDScheda=688.

[38] Cfr. CALVINO, Prefazione all’edizione del 1964 de Il sentiero dei nidi di ragno, cit.

[39] Si lascia incantare dai gasometri, lo svitato Dario Fo, cit.

[40] VALENTINI, La storia di Dario Fo, cit., p. 34.

[41] MELDOLESI, Su un comico in rivolta, cit., p. 33. Corsivo mio.

[42] Su «Sipario», 1955, si trova una sorta di manifesto del Teatro Cronaca di Parenti. Egli allestisce, nel 1955, Italia, sabato sera di Contarello, Il diluvio di Betti, poi nel 1956 Le sedie e La cantatrice calva di Ionesco. Su questo punto chi scrive ha riflettuto con Andrea Bisicchia, che qui ringrazia.

[43] M. MORANDINI, Italia, sabato sera, in ID., Sessappiglio. Gli anni d’oro del teatro di rivista, prefaz. di F. PARENTI, Milano, Il Formichiere, 1978, p. 122.

[44] F. PARENTI, Il Teatro-cronaca, in «Sipario», settembre, 1955; cfr. A. BISICCHIA, Teatro a Milano 1968-1978. Il “Pier Lombardo” e gli altri spazi alternativi, Milano, Mursia, 1979, pp. 44-86; Franco Parenti, ediz. a cura di L. LUCIGNANI, Premio Armando Curcio per il teatro 1980, Roma, Curcio, 1981.

[45] Cfr. MORANDINI, Sessappiglio, cit., p. 122.

[46] D. FO-G. DURANO, Arnaldo, orso bruno spavaldo, in «Chicchirichì», 1952, p. 1. Cfr. MARINAI, Gobbi, Dritti e la satira molesta, cit., p. 95.

[47] Come, per il versante cinematografico, suggeriscono alcune affermazioni di Kracauer e Rohmer sulla natura simbolica del cinema neorealista: cfr. PARIGI, Neorealismo, cit., p. 51.

[48] In riferimento al concetto di «testo mobile» cfr. A. BARSOTTI, Eduardo, Fo e l’attore-autore nel Novecento, Roma, Bulzoni, 2007. Cfr. anche S. FERRONE su «L’indice dei libri del mese», ottobre 1987, contributo ripubblicato su «Drammaturgia» in T. MEGALE-ID., Intorno a Dario Fo LINK, 19 ottobre 2016: «i testi di Fo sono il regno della libertà e del possibile».

[49] Cfr. LUPERINI, L’autocoscienza del moderno, cit., p. 56.

[50] Ivi, pp. 56-57.

[51] Ivi, p. 57.

[52] Cfr. CALVINO nella citata Prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno scrive (p. 8): «Chi cominciò a scrivere allora si trovò così a trattare la medesima materia dell’anonimo narratore orale. Alle storie che avevamo vissuto di persona o di cui eravamo stati spettatori s’aggiungevano quelle che ci erano arrivate già come racconti! con una voce! una cadenza! un’espressione mimica».

[53] Cfr. G. LUTI-C. VERBARO, Dal Neorealismo alla Neoavanguardia (1945-1969), Firenze, Le Lettere, 1995, pp. 52-53.

[54] Cfr. A. BAZIN, Il realismo cinematografico italiano e la scuola italiana della Liberazione, in ID., Che cos’è il cinema, trad. it. di A. ARPÀ, Milano, Garzanti, 1973, p. 286.



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