Si
pubblicano qui due testi. Al ricordo inedito firmato da Teresa Megale, segue la
riproposta di un intervento di Siro Ferrone, apparso per prima volta ne
“Lindice dei libri del mese” (1987, n. 8, p. 9).
«Ho visto un re». Dario Fo, attore libertario Dario Fo ha lasciato la scena di questo mondo nellanno in cui si è
celebrato il quattrocentesimo anniversario dalla morte di Shakespeare e nello stesso giorno in cui lAccademia di Svezia ha conferito
il Nobel per la letteratura a Bob Dylan.
Coincidenze tanto fortuite quanto piene di significati: nel primo caso una ideale
continuità storica tra grandi del teatro, nel secondo un passaggio ravvicinato
di testimone, almeno quanto a declinazione aperta del termine “letteratura”.
Geniale uomo-teatro al pari di Eduardo
De Filippo, di Carmelo Bene, di Paolo Poli, Fo non ha mai smesso di incarnare un teatro scomodo, fortemente
critico, e di impiegare la satira e lironia come strumenti privilegiati per trasporre
la realtà sulla scena. Come un Aristofane
del nostro tempo, come erede di Piscator
e di Brecht, in circa settantanni
di multiforme attività (da attore, drammaturgo, regista, scenografo, cantante,
impresario), da solo o in coppia fissa con Franca
Rame, non ha mai smesso di propagare la forza politica del teatro e di
testimoniarne limportanza proprio in quanto arte capace di trattare “politicamente”
– come asseriva Godard – i linguaggi
della scena. Nel suo operato la «freccia del
senso», che Franco Cordelli rivendica
alla creazione registica, si declinava decisamente al plurale: nel maestro
lombardo nessun compromesso, nessun mediocre aggiustamento hanno mai offuscato
la direzione delle sue frecce, tutte, peraltro, ostinatamente indirizzate al centro
della mente dello spettatore. Anche quando il lungo esilio dalla televisione,
che lo colpì nel pieno della maturità artistica (a Canzonissima 62, reo di aver rappresentato un
imprenditore edile che violava la sicurezza sul cantiere), non gli consentì di
rivolgersi alle platee da poco assuefatte al nuovo medium, egli riuscì a rilanciare e semmai a rafforzare quel teatro
che la cultura ufficiale avrebbe voluto reprimere e schiacciare. È così che
negli anni Settanta gli spettacoli della Compagnia Fo-Rame diventarono il
vessillo delle lotte per i diritti civili, i luoghi virtuali da frequentare per
confermare la cultura laica e progressista, schierata per la prima volta a
favore dello statuto dei lavoratori, del divorzio, della legalizzazione dellaborto,
del sostegno alla scala mobile. Senza la storia delle conquiste sociali di
quegli anni, delle lotte operaie, dei movimenti studenteschi (del Sessantotto e
del Settantasette), le messinscene di Fo-Rame rimarrebbero senza sfondo,
rischierebbero di smarrire, appunto, il loro senso più profondo. Persino la
diffusione della cultura femminista italiana deve moltissimo a questi due
straordinari artisti, che per tutta la vita scenica hanno irriso il potere e
messo al bando le ipocrisie della religione e della morale piccolo-borghese. Capaci
di imbastire scintillanti paradossi con i quali denunciare la condizione delle
donne, Dario Fo e Franca Rame più volte hanno stigmatizzato lo sfruttamento femminile
da parte delleconomia liberista. In uno dei loro spettacoli il tema veniva
straordinariamente risolto in scene memorabili: la madre operaia che, stordita
dai turni di lavoro e dal lavoro casalingo, cosparge il corpicino del neonato
di ben altro che di profumato talco, riempiendolo di «odore pedagno» – come
avrebbe detto Gadda –, stigmatizza in chiave comica una volta per sempre la lotta
per la conciliazione, tuttora irrisolta, del tempo di lavoro e del tempo di
vita delle donne. Quanto la coppia, e in particolare Franca Rame, abbia pagato per
questo teatro forte, energico, mai remissivo (un tempo si diceva “alternativo”),
è cronaca tristemente nota. Ma, nonostante anatemi, censure e sorveglianza
speciale da parte delle questure di mezza Italia, ancora una volta il teatro nelle
loro mani di fantasisti surreali e coerenti diventava lo strumento di
liberazione delle donne, e di denuncia addirittura dello stupro di gruppo di
marca fascista, perpetuato ai danni dellattrice nel 1973, che lei stessa
esorcizzò nel più crudo dei monologhi mai recitati fino ad allora. Insieme a Franca Rame, nessun
altro attore o uomo di teatro italiano del Novecento ha saputo quanto larte
teatrale possa essere arte libertaria, piuttosto che arte diversiva o
consolatoria: dai tempi delloccupazione della Palazzina Liberty di Milano fino
allo scontro odierno per il referendum costituzionale, Fo non ha mai distinto
fra lazione scenica e lazione politica, in quanto la prima esisteva in
funzione della seconda, e viceversa. Spirito critico e corrosivo, insieme con
la sua compagna non è mai appartenuto alle schiere robuste degli attori
conservatori, per opportunismo o per comodità, e nemmeno a quelle, altrettanto
nutrite, dei voltagabbana. Coerente con le sue idee, negli anni Settanta dette
vita – ad esempio – a Soccorso rosso, la rete di assistenza economica e legale
per i detenuti politici della sinistra extra parlamentare, nel mentre metteva a
punto i suoi modelli teatrali: Ruzante
e Molière, a lungo letti, assimilati
e reinventati sul palcoscenico. Ovunque, negli spazi alternativi
e nei teatri ufficiali, chi ha avuto il piacere di disporsi in circolo intorno
a lui o alla sua immancabile partner anche per una sola volta ha compiuto unesperienza
indelebile: ha visto un attore di smisurata grandezza mimetica, ne ha sentito
il respiro, ne ha seguito la rapidissima variazione di toni vocali ed è stato
inevitabilmente risucchiato nel vortice della sua affabulazione. Da attore
monologante, sapeva tenere in pugno i suoi spettatori tramite un flusso sonoro e
unincontenibile capacità espressiva. Quello che Fo esercitava sugli spettatori
era, dunque, uno speciale sortilegio gestuale e orale: su una scena povera, si
trasformava sotto gli occhi incantati del pubblico in uninarrestabile macchina
narrativa, fatta di assolute e sublimi invenzioni, passate come oro colato agli
spettatori ingenui, come sanno fare soltanto i grandi attori. Linvenzione del grammelot è il punto più alto dellattore
Fo, la cifra artistica preminente e irriproducibile della sua arte comica, lo
strumento per avvicinare in scena tempi e storie, per attraversarli, per
entrare e uscire di parte, per moltiplicare i personaggi, per giocare, insomma,
allinfinito con il teatro. Mentre altrove, sui lidi del
cosiddetto teatro di ricerca il teatro di immagine confliggeva con il teatro di
parola, il grammelot inaugurato da Fo
dimostrava una volta di più quanto la parola in scena fosse superflua al
cospetto di un corpo e di una lingua mimetici. Come il suo vocabolario gestuale
e fisico sia valso a rilanciare una mitopoiesi della tradizione giullaresca e
dei comici dellarte è chiaro sin da Mistero
buffo (1969), capolavoro insuperato di intelligenza comica (vedi qui). Il pesantissimo
mantello di Bonifacio VIII, proiezione del potere temporale della Chiesa, che
il papa-Fo non riesce a schiodare da terra, mentre impartisce a chierici poco
dotati musicalmente una lezione di gregoriano, è forse uno dei momenti che
meglio riassume larte di questo grandissimo attore. La fame degli Zanni e La
resurrezione di Lazzaro dal citato Mistero
sono ulteriori incarnazioni della sua straordinaria versatilità recitativa, da
campionare insieme ad altre prove uniche: Luomo
e la tecnologia, agito sfoderando un grammelot
di ispirazione anglo-americana, variazione sul gioco di assonanze da un
improbabile pavano; Lapologo cinese
della tigre; Il primo miracolo
di Gesù Bambino, spacciato come tratto da un
vangelo apocrifo; il teatro canzone di Ho visto un re, in combutta o meno con Enzo Jannacci e Giorgio
Gaber. Ma gli esempi, ovviamente, potrebbero moltiplicarsi. Il giorno successivo alla
scomparsa di Dario Fo, Ascanio Celestini, da Fo designato come proprio erede
artistico insieme a Paolo Rossi,
sulle pagine di «Internazionale» (versione digitale) ha scritto che per tutta la sua lunga vita artistica il primo Nobel attore
della storia «ha indossato una maschera che riproduceva perfettamente la sua
faccia. Una maschera per dire che le maschere non esistono. Nel suo piano-sequenza
infinito ha messo unanti-maschera straordinaria. Lha fatto per non togliersi
la faccia da quel pezzo di corpo dove gli occhi si muovono a destra e sinistra,
dove la bocca parla». (Teresa Megale)
*****
Da “Lindice
dei libri del mese” (ottobre 1987). Dario
Fo si lamenta (pp. 171-173 del suo Manuale minimo, Torino, Einaudi, 1987) perché in Italia è
considerato un grande attore ma non un commediografo, mentre allestero invece
sì. Dario Fo ha ragione ma non si spiega perché. Del resto ancora oggi si
continua a ignorare che gli attori seicenteschi Pier Maria Cecchini, Giovan
Battista Andreini e Nicolò Barbieri
furono scrittori di teatro nettamente superiori a tutti i letterati
commediografi del loro secolo. Ma il fraintendimento di Fo non è solo colpa dei
conservatori. Appena qualche anno fa (1980) Carmelo Bene celebrava un compleanno di Eduardo precisando che
costui era un grande attore nonostante i suoi copioni. Posizione condivisa da
quasi tutta la neoavanguardia, impegnata a dar colorito progressista a idee
vecchiotte: come quella che avvertiva che lattore non aveva bisogno di
scrivere per diventare autore, essendo già autore per il solo fatto di
recitare, anzi di esistere. Di qui il ridimensionamento dei copioni di Eduardo e di Fo rispetto al loro
recitare; nello stesso modo nel Seicento i letterati si liberarono della
pericolosa concorrenza di scaltriti e agili scrittori classificandoli come
attori e facendoli ammirare come creatori di unarte improvvisa che poteva
benissimo fare a meno della parola. Classificare Dario Fo come il nostro più grande mimo dopo Totò o come compagno militante della
sinistra rivoluzionaria è tornato utile a tutti. Semplificava
le cose a destra e a sinistra, con laiuto del diretto interessato,
impegnato a volte con una certa qual trombonesca sentenziosità a spiegare i
frammenti della lotta di classe più con il tono di Carducci che di Pasolini.
In realtà Dario Fo è un trombone impossibile. Fa della pedagogia e poi,
istintivamente, la nega; ci ride sopra. Dario Fo è infatti maleducato. Il che è
normale per un attore italiano di formazione “bassa”, ma non per uno scrittore
di teatro. È uno screanzato che ignora le regole del galateo drammaturgico, le
spiazza, le confonde. Il corpo della commedia è per lui come il corpo
dellattore. Si sganghera e contorce in maniera incomprensibile per un normale cittadino in borghese. Così la
trama, lazione, il dialogato, i destini
dei personaggi (dalle Farse alle ultime opere) deludono sempre le aspettative,
si accoppiano in maniera incongrua, insensata. Uninsensatezza
per cui occorre il genio. Ed era inevitabile che fosse così, perché i
testi di Fo sono sempre inseparabili dallartigianato teatrale. I testi fossili
di molti autori cosiddetti viventi sono “preventivi” (nel senso che si sforzano
ragionieristicamente di prevenire, e quindi di intimidire ogni azione
teatrale); quelli di Fo, come di Eduardo, come di Viviani, sono invece consuntivi, nel senso che ricapitolano le
memorie e il training di un tecnico
(lattore), e nello stesso tempo contengono un alone di visionaria aspettativa
per quello che potrà essere il domani di quella tecnica, covando, lì sulla
carta, gli scatti fulminei che si potranno fare sulla scena. In questo senso i
testi di Fo sono il regno della libertà e del possibile.
Imprevedibili come una partita di calcio non truccata. E anche i prevedibili
schemi sociologico-didattici da cui partono spesso i suoi ultimi copioni
finiscono per essere non conseguenti, gli apologhi diventano sproloqui
deliranti, la catechesi si trasforma in paralogismo. La pedagogia precipita nel
suo contrario. Il trionfo comico di Fo è il conflitto vitale fra unordinata
pedagogia e il suo sghignazzante rovesciamento. In definitiva, lo svelamento
comico della propria, e generale, patologia.
(Siro Ferrone)
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