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Federico Pierotti

Federico Pierotti, Totò, Antonioni e l’America. Retoriche del film a colori nel cinema italiano (1952-1964)

Data di pubblicazione su web 02/04/2008
<i>Totò a colori</i>
Il testo di questo saggio è stato presentato al XII Colloque SERCIA (Société d’Étude et de Recherce sul le Cinéma Anglophone) tenutosi all'Université Toulouse Le Mirail (27-29 settembre 2007); sarà pubblicato in traduzione inglese nel volume degli atti: Les (en)jeux de la couleur et leurs résonnances – Colour (inter)play and resonance.
© drammaturgia.it - redazione@drammaturgia.it


In Italia, come in Europa, nel campo del colore, si riscontra una significativa sfasatura tra le proposte teoriche e la pratica realizzazione di film. Si inizia a parlare di colore negli anni trenta, si realizzano i primi film nel dopoguerra, mentre gli autori non si convertono alla novità fino agli anni sessanta. Un ritardo di simile entità è imputabile a una interconnessione di fattori che regolano tanto gli ambiti tecnologici ed economici, i quali influenzano in maniera piuttosto uniforme lo scenario internazionale, quanto quelli ideologici e culturali, che operano con una maggiore diversificazione nazionale. Una prima spiegazione si impone sul piano delle limitazioni tecnologiche e tecniche dei nuovi dispositivi monopack disponibili dal secondo dopoguerra, ma il ritardo è imputabile anche a una serie di ragioni ideologiche e culturali[1].

Un diffuso risentimento nei confronti del Technicolor porta inizialmente i paesi europei a orientarsi verso soluzioni nazionali[2]. Inoltre, appare ancora egemonica una tradizione culturale che vede nel bianco e nero la forma simbolica del visibile cinematografico e tende invece a relegare il colore alla funzione di elemento spettacolare[3]. Questa tradizione ha le sue origini nel dibattito francese degli anni venti sulla fotogenia e il suo momento di consacrazione nelle prese di posizione teoriche di importanti studiosi come Rudolf Arnheim e Béla Balázs. Nell’Italia del dopoguerra essa trova un terreno particolarmente fertile, in virtù delle nuove motivazioni offerte dal neorealismo ai sostenitori del bianco e nero, che si sommano allo scarso credito estetico accordato ai film americani in Technicolor.

All’interno di questo orizzonte culturale si affacciano sulla scena i primi film italiani a colori. In un primo momento, il compito di rimarginare la frattura che sembra separare irrimediabilmente il colore dal bianco e nero è assolto dalla cosiddetta produzione popolare. Per il cinema di autore, invece, il definitivo smantellamento delle petizioni di principio contro il nuovo mezzo tecnologico ha luogo solo nel corso degli anni sessanta. Con questo studio mi propongo di riflettere su queste dinamiche, analizzando le forme testuali in relazione allo specifico contesto culturale all’interno del quale esso sono prodotte e fruite. In questa prospettiva, le scelte formali di un testo possono essere lette come il sintomo di una presa di posizione, più o meno esplicita, in relazione al problema culturale del rapporto tra colore e bianco e nero[4].

Nella prima parte del testo, che costituisce un preambolo solo apparentemente estraneo ai confini che mi sono prefisso, mi propongo di riflettere sulla formula hollywoodiana del color restraint, proposta da Natalie Kalmus nel 1935 per il film in Technicolor. Secondo la mia ipotesi, infatti, essa costituisce, ancora nel dopoguerra, un ineludibile termine di riferimento, se non altro in negativo, per chiunque voglia accostarsi in termini operativi al problema del colore filmico. Nella seconda parte, cercherò di spiegare in che modo nel cinema italiano sono affrontati i medesimi problemi enunciati dalla Kalmus. Questo raffronto fa emergere tre possibili modi di pensare il rapporto tra il colore e lo spettatore. Illustreremo ciascuno di essi prendendo in esame altrettanti film molto diversi tra loro: Totò a colori (Steno, 1952) come esempio di un modo attrazionale, Racconti romani (Gianni Franciolini, 1955) come esempio di un modo narrativo e, infine, Il deserto rosso (Michelangelo Antonioni, 1964) come esempio di un modo critico-espressivo.

 

1. L’America: una retorica del colore

Come venivano fatti e visti i film in Technicolor dal 1935 in poi? Nel cinema di Hollywood in che rapporto si pone il colore rispetto ai modi di rappresentazione del bianco e nero? Alcune considerazioni di ordine generale sulle modalità operative e sulle strategie di legittimazione estetica della Technicolor possono aiutare a delineare il ruolo avuto dalla società a livello internazionale nel definire una serie di determinazioni stilistiche e culturali relative al film a colori. Il lavoro promosso nell’ambito della società statunitense costituisce il primo tentativo storicamente consistente di offrire una soluzione sul piano pratico ai principali problemi di organizzazione formale dell’immagine cinematografica a colori, in sintonia con le esigenze produttive e stilistiche del cinema classico.

Il problema si era posto alla Technicolor fin dagli anni venti, quando era stato istituito un color control department con il compito di aiutare il personale tecnico ad attenuare le imperfezioni del sistema bicromo (Technicolor Process No. 2, 1922, e No. 3, 1928), impossibilitato a riprodurre l’area spettrale del blu. All’epoca la funzione di questi consulenti era ancora di natura esclusivamente tecnica: i film realizzati durante il boom del dispositivo, coincidente con il triennio dal 1929 al 1931, avevano portato a risultati poco apprezzati, non tanto per l’imperfetta resa cromatica, quanto per una eccessiva messa in evidenza del colore. Per evitare di ripetere l’errore con la tricromia (Technicolor Process No. 4, 1932-35), la società aveva esteso le mansioni dei consulenti per il colore, attribuendo loro un ruolo determinante nell’elaborazione dello stile cromatico.

L’investitura ufficiale del consulente per il colore aveva avuto luogo nel maggio del 1935, in concomitanza con l’uscita di Becky Sharp (Rouben Mamoulian, 1935)[5], presso un meeting dell’Academy of Motion Pictures Arts and Sciences, con la lettura da parte di Natalie Kalmus di una relazione intitolata Color Consciousness[6]. Ex moglie del presidente della Technicolor Herbert Kalmus, la donna era stata posta alla direzione del dipartimento dei consulenti per il colore: specializzatasi, a quanto si dice, in storia dell’arte all’università di Zurigo e in altri istituti statunitensi, la Kalmus ricorre al magistero artistico offertole da queste esperienze per proporre alcune indicazioni di principio per l’impiego del colore nel film. Esse possono essere considerate il fondamento stilistico della produzione in Technicolor realizzata negli anni a venire.

In via preliminare, il testo colloca la questione del colore all’interno del più vasto orizzonte del realismo cinematografico. Chiaramente influenzata da un assunto teleologico circa l’evoluzione tecnologica, la Kalmus afferma che «from a technical standpoint, motion pictures have been steadily tending toward more complete realism» (p. 139); l’acquisizione del colore da parte dell’immagine cinematografica sarebbe da leggere quindi come il naturale completamento del processo. D’altra parte, un approccio di questo tipo porterebbe ad una pura e semplice registrazione meccanica del reale, del tutto insufficiente a porre il lavoro del regista sotto la tutela dell’arte: le operazioni riproduttive della macchina da presa devono pertanto essere riqualificate attraverso il decisivo contributo umano, da realizzarsi in osservanza di una serie di principi basilari di colore, tono e composizione, mutuabili dall’insegnamento della pittura.

Data la mancanza di un precedente termine di confronto cui riferirsi in ambito cinematografico, la Kalmus guarda alla pittura, che dal punto di vista del colore rappresenta l’ascendente più nobile cui la nuova forma di rappresentazione possa richiamarsi. Nel prosieguo del suo intervento, la Kalmus cerca di mettere in luce il risvolto direttamente operativo di quanto enunciato in linea di principio; non è dunque casuale che il discorso si orienti verso le procedure di costruzione e, soprattutto, di ricezione del film. Benché il testo non configuri alcuna esplicita teoria sulla spettatorialità, i continui riferimenti al modo in cui il colore può influire sulla lettura e sul godimento di un film indicano che al centro degli interessi della Kalmus sta la messa a punto di un progetto sintonizzato sull’audience.

La figura di spettatore implicitamente delineata è chiamata in causa sia come soggetto portatore di un insieme di emozioni, sia come soggetto chiamato a decifrare una storia. Al primo aspetto è dedicata tutta una lunga parte del testo, che propone una griglia di classificazione delle diverse tinte, poste in relazione meccanicistica con un ventaglio di emozioni corrispondente (ad esempio: eccitazione, attività e caldo per i colori caldi; riposo, traquillità e fresco per i colori freddi, e così via). Al di là della convenzionalità delle associazioni, che da secoli costituiscono un luogo ricorrente di un gran numero di trattazioni sull’argomento, è interessante considerare l’importanza attribuita al valore psicologico del colore, che mette a disposizione del regista un valore aggiunto rispetto al film in bianco e nero:

We have found that by the understanding use of color we can subtly convey dramatic moods and impressions to the audience, making them more receptive to whatever emotional effect the scenes, action, and dialog may convey [p. 142].

Tale valore aggiunto tuttavia può anche diventare una minaccia se non viene dosato in modo appropriato in funzione delle esigenze narrative. A tale scopo è chiamato in causa lo spettatore inteso come soggetto interessato a seguire una storia: un film a colori correttamente impostato deve prevedere dei meccanismi di governo e di livellamento delle emozioni di cui i diversi colori possono farsi portatori: «His [the director’s] prime motive is to direct and control the thoughts and emotions of his audience. [...] If he can direct the theatergoer’s imagination and interest, he has fulfilled his mission» (p. 142). L’attenzione dello spettatore non deve essere distratta da elementi estranei alla linea di causalità della storia. Il colore deve essere assoggettato alle procedure discorsive del film.

Dietro questa preoccupazione il concreto lavoro dei consulenti per il colore trova la sua più autentica ragione di essere: esso inizia con l’esame della sceneggiatura e la successiva stesura di una colour chart: «When we receive the script for a new film, we carefully analyze each sequence and scene to ascertain what dominant mood or emotion is to be expressed» (p. 145). Un’applicazione letterale di questo dettato avrebbe posto di fronte al rischio di minare la leggibilità della storia attraverso una presenza troppo manifesta dell’elemento cromatico. Una possibilità che, al contrario, va esclusa a priori dall’orizzonte del consulente per il colore, caratterizzato da una chiaro ordine delle priorità, che subordina sia le esigenze artistiche che quelle tecniche alle necessità della storia raccontata:

In the first place, this chart must be in absolute accord with the story action. Again, it must consider the art, principles of unity, color harmony and contrast. Again, it must consider the practical limitations of motion picture production and photography [p. 145].

Il risvolto eminentemente operativo dell’attività dei consulenti per il colore, evidenziato nella parte conclusiva dell’intervento, è perfettamente in sintonia con questa gerarchia. I criteri di distribuzione delle diverse tinte sul set sono impostati attorno all’asse drammaturgico: affinché l’attenzione si concentri sul personaggio principale, i colori dei costumi devono essere attentamente stabiliti, se possibile in accordo con i tratti psicologici; attorno al protagonista sono poi organizzati i cromatismi degli altri elementi scenici, in modo che il risultato finale sia dotato di armonia, interesse e varietà. Un’ulteriore indicazione in favore della leggibilità dell’immagine è data sotto forma di due regole definite rispettivamente color separation e color juxtaposition.

In osservanza della prima, quando un colore è posto di fronte o accanto a un altro, è necessaria una differenza abbastanza significativa affinché le due tinte risultino ben distinte; di conseguenza, data la tonalità calda della carnagione umana, per gli sfondi i colori neutri o freddi sarebbero in genere da privilegiare. Acquista così particolare rilevanza l’uso dei neutri (bianco, nero, grigio), che, grazie alla capacità di conferire una maggiore evidenza agli altri colori, acquistano un fondamentale ruolo nella gerarchizzazione degli elementi scenici, nel pieno rispetto della regola secondo cui «nothing of relative unimportance in a [motion] picture shall be emphasized» (p. 146). L’indicazione compositiva relativa alla color juxtaposition costituisce un’applicazione pratica delle teorie di Chevreul sul contrasto simultaneo: quando due differenti tinte si trovano in posizione di contiguità, l’una tende a spingere l’altra verso il complementare della prima (ad esempio un oggetto arancio posto accanto ad uno blu-verde fa apparire quest’ultimo più blu di quanto esso non sia); il fenomeno impone una cura particolare nell’accostamento delle tinte, specie in relazione alle continue variazioni prossemiche che differenziano profondamente un’inquadratura cinematografica da un dipinto.

In conclusione, nel discorso della Kalmus l’inquadratura è concepita come un campo di forze entro cui devono operare simultaneamente tre livelli di gerarchizzazione: un primo livello relativo alla classificazione dei colori (caldi, freddi, neutri); un secondo di classificazione spaziale (primo piano, sfondo); un terzo di classificazione drammaturgica (personaggi principali e secondari). L’espressione che meglio riassume le convinzioni della Kalmus ha la perentorietà di un imperativo: «we must constantly practice color restraint».

La particolare via al colore proposta dalla Kalmus nasce dall’esigenza di conciliare due diverse istanze attribuite al colore: una realistico-indexicale e una artistico-espressiva. Se nella maggior parte dei discorsi teorici e poetici sul colore sia coevi che futuri le due istanze sono e saranno generalmente tenute ben distinte (basti pensare a quanto scritto sul colore da Arnheim, Antonioni, Ejzenštejn, Dreyer e da molti altri), la Kalmus risolve la contraddizione operando un salto dalla sfera della produzione poetica a quella della ricezione, nella quale le forze realistiche si articolano in termini di illusione di realtà e quelle espressive in termini di leggibilità della storia raccontata.

La color consciousness si traduce nella necessità di non minare i presupposti di intelligibilità del testo attraverso il potere eversivo del colore. Per questa ragione, nel momento in cui è proposta all’interno di una istituzione caratterizzata da un alto potere regolativo quale il cinema di Hollywood, la novità tecnologica è posta al centro di un’operazione di tipo negoziale, che nega una rottura radicale con il passato e, al contrario, presuppone implicitamente una linea di continuità con la tradizione del bianco e nero: del resto, ogni dinamica legata al nuovo implica sempre un confronto con il passato. In questo modo viene attivato un meccanismo di riduzione di aleatorietà, che blocca sul nascere ogni fuga verso la polisemia e l’apertura di senso: le qualità puramente sensoriali del colore, in grado di qualificare lo spettacolo cinematografico come qualcosa di nuovo, sono contenute entro il perimetro delle convenzioni discorsive già acquisite.

Nei termini della teoria semiopragmatica della ricezione, queste convenzioni configurano un fascio di determinazioni prodotte dal contesto istituzionale, le quali impongono al potere eversivo del colore di non mettere a rischio il sistema di gerarchizzazione degli elementi iconici e verbali, il posizionamento affettivo dello spettatore in rapporto al film, le regole di produzione del senso in base ai modi della spettacolarità e della finzione[7]. Questo tentativo di integrare il colore nei processi di strutturazione del discorso in funzione di un modello di fruizione dato configura la proposta operativa della Kalmus come una retorica del colore cinematografico[8]. In base a questa ipotesi, la fase classica del Technicolor, corrispondente al periodo di influenza dei colour consultants (1935-1954), può essere considerata come l’espressione di una retorica classica, che costituisce il corrispettivo colorico del modo di rappresentazione hollywoodiano[9].

Del resto, il color consultant resta una figura assai difficile da pensare al di fuori delle logiche produttive integrate dello studio system: attraverso i suggerimenti della sua équipe di tecnici, la Technicolor ha orientato la produzione statunitense di film a colori per circa un ventennio, creando una serie di ricorrenze formali capaci di affermarsi entro lo stile hollywoodiano come sua parte costitutiva. D’altra parte, sarebbe un errore interpretare questa retorica nei termini di una pura e semplice omogeneizzazione delle procedure formali. Come ogni sapere istituzionalizzato, anche la retorica del Technicolor presenta le sue contraddizioni e contiene i presupposti del suo stesso superamento. Il gioco che si instaura tra codice e trasgressione non è sempre integralmente riassorbito dalla finzione: la ricerca di un equilibrio regolato è sempre sul punto di essere spezzata dall’irruzione del colore: basti pensare allo sviluppo storico del film in Technicolor e all’uso che ne fanno registi come Hitchcock o Sirk.

Nel complesso, dunque, l’incidenza testuale risulta piuttosto diversificata: soltanto l’analisi dei singoli film può dare conto di come il colore si posizioni caso per caso nei confronti delle procedure formali esistenti, incidendo sulle determinazioni di lettura. Nel dopoguerra, quando il colore si affaccia sulla scena del cinema europeo, il livello di articolazione retorica raggiunto dai film in Technicolor è già notevolmente sviluppato: essi hanno fondato la prima tradizione colorica prettamente cinematografica e possono essere considerati come un termine di confronto su cui innestare la nuova tradizione nazionale.


[II parte]

 





[1] Con il termine monopack si fa riferimento ai sistemi di riproduzione del colore basati sull'impiego di un unico negativo di ripresa, in grado di registrare su tre strati sovrapposti i tre colori primari. Come è noto, il sistema fu lanciato in campo professionistico dalla tedesca Agfa all'inizio degli anni quaranta e si diffuse a livello internazionale nel dopoguerra, dopo l'acquisizione dei brevetti Agfa da parte dei paesi alleati. Tra i principali sistemi monopack sorti nel dopoguerra, ricordo il Sovcolor (1945), l'Anscocolor (1945), il Gevacolor (1947), il Ferraniacolor (1949) e l'Eastmancolor (1951).
[2] Cfr. Dudley Andrew, The Post-War Struggle for Colour (1980), ora in Color, The Film Reader, a cura di Angela Dalle Vacche e Brian Price, New York-London, Routledge, 2006, pp. 40-49. Fa eccezione la Gran Bretagna, dove la presenza di una filiale della Technicolor aveva permesso una più precoce diffusione del colore e il suo uso da parte di forti personalità autoriali come Lawrence Olivier, Michael Powell ed Emeric Pressburger.
[3] Per il concetto di visibile, cfr. Pierre Sorlin, Sociologia del cinema (1977), Milano, Garzanti, 1979.
[4] A questo proposito, il modello metodologico di riferimento è costituito dalla lettura sintomatologica dell’opera d’arte promossa da Michael Baxandall, cfr. Forme dell’intenzione. Sulla spiegazione storica delle opere d’arte (1985), Torino, Einaudi, 2000.
[5] Insieme a La Cucaracha (Lloyd Corrygan, 1934), Becky Sharp dispiega specifiche strategie estetiche al fine di dimostrare il sistema Technicolor No. 4 all’industria hollywoodiana. Principale responsabile dell’elaborazione cromatica delle pellicole è il designer teatrale Robert Edmund Jones, assunto dalla produzione per la tendenza all’uso espressivo di luci e colori già mostrata sui palcoscenici di Broadway. I due film mettono in evidenza il potenziale tecnico e drammatico del Technicolor tricromo, enfatizzando attraverso il colore le emozioni dei personaggi e le svolte narrative, con una modalità di rappresentazione che è stata definita dimostrativa. Cfr. Scott Higgins, Demonstrating three-colour Technicolor: Early three-colour aesthetics and design, in Colour Film, a cura di John Belton, in «Film History», XII (2000), n. 4, pp. 358-383.
[6] Natalie M. Kalmus, Color Consciousness, in «Journal of the Society of Motion Picture and Engineers», August 1935, n. 2, pp. 139-147.
[7] L’ultimo approdo della teoria semiopragmatica del cinema, da anni al centro delle riflessioni di Roger Odin, è costituito da: Roger Odin, Della finzione (2000), Milano, Vita e Pensiero, 2004. A tale studio ho fatto riferimento per individuare i diversi modi di produzione di senso, con particolare riferimento a quello finzionalizzante.
[8] Per i problemi teorici connessi alla definizione di una retorica del visibile cinematografico, cfr. Sandro Bernardi, Introduzione alla retorica del cinema, Firenze, Le Lettere, 1994.
[9] Per una descrizione dello modo di rappresentazione del cinema hollywoodiano classico, cfr. David Bordwell, Janet Staiger, Kristin Thompson, The Classical Hollywood Cinema. Film Style & Mode of Production to 1960, London, Routledge, 1985.


[II parte]

 





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II parte




 
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