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Federico Pierotti

Federico Pierotti, Totò, Antonioni e l’America. Retoriche del film a colori nel cinema italiano (1952-1964) (II parte)

Data di pubblicazione su web 01/04/2008
Totò a colori
© drammaturgia.it - redazione@drammaturgia.it


2. L’Italia: tre approcci al colore

In Italia, come in altre cinematografie europee, la situazione di partenza è molto differente rispetto a quella statunitense. Mentre negli Stati Uniti il processo di formalizzazione retorica è disciplinato dall’opera dei consulenti per il colore, nel vecchio continente esso tende a disperdersi in un arcipelago di competenze e attribuzioni che rendono l’operato di tecnici e registi assai più disordinato. Se un confronto diretto tra quello che si è proposto di definire una retorica classica e le singole vie nazionali al colore appare difficilmente proponibile, si può invece assumere che, per la produzione media, il termine di confronto più immediato per i film a colori siano diventati gli stessi film a colori del passato (cioè in grande maggioranza quelli in Technicolor), eventualmente da ibridare con qualche altra tradizione extracinematografica autoctona.

Al contrario, per questo tipo di produzione, la pittura cessa di agire come imprescindibile punto di riferimento. Solo nel momento in cui il cinema a colori si libera dai suoi complessi di inferiorità nei confronti della pittura esso può essere proposto come valida alternativa al bianco e nero. E in effetti anche il percorso argomentativo della Kalmus, per quanto le referenze alla pittura possano apparirvi poco pertinenti, è leggibile nei termini di un affrancamento del cinema dalla pittura, compiuto attraverso la programmazione di un modello di fruizione.

I problemi che si pongono nel dopoguerra, non sono dissimili da quelli su cui la Kalmus si era interrogata alcuni anni prima: il primo di essi riguarda la relazione tra istanze visive e istanze discorsive e si traduce in termini operativi nella scelta di quale posto assegnare al colore all’interno dell’immagine e, più in generale, del racconto. Il secondo problema riguarda invece il rapporto da instaurare con la tradizione tecnica del bianco e nero: da questo punto di vista, la spinta a utilizzare il colore come valore aggiunto è controbilanciata da una tendenza di segno contrario che porta alla volontà di recuperare le opzioni espressive della più antica forma di rappresentazione. Nei paesi europei che accordano la loro preferenza ai sistemi monopack, il problema si pone soprattutto in relazione all’illuminazione chiaroscurale e alla profondità di campo, due tecniche portate ad un alto grado di perfezionamento nella fotografia in bianco e nero e ritenute pressoché impossibili con il colore, a causa della bassissima sensibilità delle nuove pellicole.

Lo sforzo per la riacquisizione di alcune tecniche specifiche del bianco e nero evidenzia la volontà di legittimare il colore sul piano delle possibilità espressive e crea le condizioni per l’accettazione della novità. In questa chiave, le opzioni formali adottate dai testi filmici sono leggibili come un deposito di competenze tecniche che costituiscono la risposta, su un terreno eminentemente operativo, ad alcuni dei problemi sollevati in sede teorico-critica.

 

2.1 Totò e il palcoscenico del varietà

Totò a colori, che una consolidata tradizione considera come il primo lungometraggio a colori del cinema italiano, è stato a ragione definito una rivista cinematografica[10]. Il film, entrato in lavorazione alla fine del 1951 e uscito nell’aprile del 1952, costituisce un assemblaggio di una serie di sketch e di battute prelevati dai migliori numeri che Totò aveva già avuto modo di presentare in precedenza sui palcoscenici di rivista e di avanspettacolo, prima ancora che sullo schermo. Nel momento in cui il problema del colore è affrontato concretamente nel cinema italiano, i suoi primi promotori, i giovani produttori Carlo Ponti e Dino De Laurentiis, decidono di trovare una soluzione in grado di porre le esigenze della novità sotto la tutela di una ben precisa tradizione, specificamente legata ad un contesto spettacolare autoctono: quello del teatro di rivista, che nella fase di recrudescenza totalitaria del fascismo e nel periodo bellico aveva rappresentato una delle principali forme di evasione popolare.

Non solo Totò era figlio di quella tradizione, ma anche il regista Steno e la maggior parte degli interpreti, scritturati per fare da spalla al comico napoletano: Virgilio Riento, Mario Castellani, Rocco d’Assunta, Luigi Pavese, Galeazzo Benti, Alberto Bonucci, Vittorio Caprioli, e, tra le attrici, Isa Barzizza e Franca Valeri. Il film configura una peculiare via italiana colore, assai diversa da quella proposta dal cinema di Hollywood. La scelta del film rivista è dettata dall’esigenza di andare incontro a un bacino predefinito di pubblico attraverso la ricerca di continuità con una preesistente tradizione spettacolare e con le relative forme di rappresentazione, che, rispetto al cinema classico, presuppongono un diverso coinvolgimento dello spettatore.

Rimuovendo il modello statunitense in favore del riferimento a una consolidata tradizione spettacolare di impronta prettamente italiana, Totò a colori inaugura la prima tipologia formale del cinema a colori, destinata a una presenza significativa sugli schermi nazionali nella prima metà degli anni cinquanta. Essa configura quello che può essere definito un uso attrazionale del colore, centrato sull’esibizione del potere sensoriale e spettacolare della novità[11]. Nel film, la linea narrativa si riduce a una labile traccia che ha l’unico scopo di tenere unita una serie di sketch: Totò ha modo di esibirsi in molti numeri che si alternano sullo schermo come sul palcoscenico della rivista. Il contesto spettacolare di partenza è dichiarato esplicitamente attraverso l’immagine di un sipario teatrale che accompagna i titoli di testa del film, luogo testuale privilegiato per definire il posizionamento dello spettatore (imm. 1).

Fin dalla sua prima immagine iconica il film tende a scoraggiare la costruzione di un mondo finzionale e a collocare quanto segue all’interno di un spazio spettacolare, il palcoscenico. L’immagine assolve anche la funzione di anticipare uno dei numeri che avevano contribuito alla celebrità del comico partenopeo: l’imitazione di Pinocchio, che costituisce il punto di saldatura più forte, insieme all’episodio del vagon lit, con quel contesto spettacolare (imm. 2). Il richiamo all’attore marionetta Totò, il cui nome appare sovraimpresso a quella stessa immagine, e alla cornice teatrale degli sketch serve anche a offrire una motivazione per la scelta del colore, reputata eccezionale per il medium cinema ma ampiamente certificata presso il pubblico della rivista, abituato alla presenza di costumi e scenografie dai colori sgargianti e innaturali.

La dichiarazione di appartenenza a una serie culturale extracinematografica libera il testo dall’obbligo di aderire ai codici del realismo e di proporre un uso della novità del tutto alternativo alla logica della verosimiglianza cromatica sottesa alla retorica classica del colore. Svincolato in via preliminare dall’esigenza di ricondurre il colore allo sviluppo di un racconto, lo spettatore è letteralmente invaso da una serie di stimoli cromatici che è impossibile ricondurre a un modello di organizzazione. Il film mostra una tendenza all’esibizione dei più svariati accostamenti di tinte fin dalla sequenza iniziale. Dopo una veduta del paesino in cui il film è ambientato, l’azione si concentra all’interno della casa dove Totò vive alle spalle della sorella e del cognato Rocco.

L’attore comico è introdotto da un dialogo tra questi due personaggi. La scena è ambientata in una camera da letto sovraccarica di colore, in cui non è riscontrabile alcun criterio di separazione tra figura e sfondo, dal momento che le tinte della scenografia riecheggiano sistematicamente quelle dei costumi: il terra di Siena della coperta si ripete sul pigiama a strisce di Rocco; il verde opaco del lenzuolo richiama il colore leggermente più scuro della parete, il carta da zucchero della porta è lo stesso del vestito della cameriera, che contribuisce al disordine visivo con un grembiule rosso (imm. 3 e imm. 4). Il prosieguo della scena conduce alla presentazione di Totò, che indossa un vistoso foulard tra il verde turchese opaco e il lavanda opaco e un abito porpora (imm. 5).

L’incipit, dunque, rende esplicita allo spettatore la scelta della tavolozza che lo accompagnerà per tutto il film: un posto centrale è assegnato alle gamme dei rossi e dei porpora, dei verdi opachi e dei verdi turchesi, dei carta da zucchero e dei lavanda; al contrario, ai colori neutri è riservato un ruolo più marginale. Il colore si dispone in pari grado su costumi, arredi e scenografie, è indossato da personaggi principali e secondari, ed è presente su primi piani e sfondi; il principio cardine della retorica classica, la gerarchizzazione dei cromatismi in scena in funzione del rispettivo peso drammaturgico, è sistematicamente violato. In questo quadro spettacolarizzante, risulta prevalente, dal punto di vista tecnico, l’esigenza di sperimentare nuove marche stilistiche impossibili da ottenere con il bianco e nero.

Come ha ricordato Elio Finestauri, impegnato nel film in qualità di tecnico del colore:

I contrasti si dovevano creare, si diceva, con gli accostamenti cromatici, tra colori che riflettevano più luce e colori che ne riflettevano meno: era più facile a dirsi che a farsi, e ne uscivano fuori vere e proprie frittate di colori dove, in ogni inquadratura, c’era di tutto. L’eccitazione poi di girare il primo film a colori portava tutti, dallo scenografo al trovarobe, a colorare qualsiasi cosa di un colore brillante, dalle pareti delle stanze agli stipiti, ai mobili, ai capelli stessi degli attori[12].

Il contrasto chiaroscurale è sostituito dall’accostamento delle diverse tinte di scenografie e personaggi, con la conseguenza di produrre stacchi particolarmente stridenti e continui effetti di fusione tra figura e sfondo. L’altro elemento centrale della fotografia in bianco e nero, la composizione in profondità di campo, è invece negata dalla presenza di sgargianti scenografie alle spalle degli attori, che, oltre a richiamare la prassi scenografica del teatro di rivista, implica un appiattimento dell’immagine e una chiusura degli spazi. L’uso spettacolarizzante del colore scoraggia la costruzione di una diegesi coerente: gli spazi si susseguono indipendentemente uno dall’altro, così come gli episodi che compongono il film. Il colore agisce come fattore di distrazione.

Sul piano delle forme, esso opera nella stessa direzione in cui opera il personaggio di Totò rispetto ai contenuti: mentre il colore configura un ipotesi spaziale incoerente e trascina lo spettatore verso il godimento della dimensione ludica dell’immagine, l’attore agisce parallelamente come agente di decostruzione delle situazioni sociali attraverso la mimica e i continui giochi verbali. Sarebbe tuttavia un eccesso interpretativo considerare il film soltanto come un prodotto di rottura radicale nei confronti della tradizione del bianco e nero. Così come il testo non scoraggia del tutto una lettura in termini di finzione (una traccia narrativa, per quanto labile, è infatti presente), esso non rinuncia del tutto ad alcune delle più tradizionali tecniche di costruzione spaziale attraverso la luce.

Una delle ragioni del particolare stile cromatico del film può essere ricercata nelle limitazioni tecniche imposte dalla bassa sensibilità della pellicola Ferraniacolor: pare che i tecnici della società avessero imposto al direttore della fotografia di usare un’illuminazione intesa e omogenea in tutte le scene, evitando di creare contrasti di luce che avrebbero creato zone di sottoesposizione. In alcune sequenze si può notare il desiderio di forzare queste prescrizioni, anche al fine di occultare i limiti tecnici della pellicola e dimostrarne, entro i limiti del possibile, la versatilità[13]. Da questo punto di vista, la sequenza più sperimentale del film è quella ambientata in un piccolo teatrino in cui Totò, per sfuggire al cognato che ha intenzione di ucciderlo, si rifugia in un deposito di marionette.

Sul piano luministico essa costituisce il tentativo di integrare una soluzione tipica del bianco e nero con alcune specifiche possibilità offerte dal colore: nel corridoio dietro le quinte da cui i tre fuggitivi cercano di scampare alla morte le lampade sono disposte in modo da descrivere aree di luce e di ombra delimitate da linee oblique; all’interno del deposito di marionette, caratterizzato da un livello di illuminazione più ridotto, una luce intermittente di colore verde, assieme al fascio obliquo che colpisce una maschera rossa sull’avampiano, conferiscono maggiore dinamismo e profondità all’inquadratura grazie al contrasto tra caldo e freddo che rafforza quello tra primo piano e sfondo (imm. 6). Rispetto alla sequenza incipitaria, la ricerca di effetti più elaborati manifesta l’esigenza di spingere il colore verso soluzioni meno prevedibili, che richiedano più complesse operazioni di produzione di senso.

Da questa esigenza di superamento si sviluppa un costante lavoro sui codici che sarà proseguito da altri film. Già alcuni anni dopo Totò a colori lo scenario presenta alcune significative novità.

 

2.2 Bozzetti della commedia all’italiana

Una volta che i film a colori di produzione nazionale cessano di far riferimento agli universi spettacolari della rivista e dell’avanspettacolo o ai mondi di pura fantasia dei film mitologici o avventurosi, comincia a porsi in termini peculiari il problema dei rapporti reciproci tra colore, diegetizzazione e illusione di realtà. Nell’Italia del dopoguerra il cinema neorealista aveva contribuito a estendere gli orizzonti del visibile, includendovi aspetti drammatici, conflittuali e marginali che in precedenza erano stati sistematicamente esclusi. Quando il colore fa la sua comparsa ufficiale sugli schermi nazionali, l’esperienza neorealista è già conclusa definitivamente; la sua più immediata eredità, pur tradita e traviata, è raccolta da un filone della produzione popolare, la commedia bozzettistica, che è stata interpretata come una peculiare modalità di amministrazione del lascito neorealista[14].

Le istanze più radicali del cinema italiano postbellico sono depotenziate e sottoposte a una pratica sistematica di rimozione della conflittualità, realizzata allo scopo di entrare in sintonia con il linguaggio del pubblico popolare. Anche l’uso del colore è investito da un analogo processo di normalizzazione, dettato da preoccupazioni simili a quelle che avevano spinto la Kalmus a formulare il principio del color restraint: controllare il potenziale eversivo del colore in funzione di una più diretta leggibilità del racconto. Il colore inizia a essere controllato attentamente in modo da non impedire allo spettatore la costruzione di un mondo diegetico coerente. Questa particolare attitudine, che implica un’integrazione del colore nelle procedure discorsive del racconto, può essere definita narrativa.

Nel medio periodo, essa risulta determinante nel favorire la convergenza tra la novità e la tradizione del bianco e nero. Sul piano delle forme, infatti, il passaggio dal neorealismo al bozzettismo produce un indebolimento dell’identificazione tra visibile e bianco e nero e apre nuovi spazi di legittimazione culturale per il colore. In questo modo, sfondi e personaggi dei film a colori entrano a far parte delle rappresentazioni dei cambiamenti socioculturali che attraversano l’Italia alle soglie del boom economico. Come esempio di impiego narrativo del colore si prenderà in esame Racconti romani di Gianni Franciolini, uno dei film che apre la strada alla commedia bozzettistica a colori.

Il film propone un uso distillato del colore, riservando alle tinte più sature uno spazio piuttosto ridotto all’interno delle inquadrature espanse del CinemaScope. Anche in questo caso, la sequenza dei titoli di testa offre utili indicazioni circa l’impiego del colore: le scritte scorrono su una serie di vedute di edifici e monumenti capitolini, che si configurano sul piano cromatico per la prevalenza di una gamma tra il verde scuro degli alberi, il colore plumbeo del cielo e le sfumature di grigio e marrone degli elementi urbanistici (imm. 7 e imm. 8). La prevalenza di tinte neutre e smorzate manifesta la volontà di contenere le manifestazioni del colore: la definizione della profondità e delle relazioni spaziali è affidata soprattutto al gioco delle variazioni luministiche, come nell’immagine in bianco e nero.

La forte riconoscibilità dei luoghi mostrati implica per il colore una forte referenza realistica: se queste immagini non fossero accompagnate dalle scritte dei titoli di testa, lo spettatore sarebbe portato a leggerle come una sorta di compendio iconografico della città di Roma. L’utilizzo di un repertorio sterotipato assicura un’impressione di familiarità, poggiata su precedenti esperienze visive, cinematografiche e non, cui il pubblico può riallacciare quelle immagini, con particolare riferimento a Vacanze romane (Roman Holiday, William Wyler), presentato in Italia nel 1954. L’attivazione di questa competenza intertestuale permette di porre il film sulla scia di un genere piacevole e coinvolgente e rafforza la fiducia che lo spettatore è disposto ad accordare al testo. Inoltre, la presenza del titolo e la lista degli interpreti costituisce un chiaro invito ad attivare i meccanismi di costruzione del mondo finzionale: lo spettatore in sala è dunque invitato a ricostruire, attraverso i luoghi che gli vengono mostrati, uno spazio simbolico coerente e unitario, la città di Roma, all’interno del quale il film svilupperà una serie di episodi.

Nondimeno, la funzione del colore non si esaurisce nel rinforzo dell’illusione di realtà. Una volta che la prima sequenza narrativa del film permette di attivare in toto i meccanismi della lettura di finzione, l’uso del colore contribuisce a dirigere l’attenzione dello spettatore e a rafforzare le relazioni all’interno della diegesi. Le peripezie dei quattro ragazzi protagonisti, Alvaro, Mario, Otello e Spartaco, sono attivate da una sorta di apparizione cromatica: l’arrivo di un camioncino di colore giallo e blu carico di bottiglie contenute in cassettine gialle e rosse (imm. 9). La comparsa del veicolo fa sorgere in Alvaro un desiderio di emulazione e gli suggerisce l’idea di fondare una cooperativa di trasporti: la necessità di mettere insieme il denaro necessario costituisce il movente narrativo dei diversi bozzetti che compongono il film. Più avanti, quando i quattro decidono di andare a provare il camioncino indispensabile per coronare il loro sogno di indipendenza lavorativa, la scelta cade su uno sgargiante veicolo rosso, che si contrappone a un altro, di colore grigio, che solo il più imbranato del gruppo, Spartaco, dice di preferire (imm. 10 e imm. 11).

Una seconda linea narrativa è costruita attorno alle vicende sentimentali dei quattro giovani, e in particolare di Spartaco, fortemente attratto dalla giovane Ines, cameriera in un bar abituale del gruppo. Il locale, luogo di apparizione di Ines, è caratterizzato da una più marcata presenza colorica: alla sua prima apparizione la ragazza indossa una maglietta azzurro chiaro e una gonna bianca a pois rossi, gialli e blu, un abbigliamento decisamente più vivace rispetto alla gamma di bianchi, grigi e blu stinti sfoggiata dagli uomini (imm. 12). Al contario, le mogli e le fidanzate degli altri tre descrivono una gamma cromatica poco appariscente, formata da colori neutri o da tonalità stinte di azzurro, rosa e giallo; la presenza ricorrente di motivi a quadretti o a righe nei loro vestiti, denota l’appartenenza a una dimensione eminentemente domestica, al cui grigiore i protagonisti fanno di tutto per sottrarsi.

Le sequenze che implicano un più diretto riferimento allo svago o al consumo di beni sono caratterizzate da un superiore livello di invadenza cromatica: dagli arredi del bar alle bibite colorate che è possibile acquistarvi, dai manifesti pubblicitari alle insegne degli esercizi commerciali, dal trampolino di una piscina alle giostre del luna park. Gli elementi di attrazione cromatica sono generalmente inglobati nel tessuto narrativo e giustificati sul piano diegetico. In questo modo il colore assorbe una serie di determinazioni culturali. Esso può essere letto come il mezzo che definisce i confini di una piena realizzazione dell’io: soddisfazione delle ambizioni personali, sogno di appagamento sessuale, fuga dal quotidiano. Esso concorre a individuare gli oggetti del desiderio dei protagonisti e a definire le forze e le relazioni che guidano l’intreccio: il colore diventa un importante vettore di attivazione del senso.

Per ottenere questo effetto, il film sottopone il colore a una serie di istanze gerarchizzanti, che configurano una sorta di via italiana al color restraint: la presenza di colori saturi sulla scena è infatti sistematicamente evitata, a meno che essi non vadano incontro all’esigenza principale: agevolare l’intelligibilità della storia raccontata. Le tecniche corrispondenti a una strategia che si è scelto di assimilare, non senza una certa forzatura, a quella del color restraint, comportano il recupero di alcune tecniche di definizione spaziale riconducibili alla tradizione del bianco e nero, aggiornate alle esigenze del nuovo mezzo. Un peculiare elemento di interesse del film è costituito dal recupero della profondità di campo nelle riprese in esterni. Il potenziale drammaturgico dell’opzione tecnica, resa possibile dall’impiego della più sensibile pellicola Eastman Color, non è utilizzato che in minima parte. Alla profondità di campo visiva non corrisponde mai, infatti, una vera e propria composizione in profondità; anche se le figure tendono a rimanere distinte e separate dallo sfondo, quest’ultimo acquista una certa importanza, anche in ragione della necessità di sfruttare il maggiore spazio messo a disposizione dal CinemaScope[15].

Con simili scelte, il film favorisce, assieme ad altri coevi, un processo di normalizzazione, attraverso una serie di procedure miranti a inglobare il colore in un orizzonte formale il più possibile omogeneo. Per questa via, il colore tende a liberarsi dagli investimenti puramente attrazionali e spettacolari e inizia a farsi carico di un generico significato di natura culturale: il colore si pone come un nuovo elemento del visibile, che indica allo spettatore una serie di indizi di cambiamento disseminati all’interno del paesaggio urbano. La diffusione della novità mette in atto un lento e ostinato lavoro che sottrae al bianco e nero numerose rappresentazioni, a partire dagli stereotipi visivi del paesaggio (come in Racconti romani e in molti altri film a colori successivi), e che d’altra parte si inserisce nel profondo processo di trasformazione economico e culturale che investe il paese negli anni del boom, mutandone le coordinate spazio-temporali.

Tutte le istanze di cambiamento che percorrono lo scenario nazionale costituiscono la materia prima narrativa di molti film a carattere popolare, che in nome della leggibilità del racconto favoriscono la saldatura tra il colore e le forme discorsive più prossime ai gusti del pubblico, come nel caso della commedia bozzettistica o del filone turistico e vacanziero, che hanno nel colore uno dei loro elementi caratterizzanti. Attraverso il perfezionamento di un uso narrativo sembra consumarsi definitivamente l’incontro tra il colore e lo spettatore.

 

2.3 Antonioni: il colore del cinema d’autore

Dal punto di vista del discorso che si va qui tentando di articolare, Il deserto rosso può essere simbolicamente considerato l’ultimo film del periodo di cui ci stiamo occupando e il primo di una nuova fase della storia del colore nel cinema. Nel 1964, quando il film esce sugli schermi, il processo di naturalizzazione del colore, iniziato verso la metà del decennio precedente, può dirsi completato: i tecnici hanno messo a punto un ventaglio ormai assai ampio di soluzioni espressive, anche in virtù di consistenti miglioramenti dei dispositivi e dei procedimenti[16]. È solo in questo periodo che il cinema d’autore, in Italia e in Europa, inizia a convertirsi in blocco al colore, affrancandosi definitivamente dal postulato teorico critico degli anni venti e trenta basato sulla superiorità artistica del bianco e nero.

Una tradizione affermatasi in Europa fin dal secondo dopoguerra aveva individuato nella pittura il referente privilegiato con cui il cinema a colori avrebbe potuto instaurare un dialogo produttivo, come avevano mostrato gli esempi de La congiura dei Boiardi (Ivan Groznyj, Sergej M. Ejzenstejn, 1944) o Enrico V (Henry V, Lawrence Olivier, 1945). Al contrario, l’ipotesi sviluppata in seno al cinema hollywoodiano era fortemente avversata, in quanto ritenuta, a torto o a ragione, eccessivamente naturalistica. A questa duplice posizione si possono ricondurre anche i pochi film a colori con ambizioni dichiaratamente autoriali realizzati in Italia negli anni cinquanta: Senso (Luchino Visconti, 1954), Giulietta e Romeo (Renato Castellani, 1954) e Giorni d’amore (Giuseppe De Santis, 1954).

Per questa particolare tradizione, che si sforza di valorizzare i caratteri visivi del colore in direzione di disposizioni di lettura in grado di oltrepassare sia il dato illusionistico che quello finzionale, si può parlare di uso critico-espressivo del colore[17]. Esso si distingue nettamente, in termini di rapporto con lo spettatore, sia dal modo attrazionale che da quello narrativo. Con il primo ha in comune lo sfruttamento delle risorse sensoriali del colore, che però non esauriscono più il loro significato nella pura spettacolarizzazione ma chiedono di essere coinvolte in più complessi investimenti di senso. Dal modo narrativo invece si differenzia essenzialmente per la rinuncia ad asservire tali risorse alle esigenze di leggibilità della storia raccontata: il colore non si limita a sottolineare le forze motrici del racconto, ma costituisce una autonoma forza enunciazionale all’interno del discorso filmico, in linea con le preoccupazioni riflessive e metalinguistiche del cinema moderno.

Rispetto a questo problema Il deserto rosso occupa un posto di assoluto rilievo. Come ogni opera di grande impatto stilistico e culturale, il film di Antonioni ha la capacità di far apparire sotto una nuova luce un problema che già all’epoca poteva apparire invecchiato: quello della referenza pittorica del colore filmico. Come è noto, la questione attraversa l’intera carriera di Antonioni, che già da critico aveva iniziato a interrogarsi sulle funzioni del colore nel cinema con una serie di articoli apparsi in varie riviste tra il 1940 e il 1949[18].

La pars construens del discorso di Antononi risiedeva già all’epoca nell’esigenza di fondare una tradizione europea di cinema a colori basata su un fondamento estetico; il nuovo mezzo era preso in considerazione come elemento di primaria importanza, in grado di porre in modo nuovo il problema formale dell’inquadratura (in termini di armonia colorica) e della luce (in termini di particolari forme di chiaroscuro ottenute per via cromatica) (nell'articolo intitolato Suggerimenti di Hegel). Le condizioni di esistenza del cinema a colori erano state individuate in una linea di continuità con una tradizione pittorica che dai pittori veneziani era ricondotta fino a Matisse e Gauguin. L’allora critico aveva sviluppato parallelamente una corrispondente pars destruens, scagliandosi polemicamente contro l’ipotesi di colore sviluppata dal cinema di Hollywood, interpretata come un processo di standardizzazione di impronta piattamente naturalistica (negli articoli Il colore e l’America e Il colore non viene dall’America).

Cercare di leggere Il deserto rosso alla luce delle idee espresse quasi venti anni prima, in un diverso contesto tecnico e culturale, costituirebbe una forzatura interpretativa. Il film, che pure va a toccare problemi affini a quelli sollevati in sede teorica dall’allora critico, pone il problema del colore su nuove basi, su cui si costruisce un nuovo modo di pensare il colore nel cinema. Partendo dalle molte importanti acquisizioni apportate da alcuni studi sul film, ci si limiterà in questa occasione a formulare alcune considerazioni, in forma necessariamente sintetica.

In primo luogo, il film si colloca in una posizione fortemente problematica nei riguardi di un tentativo di lettura finzionalizzante. A tal proposito, risulta particolarmente indicativa la sequenza dei titoli di testa: le diciannove inquadrature fisse e in movimento sul paesaggio tecnologico della fabbrica sono tutte accomunate dall’uso del teleobiettivo e dello sfocato; si tratta di una scelta stilistica che dissolve gli oggetti della loro consistenza materiale e disturba fortemente la loro riconoscibilità iconica. Il colore si dà a vedere fin dall’inizio come un elemento intransitivo rispetto alla figura, realizzando una dissociazione del colorico dall’iconico che può essere letto come una sorta di corrispettivo cinematografico dell’affrancamento pittorico del colore dal disegno (imm. 13 e imm. 14).

Antonioni sembra qui operare la traduzione visiva di un’idea che aveva espresso nell’articolo Suggerimenti di Hegel, in cui asseriva che: «il cinema in bianco e nero sta al cinema a colori come il disegno sta alla pittura». Mettendo in discussione una delle precondizioni fondamentali dell’illusione di realtà, la presenza del colore contribuisce in maniera sostanziale a rafforzare quel progetto di dissoluzione delle storie che il registra ha intrapreso soprattutto a partire da L’avventura: lo spettatore non è più chiamato a comprendere una storia, ma a compiere un’esperienza visiva[19].

Questo processo non corrisponde a una rinuncia totale alla narratività e alla finzione, ma a una radicale rimessa in discussione delle sue categorie fondanti. Alla già notata spinta a rendere problematica la figurativizzazione, corrisponde una analoga tendenza nei confronti della costruzione del mondo diegetico, attraverso la dissoluzione delle tradizionali forme di rappresentazione dello spazio, del tempo e della soggettività messe a punto dal cinema classico. La prima forma a essere demolita è quella della soggettiva, che si discioglie in una serie di figure intermedie di incerta o impossibile attribuzione, che spostano l’asse di attenzione dal soggetto alla visione come esperienza. Anche sul piano del colore si attua un analogo spostamento, che rende alquanto riduttiva una lettura del colore in termini puramente psicologici o soggettivi; quest’ultima infatti dovrebbe presupporre una concezione stabile e unitaria del soggetto e delle sue manifestazioni visive, mentre un approccio di questo tipo è sistematicamente frustrato dal testo, che, a differenza del film classico, non opera mai una netta distinzione tra percezioni oggettive non marcate e percezioni soggettive cromaticamente alterate, lasciando lo spettatore in uno stato di incertezza[20].

Lo stesso accade riguardo alla costruzione dello spazio e alla definizione del rapporto tra figura e sfondo, elementi su cui la Kalmus aveva individuato i principi della sua retorica del colore. Mentre il montaggio impedisce la costruzione di uno spazio unitario coerente, attraverso continui raccordi non motivati e scavalcamenti di campo, il colore è al centro un’operazione del tutto analoga dentro l’inquadratura, che ne mette in crisi la leggibilità: l’indistinzione delle figure tramite lo sfocato, come nella sequenza dei titoli di testa; l’inversione della tradizionale gerarchia tra figura e sfondo, con la accentuazione di oggetti drammaturgicamente inerti, come le tubature colorate della fabbrica o l’improvvisa fuoriuscita di vapore bianchissimo (imm. 15 e imm. 16); oppure, infine, la fusione di diversi piani di profondità in un’unica manifestazione colorica di superficie, come nella sequenza in casa dell’operaio, impostata su un riferimento diretto a Matisse[21] (imm. 17 e imm. 18).

Attraverso questi procedimenti formali, l’organizzazione delle inquadrature chiama in causa direttamente il problema del rapporto con la pittura, cui Antonioni si era già riferito nei suoi articoli degli anni quaranta. Il nuovo approccio promosso dal regista è frutto di una serie di meditazioni sull’arte e la cultura contemporanea che lo hanno portato a una riconsiderazione di quelle posizioni, all’epoca influenzate dal coevo dibattito sul colore nel cinema. Se in quegli articoli (e in particolare in Suggerimenti di Hegel) avallava una visione sistematica delle arti, e la possibilità di una transizione diretta dalla pittura al cinema, Il deserto rosso, al contrario, pare aver profondamente assimilato le proposte artistiche che, nel corso del Novecento, hanno condotto, anche grazie al cinema, a una messa in crisi della categorie.

È in questi termini che il problema della referenza pittorica può essere considerato: la pittura non è più necessaria in quanto riferimento nobilitante per il cinema a colori, come è stato per circa un trentennio, ma costituisce una fonte d’interesse in quanto è stata la prima a tradurre in termini visivi, anche attraverso il colore, la dissoluzione delle categorie percettive, a rendere problematica la distinzione tra solido, liquido e gassoso, tra organico e inorganico. Il deserto rosso è lo sviluppo di una consapevolezza estetica tipicamente novecentesca: «Per uno stesso oggetto, non esistono colori fissi. Un papavero può esser grigio, una foglia nera. E i verdi non sono sempre erba, i blu non sono sempre cielo». Così aveva scritto Antonioni, citando Matisse, nel 1947. In questa prospettiva, il colore contribuisce a esprimere quello che può essere considerato il significato culturale centrale del cinema di Antonioni: la perdita di un rapporto stabile tra il soggetto e il mondo[22].

Le brevi considerazioni avanzate dovrebbero aver contribuito a mostrare come il colore rivesta un ruolo importante nel porre sotto una luce nuova il rapporto tra il film e lo spettatore. Il deserto rosso offre una nuova articolazione di quello che si è scelto di definire un uso critico-espressivo del colore. Innanzitutto, come si è visto, Antonioni offre un contributo determinante nello svincolare il colore dal postulato teorico che impone la necessità di nobilitare la novità attraverso il ricorso alla pittura: il film mostra come il pittorico al cinema non sia da intendere come qualcosa di nettamente distinguibile dal filmico. Ne è una prova il modo di porsi nei confronti della forte invadenza di colori sintetici nel mondo contemporaneo, colori produttori di detrito tossico e veleno e, al contempo, portatori di una nuova idea di bellezza.

L’ambivalenza è simboleggiata dal mondo della fabbrica, luogo del colore e nuova cattedrale del consumo, che con le sue esalazioni di fuoco e vapori sembra aver incenerito e decolorato l’ambiente circostante: l’intreccio di linee e colori formato dalle tubature della raffineria, o anche l’immenso magazzino di damigiane accatastate, trova così il suo corrispettivo colorico nelle strade e nei paesaggi ingrigiti di Ravenna, simbolo del mondo industrializzato[23] (imm. 19 e imm. 20). Per questa via, il film realizza una singolare, e paradossale, convergenza di cinema puro e impuro, in cui la nuova fotogenia dei colori acrilici della Max Meyer convive con i continui echi pittorici che l’autore lascia risuonare nelle immagini[24].

Dunque, se i film che promuovevano un uso narrativo del colore praticavano la sostituzione del bianco e nero con il colore per rappresentare vecchi stereotipi iconografici, puntellando l’operazione sull’appeal della finzione, Il deserto rosso non solo oltrepassa questi stereotipi, ma si fa promotore di un processo di allargamento del visibile situato assai più in profondità. Se film come Racconti romani avevano mostrato a colori un mondo già noto in bianco e nero, registrandone le tracce di evoluzione consumistica, Il deserto rosso apre gli occhi dello spettatore su oggetti e paesaggi che non possono essere visti in nessun altro modo che a colori. Percorrendo altre vie, approdano a uno sbocco analogo, grossomodo nello stesso periodo, altri registi (in primis Godard) e artisti (Andy Warhol e la pop art).

Non ci pare illecito pensare che sia anche grazie a questo fenomeno che il problema della legittimazione culturale del colore cessi di essere tale proprio in concomitanza di film come Il deserto rosso. A partire dagli anni sessanta, allora, la nuova sfida dell’uso critico-espressivo del colore diventa quella di sfogliare gli strati del visibile per mostrare il nuovo colore di un mondo nuovo, filmato nelle sue relazioni con il vecchio mondo e i vecchi colori, pittorici e non.


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[10] Cfr. Fabrizio Deriu, Comico. «Totò a colori». Una rivista cinematografica, in Il cinema e le altre arti, a cura di Leonardo Quaresima, Venezia, Marsilio, 1996, pp. 251-260.
[11] Il concetto di attrazione è stato impiegato in relazione al colore nel cinema delle origini da Tom Gunning, cfr. Metafore colorate: l’attrazione del colore nel cinema delle origini, in Il colore nel cinema, a cura di Monica Dall’Asta e Guglielmo Pescatore, in «Fotogenia», I (1994), n. 1, pp. 25-38.
[12] Elio Finestauri, L’era del colore si aprì con Totò (1971), in Il cinema tra tecnica e critica, Roma, Editrice Magma, 1975, p. 74.
[13] Cfr. Tonino Delli Colli, Al colore non ci credeva nessuno, in “Totò a colori” di Steno. Il film, il personaggio, il mito, a cura di Orio Caldiron, Roma, Edizioni Interculturali, pp. 89-90.
[14] Cfr. Maurizio Grande, Bozzetti e opere, in Il cinema italiano degli anni ’50, a cura di Giorgio Tinazzi, Venezia, Marsilio, 1979, pp. 148-177.
[15] Tutte le spinte in direzione attrazionale sono convogliate sul nuovo dispositivo dello schermo largo, fatto oggetto di peculiari strategie di esibizione, cfr. Federico Vitella, The Critical Style of Early Widescreen Italian Cinema: Attractional Strategies and Symbolic Forms, in Lo stile cinematografico. Film Style, a cura di Enrico Biasin, Giulio Bursi e Leonardo Quaresima, XIII International Film Studies Conference (Udine, 27-30 marzo 2006), Udine, Forum, 2007, pp. 227-234.
[16] Il deserto rosso fu stampato con il sistema Technicolor.
[17] L’idea di un uso critico-espressivo del colore è ripresa dal concetto di cinema critico-espressivo proposta da Mario Pezzella: cfr. Estetica del cinema, Bologna, Il Mulino, 1996.
[18] Cfr. Michelangelo Antonioni, Del colore, in «Corriere Padano», 2 gennaio 1940 (ora in Id., Sul cinema, a cura di Carlo di Carlo e Giorgio Tinazzi, Venezia, Marsilio, 2004, pp. 185-187); Id., Suggerimenti di Hegel, in «Cinema», a. VII 10 dicembre 1942, n. 155, pp. 702-703 (ivi, pp. 187-193); Id., Il colore e l'America, in «Fiera Letteraria», a. II 27 novembre 1947 (ora in «Bianco e Nero», a. LXII novembre-dicembre 2001, n. 6, pp. 120-123); Id. Il colore non viene dall'America, in «Film Rivista», a. IV 18 dicembre 1947 (ora in Id, Sul cinema, cit. pp. 193-195). Suggerimenti di Hegel fu ripubblicato in «Cinemasessanta» (a. IV dicembre 1964, n. 48, pp. 11-14) in concomitanza con l’uscita di Il deserto rosso.
[19] Per un approccio al cinema di Antonioni fondato sulla centralità dello sguardo come esperienza conoscitiva cfr. Lorenzo Cuccu, La visione come problema. Forme e svolgimento del cinema di Antonioni, Roma, Bulzoni, 1973.
[20] Una lettura del colore in chiave psicologica è stata invece promossa da Carlo Di Carlo in concomitanza con l'uscita del film: cfr. Il colore dei sentimenti, in “Il deserto rosso” di Michelangelo Antonioni, a cura di Carlo Di Carlo, Bologna, Cappelli, 1964, pp. 27-35.
[21] In due inquadrature della sequenza, in particolare, il tavolo in primo piano ha lo stesso colore della parete di fondo: la figurazione dell’inquadratura e le decorazioni sulla parete costituiscono un richiamo al dipinto La desserte: harmonie rouge (1908-1909) di Matisse (imm. 18). Per un’analisi di questa sequenza, cfr. Clotilde Simond, La desserte rouge. Michelangelo Antonioni: « Le Désert rouge », in La couleur en cinéma, a cura di Jacques Aumont, Milano-Paris, Edizioni Gabriele Mazzotta-Cinémathèque Française, 1995, pp. 23-24. Peraltro, Antonioni aveva visitato l’atelier di Matisse nell’estate del 1944: cfr. Michelangelo Antonioni, Incontro con Matisse, in «Cosmopolita», a. 1 9 settembre 1944, n. 6, p. 7 (ora in Id., Sul cinema, cit., pp. 209-211.
[22] Per un’interpretazione del cinema di Antonioni legata all’idea di «perdita di centro», cfr. Sandro Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, Venezia, Marsilio, 2002; per la parte dedicata a Il deserto rosso, cfr. pp. 180-188.
[23] La sequenza ambientata nel magazzino con le damigiane è analizzata in: Alain Philippon, Etude en bleu. Michelanchelo Antonioni: « Le Désert rouge », in La couleur en cinéma, cit., pp. 149-150
[24] Per un approfondimento sui molteplici riferimenti artistici messi in atto all’interno del film, rimando ai testi su Il deserto rosso citati nelle note precedenti e a un documentato saggio di Angela Delle Vacche: Michelangelo Antonioni’s “Red Desert”. Painting as Ventriloquism and Color as Movement (Architecture and Painting), in Color, The Film Reader, cit., pp. 183-191. Il testo propone una ricca serie di fonti iconografiche che possono aver agito su Antonioni e si sofferma in particolare sui rapporti  tra l’autore e la pittura informale. Sul rapporto tra colore e pittura, cfr. anche Roberto Campari, Da “Deserto rosso”: il colore, in Michelangelo Antonioni. Identificazione di un autore. Forma e racconto nel cinema di Antonioni, a cura di Giorgio Tinazzi, Parma, Pratiche, 1985, pp. 161-166.


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