In occasione della mostra Scènes de
Yannis Kokkos al Centre national du costume de scène et de la scénographie
(Moulins, 28 novembre 2020-25 aprile 2021), lartista di origine greca ha fatto
uscire alle stampe la sua autobiografia. Quasi in forma di journal, la vita di Yannis Kokkos è raccolta in un
bel volume di grande formato, riccamente illustrato, con lesauriente,
impressionante rassegna in immagini di unopera immensa, sviluppata in
cinquantacinque anni e tuttora in corso. La corresponsabile dellesposizione, Catherine Trehilou-Balaudé, cura la Cronologia degli spettacoli, preceduta
dallanalisi, Obscures clartés, del lavoro
del regista, scenografo e costumista – dai primi disegni allopera interpretata
in palcoscenico – nellintento di raggiungere un pubblico nuovo e allargato. La
grafica è luminosa e raffinata, dampia impaginazione, nella quale il tratto
immediato dellartista gareggia con la resa scenica dei suoi spettacoli,
oggettivata nelle fotografie di scena, nei bozzetti degli allestimenti e dei
costumi. Una galleria suggestiva e sorprendente anche per chi abbia avuto la
fortuna di assistere alle realizzazioni dal vivo.
Annoto alcune date e tappe di una
carriera intensa e luminosa. Nato ad Atene nel 1944, Kokkos segue la scuola di
Belle Arti e coglie le prime mozioni espressive dalla vita di quartiere e da
letture eterogenee, facilitate dal gusto francofilo della madre. Lascolto del
teatro radiofonico e qualche spettacolo a Epidauro lo aprono a quella nozione
di théâtre, rêve éveillé che sarà la
sua “divisa”. Dal 1963 frequenta a Strasburgo la scuola del Centre Dramatique
de lEst, poi Théâtre National de Strasbourg. A causa della dittatura, non
rientra in patria e dal 1967 si stabilisce a Parigi.
In quegli anni esordisce professionalmente
come scenografo e costumista di svariati spettacoli, da Marivaux a Paisisello, da
Labiche a Hugo. Naturali e consentanei gli incontri artistici, orientativi
della sua sensibilità pronta e della sua intelligenza inventiva: quelli con Patrice Chéreau, Antoine Bourseiller, Pierre
Debauche e con il traduttore Pierre
Leyris che lo introduce a Shakespeare
e a Eliot. Preziosa lamicizia con Hubert Gignoux; decisiva quella con Antoine Vitez, per un sodalizio durato ventanni,
con trenta allestimenti, da Le Précepteur
di Lenz (1970) a La Vie de Galilée (Vita di Galileo) di Brecht
(1990). È il periodo dei gloriosi “années Chaillot”: il teatro sede del TNP di Vilar ritrova fecondità artistica negli
eventi esemplari di Faust (1981), Tombeau pour cinq cent mille soldats, Hamlet, Falsch, Le Prince travesti, La Mouette, Ubu Roi, Lucrèce Borgia, LÉchange e Le Soulier de satin (1987).
La formula del sodalizio creativo
di lunga durata si ripete nella collaborazione con Jacques Lassalle, subentrato come direttore alla Comédie-Française,
con il quale aveva già lavorato per À la
renverse di Vinaver (1980), La locandiera di Goldoni (1981), Lohengrin di Wagner (1982), Lear di Reimann
(1982), Les Estivants di Gorki (1983) e Le Tartuffe di Molière (1984). Con lamico Lasalle condivide quellamore
per il cinema che nel giovane Yannis era nato assistendo ai capolavori di Fellini, Bergman, Antonioni, rimeditati
ad Atene «en temps de crise» (p. 77). Kokkos si addestra così alla
responsabilità completa degli allestimenti, assunta con la sua prima regia
teatrale, La Princesse blanche di Rilke (1987), e con la sua prima regia lirica,
Boris Godunov di Musorgskij, diretta a Bologna (1989), momenti clou della sua fortuna internazionale.
Nel frattempo le stagioni
“francesi” toccano lacme con Le Soulier
de satin di Claudel al Festival
dAvignon, dove Kokkos affronta quel monumento teatrale riconoscendo, con
Vitez, che «pour représenter ce “théâtre-monde” il nétait possible de le faire
quen utilisant la simplicité archetypale dun plateau de bois. […] Une petite scène de quelques mètres carrés
devenait Le Théâtre» (p. 68). Limpegno è difficilmente descrivibile: «Jai du mal à définir mon travail par
les mots. Il me semble toujours omettre ce qui mimporte le plus» (p. 83),
anche nel motivare la scelta strenua del passaggio alla mise en scène, considerata «une dramaturgie appliquée à lespace et
au jeu, basée sur lélucidation du sens, la clarté de la narration» (p. 83). Kokkos
nutre la propria idea teatrale con limmersione nelle immagini dellinconscio, vagliate
e concretate nel disegno, animatore di spazio e ritmo dellazione: «Cest le dessin qui est à lorigine de
mes spectacles» (p. 83). Di Vitez accoglie la libertà del «faire théâtre de
tout», avendo partecipato ai suoi primi adattamenti di opere non nate per la
scena: «Tout est possible quand il y
a une necessité, une évidence que jappellerai “credibilité poétique”. Comme la
peinture abstraite» (p. 84).
Di ogni evento Kokkos prefigura
il significato e mostra i modi e gli strumenti per conseguirlo. Usa una lingua sobria
nel narrare quello che la scena già esprime nei segni e nelle proporzioni dei tratti
rari e decisi dellabbozzo. «Cette séparation dun espace de jeu et dun espace
imaginaire est une option qui me tente toujours» (p. 56), precisa, riandando al
dispositivo unico per i tre spettacoli del 1981 a Chaillot, sollecitato soprattutto
da Tombeau di Pierre Guyotat. Attinge ai ricordi per rivivere momenti di intimità
con i compagni davventura, in uno scambio istantaneo e profondo, sapiente nel
contrarre un patto creativo spontaneo, reciproco dono di scoperta e di sorpresa.
Perciò la memoria dei partners diventa
tesoro condivisibile. La concentrazione dei mesi di preparazione e di prove lascia,
nellevidenza documentaria dello spettacolo compiuto, una stupefacente
chiarezza: levento appare nella sua realtà comunicata e goduta, ormai
decantata nella memoria, come sublimata e indelebile.
Per i teatranti e i critici
italiani è forse meno nota lattività di Kokkos nel teatro musicale. Nellillustrarla
con speciale partecipazione emotiva lautore rievoca molteplici allestimenti italiani
e scaligeri: Pelléas et Mélisande di Debussy (1986), Ifigenia in Aulide di Gluck
(2002), Il vascello fantasma di Wagner (2004), Assassinio nella cattedrale di Pizzetti
(2009), Medea di Cherubini (2007), La Femme
sans ombre di Strauss (2010). In
Outis di Luciano Berio (1999) la musica promotrice di immagini gli appare prioritaria
per la riuscita dello spettacolo.
La studiosa Odette Aslan ha sua volta valutato poesia e tecnica nellautore
sedotto dal bianco, calligrafo dello spazio: «Kokkos offre à Vitez un
réalisme enchanté» (Metteurs en scène et
scénographes du XXe siècle, Lausanne, Lâge dhomme, 2014, p.
217). Pertanto la percezione del reale si unisce, in una metamorfosi fantastica,
alla novità scenica, ogni volta miracolosa, eppure attesa perché calcolata. Lartista constata: «Le théâtre transfigure les formes les plus aléatoires en instants
déternité» (p. 114). Nella crescente attenzione alle implicazioni
estetiche e funzionali della scenografia, in Francia se ne è posta in
discussione la stessa nozione, nella nuova definizione di scénologie: in una formulazione più recente, «létude scientifique
de la scénographie, de la scène, de la logique scénique au théâtre, à lopéra,
en danse, au cinéma, à la television» (M. Freydefont in 40 ans de scénographie, a cura di L. Boucris, Montpellier, lEntretemps,
2010).
Partecipe di una intelligenza critica
in progress delle arti della scena,
il libro di Kokkos sinserisce in quel moto avviato da tempo con una sensibilità
nuova ben radicata in una lunga tradizione, problematica ma luminosa. La stessa
curatrice Trehilou-Balaudé, del
resto, riprende in Obscures clartés quei
medesimi motivi per illustrare i criteri della mostra di Moulins e le peculiarità dellarte esposta. Oltre
agli oggetti concreti, si esalta di Kokkos il ruolo del disegno, «le lieu de
linvention simultanée de lespace et de la présence humaine […]. Son dessin a tout dun acte dramaturgique.
Il contient en germe la mise en scène, tout en possedant une valeur esthétique
certain» (p. 283). Chiude il libro la citata Chronologie completa degli spettacoli (più di duecento titoli).
di Gianni Poli
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