«Così ci facciamo risucchiare dal futuro, incapaci di vivere veramente un
solo minuto della nostra vita», afferma Thich Nhat Hanh in un suo saggio
del 1974, Il miracolo della presenza mentale (Roma, Ubaldini, 1992, p.
17). Sofia Nappi e la sua compagnia KOMOCO chiudono il cartellone di
danza di Fabbrica Europa, presentando al Teatro Cantiere Florida Ima, un
omaggio al momento presente come fonte di vita.
Mentre il buio pian piano si dilegua, lasciando la visione di unatmosfera
crepuscolare dai colori caldi, nella sala si diffonde un motivo suonato al
pianoforte che ricorda quello di Pëtr Ilič Čajkovskij per Il lago
dei cigni. Entrano in scena cinque figure dai tratti deformati, esagerati,
che avanzano lentamente, trascinando valigie di diverse misure, simbolo del
viaggio, riecheggiando un recente lavoro di Versiliadanza, proposto in
occasione dei trentanni della compagnia fiorentina: Prochain Arręt,
ma soprattutto i due anziani amanti del Tango delle capinere di Emma
Dante.
I personaggi, simili a pupi di siciliana memoria, hanno volti segnati dalletà
ma corpi giovani e flessibili. La scenografia si compone movimento dopo
movimento con le stesse valigie, la più grande delle quali si apre a mo di
camerino, di scrigno pieno di costumi e oggetti con cui creare sempre nuovi
quadri. I performer si vestono e si svestono, cambiano posizione e
atteggiamento, come in una casa di bambole o in un teatrino di marionette. Si
preparando per un concerto; e infatti, mentre utilizzando alcuni strumenti
musicali in maniera impropria, chi a rovescio, chi impugnando archi immaginari,
in teatro risuona ad alto volume il valzer n. 2 di Dmitrij Dmitrievič
Šostakovič, pezzo iconico della storia dello spettacolo – e del cinema, con
Eyes Wide Shut (1999) di Stanley Kubrick – che sembra un po
denunciare la volontà di Nappi di porsi a metà strada tra mainstream e
sperimentazione.
Un momento dello spettacolo © Maks Richter
La ricerca cè, valorizzata dai contrasti e dalla contaminazione. La
coreografia, così come la scenografia, si trasforma continuamente, in bilico
tra la maniera e leccezione alla regola, tra soli, duetti e movimenti
dinsieme, tra swing e charleston, tra tribalità e hip hop,
senza prescindere dalle linee dellaccademismo e dalla dolcezza del valzer. Ne
risulta un movimento ben saldo sui propri modelli ma capace di superarli, con
la potenzialità di guadagnarsi una posizione privilegiata di livello
internazionale.
I costumi pensati da Luigi Formicola e le luci di Alessandro Caso
sono essi stessi elementi narrativi; i primi – più che semplici abiti – sono estensioni
del corpo con i quali i danzatori quasi duettano; le luci creano atmosfera e
talvolta si fanno entità con cui interagire. Komoco propone una danza costruita
sulla musica, sui ritmi, sulle melodie; se da una parte – a fronte di tanta
produzione contemporanea basata sul silenzio – ciò risulta sovversivo,
dallaltra si avverte la paura dellhorror
vacui, coerentissima col concetto che Ima ha lambizione di
proporre.
Un momento dello spettacolo © Silvia Cingano
Emblematico, poi, il togliere la maschera, il mostrare lessenza che –
probabilmente – pur in questo vortice di continuo cambiamento, rimane la medesima.
I volti degli interpreti tornano a somigliare ai loro corpi possenti ed
elastici mentre la perdita di un volto artificiale, o forse sarebbe meglio dire
sedimentato, lascia abbondante spazio in scena allespressione di sentimenti ed
emozioni. Le maschere tuttavia non spariscono ma incombono sul palcoscenico,
custodite nella grande valigia: saranno le ultime a uscire di scena, illuminate
nella penombra fino a dopo gli inchini al pubblico. Il lavoro dei danzatori (Arthur
Bouilliol, Leonardo de Santis, Glenda Gheller, India
Guanzini e Paolo Piancastelli) – certamente supportato dalla
coreografa Nappi – è notevole. Nel complesso, si tratta di un lavoro di penetrante
pregio estetico, perfettamente in equilibrio tra arte e intrattenimento.
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