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Il canto muto della sirena

di Giuseppe Mattia
  Selva trágica
Data di pubblicazione su web 06/09/2020  

Sembra ormai appurato che la spina dorsale di questa sezione Orizzonti della Mostra sia caratterizzata da una ricerca stilistica e formale audace e insieme consapevole dei rischi legati a un certo tipo di sperimentalismo. Selva trágica, della regista messicana Yulene Olaizola, ne è la prova, rappresentando un tassello di difficile collocazione nel genere e nelle intenzioni, che tuttavia non passa inosservato in laguna per la sua messa in scena e per le atmosfere evocate. 

Nella giungla al confine tra Messico e Belize una donna di nome Agnes (Indira Rubie Andrewin) è ferita e in fuga, braccata come una lepre da un uomo inglese di cui ha probabilmente rifiutato le avances. Viene ritrovata priva di sensi da un gruppo di estrattori di gomma dagli alberi. Questi, sottopagati da un onnipresente padrone tiranno, sembrano intimoriti ed estasiati allo stesso tempo da “quell’oscuro oggetto del desiderio” che non parla la loro lingua. L’entrata in scena della donna sarà la causa della loro progressiva trasformazione in selvaggi dissoluti e avidi. Una voce narrante accompagna la visione con dissertazioni filosofiche sulla natura che rimandano alla fatale Xtabay, figura femminile appartenente alla mitologia Maya. 


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Una scena del film
© Biennale Cinema 2020

Tra il documentario e la finzione, Selva trágica incede con un ritmo scrupolosamente ponderato, come i passi degli uomini guardinghi tra le fronde attenti a non far rumore, a non guardarsi indietro, a non lasciare tracce, anch’essi braccati dagli inglesi in cerca della gomma che trasportano. Il loro destino sembra pendere dalle labbra e dai sinuosi movimenti di Agnes, vendicativa spada di Damocle vivente. L’intento della regista, qui anche in veste di sceneggiatrice, è quello di trasporre sullo schermo il mistero della natura profonda, inaccessibile, restituendo un’atmosfera primordiale anche grazie alla straordinaria direzione della fotografia della connazionale Sofia Oggioni, capace di “sottomettere al proprio volere” ogni raggio di sole o di luna filtrante fra la fitta vegetazione, nonostante le inevitabili difficoltà del caso (filmare in studio è un conto, nella giungla è un altro: chiedere a Francis Ford Coppola). Anche la selva si fa entità superiore in grado di “ascoltare”: di dare ma anche di togliere. Una natura rappresentata in forma amena, che ricorda quella di The New World (2005) di Terrence Malick, ma anche quella messaggera di morte raccontata da Werner Herzog in Aguirre, der Zorn Gottes (1972).



Una scena del film
© Biennale Cinema 2020

Le falle nella pellicola riguardano alcune superficialità nella scrittura, come i personaggi maschili troppo stereotipati nei ruoli e un eccessivo mistero legato agli avvenimenti, causa di svariati anacronismi: si veda anche l’impossibilità di inquadrare le vicende in un preciso contesto storico. In aggiunta, il racconto non riesce a suscitare empatia nello spettatore. Inesorabilmente nella seconda parte il film precipita verso una narrazione metaforica, astratta, che oltre alle atmosfere ricostruite prova ad aggrapparsi con le unghie alla figura dell’umiliata e offesa Agnes (nome che deriva dall’aggettivo greco hagnós, “puro”). La giovane compie un processo di immedesimazione con la natura stessa, trasformandosi nel finale in Xtabay, una sirena omerica che ammalia, attrae e punisce. Tra sparatorie, stupri e allucinazioni assistiamo a una proiezione a suo modo originale. Il coraggio c’è, la messinscena pure. La scrittura meno.




Selva trágica
cast cast & credits
 


La regista
La regista Yulene Olaizola



 
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