Lohengrin è una fiaba fuori tempo massimo. LOttocento, infatti, è il secolo che ha perso linnocenza, e alle fiabe non ci crede più. È anche però il secolo segnato da unautentica ossessione per le fiabe, lepoca in cui le fiabe si raccolgono, si catalogano, si studiano, si analizzano, si leggono e si riproducono, per godere in modo cosciente della loro “ingenuità”, provando allo stesso tempo il brivido degli abissi inquietanti che questa stessa ingenuità offre a lettori ormai moderni. Nelle fiabe Wagner e il suo secolo iniziano a vedere nientaltro che trasposizioni archetipiche di storie tutte contemporanee, in cui i mostri non sono che i nostri traumi, e in cui anche gli incantesimi buoni celano sempre un lato minaccioso: la psicanalisi è, in fondo, una delle poche “fiabe” possibili della modernità.
La Scala ha affidato lopera dinaugurazione della stagione 2013 a Claus Guth, che ha offerto una delle prove migliori nel campo della regia wagneriana contemporanea, sia per lefficacia scenica, sia per la profondità intellettuale della sua interpretazione. Anche stavolta il regista tedesco ha fatto della psicanalisi lelemento base della sua produzione. Questa è in generale una caratteristica di Guth, come si è potuto notare mettendo a confronto le sue recenti regie per la Scala. Tuttavia, nonostante qualche elemento ricorrente (soprattutto sul piano visivo), il suo Lohengrin è stato molto diverso dalla sua precedente, altrettanto splendida messinscena “psicanalitica” vista a Milano, Die Frau ohne Schatten dello scorso marzo. E questa varietà è tanto più notevole, poiché non sempre distingue gli allestimenti dello stesso regista presentati di recente in questo teatro, come, per esempio, LOrfeo e Il ritorno di Ulisse in patria per la regia di Robert Wilson rispettivamente delle stagioni 2009 e 2011.
Nel Lohengrin di Guth lazione si svolge nel cortile di un non meglio specificato edificio (una caserma? una scuola? un condominio?): ciò che importa è che siamo in pieno Ottocento, con scene e costumi modellati su esempi della metà del secolo (scene e costumi di Christian Schmidt). Elsa è una fanciulla segnata da un trauma (la morte del fratello Gottfried, subito evocata al levarsi del sipario allinizio del primo atto) e dai soprusi subiti in uninfanzia senza genitori (la vediamo bambina bacchettata da Ortrud, la sua istitutrice-insegnante di pianoforte, cattiva come nella migliore tradizione narrativa ottocentesca): Lohengrin è per lei non tanto il cavaliere miracoloso che arriva sul cigno, ma lamico immaginario sognato come unico sollievo in un presente difficile. Sia Elsa sia Lohengrin hanno una passione per la musica: nei momenti di massima tensione emotiva o di paura entrambi si nascondono dietro il pianoforte (altro elemento tipicamente ottocentesco sempre presente in scena): Guth rappresenta così il ruolo che la modernità assegna alla musica, un regno sicuro al riparo dalla dura realtà quotidiana, un rifugio per lindividuo contemporaneo assediato dalle difficoltà della società moderna. Il mondo dei sogni di Elsa, però, non è alla fine migliore di quello reale (in termini psicanalitici, non può esserlo): il suo “cavaliere” è nel profondo non meno disturbato di quanto lei non sia: Lohengrin va in giro scalzo, ha strani tremolii e gesti inconsulti, sembra a disagio di fronte alle acclamazioni del popolo, e, alla fine si distende al suolo e muore, nella stessa posizione in cui era spuntato fuori dal nulla per la prima volta. Questa è una breve descrizione che non può nemmeno da lontano tentare di rendere giustizia alla complessità e ricchezza della regia di Guth, che, particolare non scontato, ha prestato grande cura alla recitazione dei cantanti e del coro. Come la sua precedente Die Frau ohne Schatten, questo Lohengrin è uno degli spettacoli migliori che abbia visto, non solo nel 2012, e certamente un ottimo inizio di stagione per il teatro milanese.
La direzione di Daniel Barenboim si è sposata perfettamente con la messinscena di Guth, offrendo una lettura della partitura energica, nervosa, a tratti di una languidezza estenuante, ma sempre di grande teatralità. Eccellente è stata la prova sia del coro (preparato come sempre in modo impeccabile da Bruno Casoni), sia dellOrchestra. Lo stesso si può dire del cast vocale. Željko Lučić è un vero lusso in un ruolo non principale (Der Heerrufer des Königs), la sua voce di baritono è senzaltro più ferma e a fuoco di quella di Tómas Tómasson, un Friederich von Telramund passionale ma affaticato nel secondo atto. Con la sua autorevolezza vocale René Pape ha tratteggiato un re Heinrich del Vogler ricco di sfumature, mentre Evelyn Herlitzius è stata una Ortud impetuosa, con acuti e gravi sicuri e sonori (se per il troppo impeto le note acute di tanto in tanto erano gridate, erano comunque funzionali alla caratterizzazione barbara e malefica del suo personaggio). Anja Harteros (Elsa) ha cancellato per indisposizione le prime tre recite, sostituita allultimo minuto da Annette Dasch, che ha letteralmente salvato la prima del 7 dicembre, volando da Berlino il giorno prima (dove cantava nella Finta giardiniera di Mozart!), e offrendo unesecuzione molto convincente del personaggio (è quella trasmessa in televisione). Il 21 dicembre Harteros è tornata alla Scala in forma vocale smagliante: la sua è stata una Elsa di grande intensità, perfetta nel conferire ricchezza di colori e profondità psicologica a quello che è forse il personaggio più monocorde dellopera. Onestamente, nella mia esperienza di spettatore dopera solo molto di rado ho assistito a uninterpretazione così convincente e coinvolgente, sia dal punto di vista musicale che teatrale, come il Lohengrin di Jonas Kaufmann: il suo terzo atto è stato un tale capolavoro di recitazione vocale e fisica, che il pubblico ne è rimasto letteralmente soggiogato, a giudicare dal silenzio concentrato con cui è stato seguito, e dallovazione entusiastica che il cantante ha ricevuto alle chiamate finali.
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